di Massimo Vaglio
Il cotogno appartiene all’ordine delle Rosales, alla famiglia della Rosacee e alla sottofamiglia delle Pomoidee. La specie da frutto è la Cydonia oblonga Mill 1768.
La specie a sua volta è divisa in varie sottospecie che sono: la “Cydonia oblonga Pyriformis”, la “Cydonia oblonga Maliformis”, la “Cydonia oblonga Lusitanica”, la “Cydonia oblonga Pyramidalis” e la “Cydonia oblonga Marmorata”.
Le varietà che producono frutti (pomi) eduli, appartengono alle sottospecie Maliformis, Pyriformis e Lusitanica, mentre le sottospecie Marmorata e Pyramidalis, hanno elusivamente un interesse ornamentale.
Si suppone che sia originario della Persia e precisamente della regione
del Caspio, dove lo si ritrova allo stato selvatico. È una delle piante da frutto più anticamente conosciute, veniva infatti coltivato già 2.000 anni prima di Cristo dai Babilonesi. Nell’antica Grecia era un frutto consacrato a Venere e come si evince dagli scritti di Catone, Plinio, Virgilio ed altri, era molto utilizzato ed apprezzato anche dai
Romani.
Il cotogno preferisce clima temperato-caldo, ed infatti la coltura per la produzione di frutti, ha la sua maggiore area di diffusione nelle zone meridionali ove le piante riescono a dare frutti dolci, sufficientemente commestibili. In fatto di terreno, il più indicato è quello profondo, fresco, povero di calcare, con pH inferiore a 6, ovvero leggermente acido e tendente allo sciolto.
La propagazione si effettua per talea, margotta e per innesto su franco, ossia su
piante ottenute da seme. A livello amatoriale viene pure innestato su azzeruolo o biancospino; quest’ultimo è particolarmente indicato per i terreni calcarei. La moltiplicazione per seme, per quanto possibile,
viene effettuata solo quando si vogliono ottenere nuove cultivar o per ottenere soggetti da impiegare come portainnesti per lo stesso cotogno o per il pero.
L’albero raggiunge a maturità i 3-5 metri di altezza, reca foglie tomentose e fiori solitari bianco-rosati. La coltura è soggetta ad essere attaccata dagli stessi parassiti del melo, anche se in genere dimostra maggiore resistenza. I frutti, che hanno un aroma e un profumo particolare, conservano anche a maturazione il tipico sapore astringente; si presentano ricoperti da una fitta peluria che cade per semplice sfregamento.
La polpa dei frutti, che maturano in settembre-ottobre, è acida, astringente, ma cotta e dolcificata, sia da sola che mescolata alla polpa di altra frutta si presta egregiamente per la preparazione di conserve quali cotognate, gelatine, mostarde e, in misura minore di distillati.
Le logge del frutto, contengono un elevato numero di semi, protetti da un tegumento il cui strato più esterno, che viene appellato tecnicamente “testa”, genera nell’acqua una sostanza mucillaginosa che si utilizza per la preparazione di bevante e pomate.
I frutti, venivano anche posti negli armadi e nei cassetti per profumare la biancheria. La produzione mondiale di cotogne, negli untimi decenni ha subito una drastica diminuzione e si attesta intorno ai 2 milioni di quintali, prodotti principalmente in America del Sud, Asia e America del Nord che forniscono insieme, circa il 50% del fabbisogno mondiale, mentre la restante parte, viene prodotta nei paesi dell’Europa orientale, Bulgaria in primis.
La produzione italiana di cotogne è ormai ai minimi storici, è infatti passata dai 175.000 quintali che si producevano nel 1966 ai circa 6.000 quintali rilevati dall’Istat nel 2007. Alla fine degli anni “50 del secolo scorso, la Puglia, con una media produttiva di oltre 100.000 quintali annui deteneva il primato assoluto di questa produzione, seguita a lunghissima distanza da Campania, Sicilia, Sardegna e Abruzzo. Mentre la provincia italiana dove il cotogno trovava maggiore diffusione era quella di Lecce, seguita da quella di Foggia e di Pescara che sino alla metà degli anni “70 mantenevano ancora una produzione di circa 10.000 quintali ciascuna. A questo punto, si può asserire che in Italia non esiste praticamente più una coltivazione organizzata praticata in frutteti specializzati, infatti, l’esigua produzione nazionale proviene in massima parte da alberi sparsi o coltivati in piccoli nuclei e va a sostenere le richieste di ancor più risicate nicchie di consumatori.
Sino alla fine degli anni “60 la confettura di cotogne era un alimento diffusissimo, confezionata in pratici cubetti monoporzione, rientrava comunemente nelle razioni dei militari ed era praticamente immancabile nelle refezioni di scuole asili e comunità. Milioni e milioni di
genuini, quanto gustosi e nutrienti pezzi di confettura che andavano a sostenere una sana economia agricola ed agroalimentare, ingloriosamente archiviati, sostituiti con la più ghiotta, ma certamente anche meno salutare “Cremalba”, oggi Nutella, fortunatissima creazione dell’agroindustria italica. Il risultato, è che oggi, il cotogno è una delle specie da frutto a maggior rischio d’estinzione, a causa proprio della
perdita d’interesse della sua coltivazione, per cui diviene fondamentale conservare e salvaguardare le diverse varietà locali.
Salvaguardia che andrebbe effettuata facendo una caratterizzazione morfologica ed agronomica di tutti i principali caratteri vegetativi e produttivi, procedendo quindi alla loro catalogazione e riproduzione.
Il Salento è fortemente caratterizzato dalla presenza di terreni carsici, in larga parte pietrosi e comunque nella quasi totalità calcarei, quindi la coltura del cotogno, pianta calcifuga per eccellenza, è limitata a delle ben circoscritte aree di origine alluvionale costituite da terre nere argillose e ricche di humus. Di simili zone, ve ne sono di diverse, di varia ampiezza, distribuite per tutta la subregione, la più vasta delle quali è la cosiddetta Valle della Cupa, un’ampia, fertile depressione a Ovest di Lecce, che è stata, neanche a dirlo, sempre la primaria fonte di approvigionamento ortofrutticolo di questa città.
Grazie alla ricca e superficiale falda appesa, vi sorgevano dei rigogliosissimi orti e frutteti, e proprio qui, era ed è tuttora concentrata, la quasi totalità della produzione di cotogne della provincia, materia prima della tuttora celebre “cotognata leccese”. La cittadina di San Pietro in Lama è in testa a questa produzione, il suo territorio è ampiamente caratterizzato da questa pianta, presente sia in piccoli gruppi, ai margini di altre colture, che in piccoli frutteti specializzati. In secoli di coltivazione, sono stati selezionati alcuni cloni (anche se non meglio identificabili), particolarmente adatti al torrido clima locale.
La maggior parte delle coltivazioni ivi esistenti è caratterizzata da alberi anche molto grandi portati a volume, molto produttivi di frutti di pezzatura media, buona presenza e colorazione. Una varietà molto apprezzata è quella trilobata che produce frutti piuttosto allungati, quasi piriformi, localmente nota con la denominazione di “cutugni a piru”. Infine, è da rilevare l’esistenza di qualche clone di cotogno che produce frutti molto grossi, anche oltre il mezzo chilogrammo di peso, che localmente vengono comunemente distinti con l’aggettivo, di “pacci” = pazzi, Questo termine, infatti, nell’idioma salentino assume anche il significato di gigante.
Tornando alla cotognata leccese, ovvero alla confettura o composta, che viene localmente tradizionalmente prodotta, non possiamo non convenire che si tratta senza dubbio di un prodotto d’eccellenza, comunemente adoperato come ingrediente nella pasticceria locale. Già magnificata da Vincenzo Corrado, che nel suo “Notiziario delle particolari produzioni delle Province del Regno di Napoli”, Napoli (….) così ne parla: “ … e pel senso del gusto san fare dilicate e gustose cotognate”, pare che questa produzione come quelle di Ruvo e di S. Fenicia, venisse già all’epoca in larga parte esportata all’estero.
Una tradizione prestigiosa quindi, che non ha trovato soluzione di continuità, se non, l’attuale drastico ridimensionamento dei volumi prodotti. Una produzione che nella prima metà del secolo scorso venne incrementata e razionalizzata raggiungendo il rango di vera industria e diverse erano le industrie dolciarie che stagionalmente vi si dedicavano, a fare da apripista certamente la rinomata ditta Raffaele Cesano che aveva proprio nella cotognata il prodotto di punta e che introdusse l’uso di un particolare macchinario che omogeneizzava la confettura ottenendo così uno standard qualitativo più costante. La memoria di tante altre aziende, non è andata completamente perduta perché immortalata sulle deliziose scatole di latta in cui questa veniva confezionata. Nella bacheca di un’appassionata collezionista, mi è capitato di ammirare decine di confezioni diverse e di scoprire, oltre alla Cesano, l’esistenza di altre aziende, operanti nello stesso periodo in città, fra queste, la ditta Francesco Fiorentino e la ditta Oronzo Tripoli.
Oggi, la tradizione viene brillantemente portata avanti da diverse pasticcerie di tradizione di Lecce e hinterland, quali: la Pasticceria Franchini; il Bar della Cotognata Leccese; la Pasticceria Natale e a livello più industrializzato, ma sempre con la stessa cura artigianale, dall’industria dolciaria Maglio.
Ecco la ricetta come la vuole la tradizione:
Lavate le cotogne sfregandole per eliminare la peluria, eliminate i torsoli e le eventuali ammaccature, tagliatele a pezzi e ponetele in una caldaia unendo mezzo litro d’acqua ogni 800 grammi di prodotto. Llasciate cuocere lentamente il tutto rigirando spesso con un cucchiaio di legno fino ad ottenere una poltiglia che passerete al setaccio, ottenendo così una purea. In un’altra caldaia (tradizionalmente vengono adoperate le caldaie di rame non stagnate) ponete 500 grammi di zucchero per ogni chilogrammo di purea e fatelo sciogliere con un po’ d’acqua; aggiungete la purea di mele cotogne e lasciate cuocere il tutto senza coperchio fino a quando la confettura avrà assunto una buona consistenza e la tipica colorazione rosso-bruna.
Versate la confettura così ottenuta in formine, oppure in teglie quadrangolari dai bordi bassi, una volta raffreddata tagliatela a pezzi avvolgeteli con carta oleata e conservateli in scatole di banda stagnata, oppure potete avviarla subito al consumo, tale, o cosparsa di zucchero semolato.
Come si può notare, in questa ricetta non è prevista l’eliminazione delle bucce, la cui presenza contribuisce ad addensare il prodotto e a caratterizzarlo con un maggiore aroma e una leggera, piacevole granulosità tipica delle produzioni familiari. Volendo ottenere un prodotto più raffinato dovrete procedere quindi alla preventiva eliminazione delle bucce, per proseguire poi nel modo anzi descritto.
Liquore di Cotogne
Ecco la ricetta di un piacevole liquore a base di cotogne, o meglio di bucce di cotogne, apprezzato per il gusto particolarmente grato e le ottime proprietà digestive e corroboranti.
Ingr.: 250 g di bucce di cotogne , 500 g di zucchero, 1,2 l di alcool a 95°, 3 dl di acqua minerale. Preparazione: mettete a macerare con l’ alcool le bucce, in un recipiente di vetro a chiusura ermetica. Dopo 40 giorni, sciogliete lo zucchero nell’acqua calda, fate raffreddare e unite lo sciroppo ottenuto alle bucce macerate. Lasciate riposare per
altri 20 giorni, al buio, agitando di tanto in tanto il recipiente .
Filtrate il liquore ottenuto attraverso una garza e imbottigliate. Si consiglia di lasciarlo “maturare” per almeno 6 mesi, prima di servirlo.
IN TERESSANTE ARTICOLO,NON SAPEVO CHE SI POTESSE FARE ANCHE IL LIQUORE DI COTOGNE
Mi complimento con l’amico Massimo per l’ottimo articolo e la fedeltà alla ricetta tradizionale. Mi permetto comunque aggiungere che il fare bene la cotognata, come le altre confetture del resto, è un’arte per la quale occorre molta dedizione e pazienza. Quando nella ricetta si dice “lasciate cuocere il tutto senza coperchio fino a quando la confettura avrà assunto una buona consistenza e la tipica colorazione rosso-bruna”, è implicito che per raggiungere la buona consistenza – atta a fare le formine e perché queste non abbiano ad ammuffire durante l’inverno – è necessario rigirare l’impasto in continuazione con un cucchiaio di legno, come è detto all’inizio per la lessatura delle cotogne. Senza questo stare in continuazione in piedi davanti al fornello buscandosi li nsiddhri (le gocce) scottanti per via ti lu spittirrare (del traboccare) dell’impasto dalla caldaia, si rischia o di bruciacchiare la confettura facendola attaccare tutta al fondo ed avendola non di colore rosso-bruno ma quasi nero, o di lasciarla morbida senza la possibilità di creare i pezzetti o le formine. Procedimento valevole anche per quando si decida di conservarla in vasi di vetro, onde evitare che dopo un po’ – alla vista di un accenno di muffa – si debba riversare nella pentola e ultimare la cottura a dovere.
Certo, oggi, rinunciando alla genuinità del prodotto, quasi tutti o tutte – per l’addensamento e solidificazione delle marmellate – usano le bustine di pectina, prodotto che abbrevia i tempi di cottura e i fastidi a cui mi sono riferito.
Io so tutte queste cose non perché sia un esperto dolciario (tutt’altro!) ma perché lo era mia moglie, riconosciuta tale, e in modo eccelso, da quanti l’hanno conosciuta da vicino e che ancora oggi lo possono testimoniare.
Lei si è sempre rifiutata di usare le bustine di pectina facilmente reperibili in commercio: diceva che era una perversione culinaria e che le confetture così frettolosamente ottenute erano la sottospecie se non addirittura la parvenza di quelle fatte nel modo tradizionale. Insisteva pure nel dire che vanno fatte in giorno di tramontana e, se donne, mai in periodo catameniale (oggettivazione – lei diceva – erroneamente attribuita a credenza o superstizione popolare ma da lei stessa accertata anche attraverso la scultura, che in quei giorni fatidici le era vietata perché la creta non reggeva la modellatura, perdeva di nerbo, si afflosciava).
Per ritornare alla solidificazione per ordine di cottura naturale, ricordo che lei si è sempre rifiutata di fare la cosiddetta “cotognata bianca” per il fatto che per ogni due chili di cotogne (tanto era la quantità consigliata per questa ricetta) si dovevano aggiungere 2 cucchiai di amido per dolci, che avrebbero consentito così di far bollire la purea mista allo zucchero (sempre tanto e tanto) per soli 5 minuti a fiamma forte. Un particolare per fortuna molto naturale di questa ricetta era quello di fare asciugare al sole le formine dopo averle passate nello zucchero. Era buonissima, noi la mangiavamo ogni anno perché regalata da due cugine di Giulietta che vivono a Lecce e che ancora ringrazio anche per la ricetta che mi ritrovo, cioè per l’appunto scritto perché dettato telefonicamente, ma ricordo che Giulietta preferiva confezionare il tipo rosso-bruno riconoscendogli le prerogative che quella bianca non aveva per l’eccessiva delicatezza o raffinatezza che dir si voglia.
Bell’articolo, molto interessante, devo provare subito a farla.
ho trovato per caso una pubblicita dei primi del 900, della ditta raffaele cesano ma non so come allegarvela
Posso vederla???
[…] https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/18/la-cotognata-leccese-un-prodotto-deccellenza/ […]
Per chi volesse cimentarsi la pectina la si può ricavare in maniera del tutto naturale dalle bucce di mela e di melacotogna. Io vorrei invece la ricetta della gelatina qualcuno la conosce?
I polloni radicali della pianta, molto flessibili, venivano (vengono) utilizzati per intrecciare cesti e panari.
Lodevole articolo per competenza ed intelligenza. Grazie
Ne ho già fatta circa 10 kg….ne ho ancora da fare. La ricetta della mia mamma è la seguente: x ogni kg di cotogne 600g di zucchero. Taglo a tocchetti le cotogne con tutta la buccia dopo averle pesate ci aggiungo lo zucchero le lascio macerare x circa 6-7 ore pongo la pentola sul fuoco basso e porto a bollizione x circa 1 ora anche meno fino a che le cotogne non risultano cotte da poter schiacciare con la passapomodori con buchi medi.dopo di che ripongo sul fuoco finché le cotogne non avranno raggiunto un colore bruno. Pongo la cotognata su carta forno in teglie di alluminio coperta in frigo.
Scusi, la matematica non e’ un mio punto di forza, ma il liquore cosi’ mi sembra che abbia un grado alcolico di 57% (!). Non e’ un po altino? grazie!