di Franco Arminio
Lo so, è tutto fragile, confuso. La salute morale facilmente si dissesta, il disincanto è più forte dell’incanto, le meraviglie di un giorno non si replicano il giorno dopo.
Parlando coi ragazzi che a Miggiano hanno frequentato un breve corso di paesologia, ho sentito con forza che nel sud c’è una grande capacità di manipolazione simbolica, di astrazione, e nello stesso tempo c’è un cuore conviviale, un’economia della generosità. Da qui bisogna partire ogni giorno, dall’idea che non è Milano la cosa che ci manca, ma siamo noi la cosa che manca a Milano.
Il Salento deve lavorare sui dettagli. Qui più che altrove l’essenziale c’è già. Te lo dà la taranta su una spalla, il sole in testa, il mare in gola, le case di calce, i palazzi di tufo, la pietra dolce delle chiese, i campanili di sughero, lo zucchero filato dei balconi.
Terra scoperta, penisola limata dal vento e dalla luce, terra senza tegole, senza montagne e senza colline, dove la modernità convive con un fiato di magia. Sono arrivato coi nervi aggrovigliati e il cuore scuro, sono tornato a casa coi nervi ben distesi e il cuore più chiaro.
Il Salento, almeno per chi viene da fuori, è una grande farmacia: la farmacia del mare, degli orti e degli ulivi, della luce.
Il sud irpino, il sud in cui vivo, è un frammento del polo incastonato nell’Appennino. Un sud scontroso, iroso, diffidente. Veniamo dalla stessa civiltà contadina, ma con un altro clima, con un’altra geografia. Non abbiamo intorno a noi la cintura epica del mare, abbiamo una terra mossa, agitata, rigata da un vento spinoso. Per me è difficile capire come fila la vita quotidiana salentina nella sua lunga stagione estiva. Da noi l’estate è una breve apparizione. I paesi sono lontani e devi fare sempre tante curve per trovarli. In certi posti l’unica pianura è il palmo della mano.
Il Salento è un’altra storia, non posso pensare di conoscerla passandoci dentro per qualche giorno. Quello che so è che mi fa bene. Al punto che mi fa perdere pure le parole (sono rimasto muto per tre ore su uno scoglio a Novaglie), perché le parole vengono più facilmente nei luoghi che infiammano i nervi, nei luoghi in cui sento solo avarizia e sfinimento.
So che anche qui il sud ha i suoi capannoni, i suoi silos dove raccoglie accidie e rancori. Ho visto coi miei occhi la campagna piena di rifiuti e so che quelli a vista sono ben poca cosa rispetto a quelli che hanno buttato nelle cave.
So che la classe politica di questi luoghi pensa ancora
ad infilarsi nei caselli dello sviluppismo, in un momento in cui bisognerebbe uscire dalla carreggiata, fare sentieri nuovi, impensati, piuttosto che allungare il collo di bitume al cieco bisonte della modernità.
Domenica scorsa ho incontrato molte persone che si battono contro una strada che dovrebbe trafiggere come una spada il Capo di Leuca. A un certo punto abbiamo trovato una grande pietra su cui una volta si batteva il grano. Ci siamo seduti ai bordi di questa pietra e abbiamo fatto silenzio e il silenzio ci ha fatto sentire tante cose di noi stessi e di quello che c’è fuori. Io ho visto le formiche sulla pietra, ho pensato alla malattia di mia madre, ho avvertito il sincero ardore dei miei compagni di passeggiata.
Tante persone venute a dire no a una strada inutile, tante persone animate da una militanza mite, capace di contestare ma anche di ammirare, una militanza in cui la voglia di cambiare il mondo non ti fa bendare lo sguardo a quello che c’è intorno, che comunque è sempre tanto e spesso è mirabile.
A me pare che oggi siamo chiamati a percepire più che a spacciare opinioni. E mi pare che la Terra ci chieda di essere guardata, ci chieda di non essere caricata come un asino.
Nel Salento più che altrove l’utopia meridiana può essere tagliata con lo scrupolo nordico (come avviene nella bella masseria che mi ha ospitato, gestita da una coppia del nord). Il sud non si salva assolvendosi, ribaltando cioè la sua antica vena vittimistica che ha ricevuto un notevole impulso dalla vicende funeste che portarono all’unità d’Italia. Abbiamo bisogno di guardare come siamo, abbiamo bisogno di congedarci dalla modernità incivile con cui abbiamo rottamato la civiltà contadina. È un bisogno che non deve riportare indietro il nostro sguardo, ma avanti. In fondo c’è una sola sagra che va bene per ogni luogo, la sagra del futuro.
(da il Paese nuovo – pag 19 di giovedì 24 maggio)
La parole decise, che Franco Arminio ha usato per descrivere il Salento, sono assolutamente ciò che avrei voluto scrivere io, se avessi la dote di tradurre tutto quello che lascia “dentro” questo piccolo lembo di terra…
Il Salento deve solo lavorare!Senza lavoro il Salento non si può narrare, tutto quello che è descritto non è pura immagine ma frutto dell’operosità della gente che emigra per non ammalarsi di poesia.
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Splendido pezzo!