di Armando Polito
nome scientifico: Ziziphus jujuba Mill.
nome italiano: giùggiola
nome dialettale: scèsciula
famiglia: Rhamnaceae
–A cci tanto e a ccii nienti! (a chi tanto e a chi niente!)- mi viene da dire pensando a chi ha piantato con amore la nostra pianta di oggi e, nonostante le assidue cure, l’ha vista poi crescere stentatamente o addirittura morire. Io, invece, sono costretto quasi ogni anno ad eliminarne almeno una decina, dopo aver, per così dire, raccolto le amichevoli “ordinazioni”, senza contare quelle che si sviluppano alla base della pianta madre. Mi viene pure in mente lu Patreternu tae li frisèddhe a ccinca no lli rrosica (alla lettera il Padreterno dà le friselle a chi non le mastica) ma questa volta il detto non mi si adatta, non tanto perché finché non mi cadrà l’unico dente non potrò considerarmi sdentato, ma perché di scèsciule sono ghiotto, anche se rischio sempre di mangiarle insieme con la carne. L’immagine non è propriamente elegante, ma debbo spiegarmi meglio: il nostro frutto, almeno il mio, spesso appare integro ma all’interno presenta un indesiderato ospite che ha già scavato, per lo più, le sue gallerie visibili solo al primo morso, ragion per cui debbo fare attenzione ad isolare la parte sana. Lo faccio da tempo immemorabile, anche perché la campagna in cui, fortunatamente, vivo non sa cosa sia un antiparassitario e così sarà finché vivrò. Solo un anno notai che le giuggiole erano tutte integre, proprio l’anno in cui alla loro base avevo seminato dei ravanelli. Da allora, ne sono trascorsi più di venti anni, mi sono ripromesso di rifarlo, anche se potrebbe essere stata una semplice coincididenza, ma, sarà colpa dell’arteriosclerosi, me ne sono puntualmente dimenticato.
Basta con le cose personali! È tempo di passare alla protagonista, nel tentativo di dire qualcosa in più rispetto a quanto gli amici spigola(u)tori) Luigi Cataldi e Massimo Vaglio hanno rispettivamente trattato nei loro post In un brodo di giuggiole del 2 settembre 2010 e Giuggiole, alias scèsciule, per pochi intenditori! del 10 novembre u. s., cominciando, al solito, dalle etimologie:
Zìziphus è il nome latino (nell’editto di Diocleziano, come dopo si dirà, compare la forma zìzufum), dal greco zìzoyfon; nel greco tardo è zizoulà che, con conservazione, però, dell’accento originario, ha dato vita alla voce italiana ed a quella dialettale. Quanto a jujuba il discorso è molto complicato. Potrebbe essere deformazione del primo componente (zìziphus) e, dunque, sostanzialmente una ripetizione, come succede nell’altro nome scientifico (Ziziphus ziziphus) ma potrebbe anche essere deformazione (attraverso un passaggio intermedio *jonnabon, da cui lo spagnolo jujuba, il francese jujube e il napoletano jojema) di onnabon, il nome dato dagli arabi alla varietà rossa (la bianca è zifzufon).
Rhamnaceae è forma aggettivale da rhamnus, a sua volta dal greco ramnos=pruno (e il pensiero non può non andare alle sue spine…).
Sistemata, più o meno, l’etimologia, passo alle più significative testimonianze antiche, cominciando da quelle del mondo greco che, tuttavia, questa volta, sono cronologicamente successive a quelle latine (il che corrobora la notizia di Plinio, che fra poco leggeremo, sull’importazione dalla Siria in Italia di questa pianta da parte dei Romani). E preliminarmente va detto che appare definitivamente tramontata la tesi ottocentesca che identificava, sulla scorta di un passo (II, 96) di Erodoto (V secolo a. C.) e sulla sua citazione (XII, 2, 2) da parte di Polibio (II secolo a. C.), proprio nel giuggiolo il lotòs, il frutto del paese dei Lotofagi, cantato da Omero (Odissea, IX, 94); oggi si tende ad identificare tale frutto con la carruba.
Alessandro di Tralle (medico del VI secolo d. C.): è sua l’attestazione della voce zizoulà1 sopra ricordata.
Geoponica (compilazione di 20 libri di agronomia risalente al X secolo, ma che comprende anche testi molto più antichi): “Dai polloni o dagli stoloni si piantano i meli e simili, come il cieliegio, il giuggiolo (zìzoyfon)…dalla talea e dai rami si piantano il mandorlo, il pero,…il giuggiolo…e trapiantati vengono meglio. “; “Il giuggiolo si pianta anche dai rami tolti dalla parte centrale dell’albero, secondo quanto dice Didimo nelle sue Georgiche”; “Le giuggiole (zìzoyfon, come l’albero) si conservano immerse nel vino misto a miele, poste su foglie di canna”.2
Passo agli autori latini. Columella (I secolo d. C.) cita lapidariamente il giuggiolo parlando delle fonti di alimentazione delle api: “Alberi raccomandabilissimisono il giuggiolo (ziziphum) rosso e il bianco…”, anche se poco dopo parlando del miele il nostro albero si classifica, a pari merito con la maggiorana, al quarto posto, dal momento che in riferimento alla bonta del prodotto è preceduto, a salire, dal rosmarino, dall’origano, e dal timo: “Di gusto mediocre sono poi i fiori della maggiorana e del giuggiolo”3.
Il contemporaneo Plinio: “Molti sono i generi di mele. Dei cedri e del loro albero ho detto. Mediche chiamarono i Greci quelle che vengono dalla Media. Ugualmente forestieri sono i giuggioli (ziziphum) e i lazzeruoli che sono giunti in Italia non da molto tempo. I primi dalla Siria, i secondi dall’Africa. Sesto Papinio, che ho visto console, per primo importò gli uni e gli altri negli ultimi anni del divino Augusto, piantandole nell’accampamento, simili alle bacche più che alle mele ma soprattutto adatte ai terrapieni, tanto che ormai si son formati boschetti pure sui tetti”; “I giuggioli si piantano col seme nel mese di aprile”4.
Molto probabilmente la scoperta delle proprietà terapeutiche della giuggiola, visto che negli autori fin qui esaminati non c’è il minimo cenno, è piuttosto tardiva. Tuttavia, che essa fosse senz’altro quotata come frutto è dimostrato dalla sua presenza nel calmiere stilato da Diocleziano nel 301: “Mezza libbra di giuggiole (zìzufum): 4 denari” 5 e da queste ulteriori considerazioni: mezza libbra corrispondeva a circa 163 g. e 4 denari erano nello stesso editto il prezzo massimo fissato per la stessa quantità di ciliege o per 10 mele di prima qualità (Mattiana o Saligniana).
Per vederne riconosciute, almeno ufficialmente, le proprietà terapeutiche bisognerà arrivare al secolo XVI e al medico Castore Durante da Gualdo, che nel suo Il tesoro della sanità fa precedere la relativa scheda (ma lo fa anche con gli altri frutti) da due distici elegiaci: Magna placent, tussim sedant stomacumque lacessunt,/humenti frigent zizipha temperie./Serica bacca rubens thoraci et renibus offert/praesidium, nutrit concoquiturque parum” 6 (Le giuggiole piacciono grosse, placano la tosse e stuzzicano lo stomaco, rinfrescano con la loro natura umida. La sua serica bacca dà giovamento giova al torace e alle reni, nutre ma è poco digeribile); ecco la scheda:
“Nomi. Latin. Zizipha. Ital. Giugube et Giuggiole.
Qualità. Le giuggiole mature son temperate così nel calido, come nell’humido.
Scelta. Si elegghino le mature, et ben rosse.
Giovamenti. Giovano il petto, alle reni, et alla vessica, fermano i vomiti causati dall’acredine degl’humori, se ne fa siroppo, il quale condensa il sangue colerico, et le materie sottili, che discendono al petto, et li metteno nelle decottion pettorali, per domare l’agrimonia del sangue, et cavar fuori il suo humore sieroso; giova alla tosse, et all’asprezze delle fauci. Ne i cibi son solamente dalli sfrenati fanciulli, et dalle donne molto le giuggiole desiderate.
Nocumenti. Sono di pochissimo nutrimento : molto malagevoli da digerire, et imperò molto contrarie allo stomaco.
Rimedi. Bisogna usarle in poca quantità, et solamente per medicina, et non per cibo, che se ne fa nelle spitiarie lo siropo giugiubino”7.
E un secolo dopo la nostra giuggiola raggiunge l’apice della carriera entrando nel ristretto ed apprezzato comitato dei “quattro frutti pettorali: dattoli, fichi, giuggiole e uva passa”8.
Per chi, infine, avesse nostalgia della “pasta di giuggiola”, una specie di gelatina fino a qualche decennio fa in vendita nelle farmacie, ecco il metodo per preparare qualcosa che lo farà andare, metaforicamente, in brodo di giuggiole:
Snocciolare i frutti secchi e pestare quanto più finemente possibile la polpa fino ad ottenere una massa di circa 400 g.; quindi lavorarla con 600 g. di zucchero fine, spianarla col matterello e metterla nel forno a temperatura moderata per circa dieci minuti. Quando è raffreddata dividerla in losanghe.
E per le caramelle di giuggiola: lasciare a bagno 30 grammi di giuggiole secche snocciolate in 200 grammi di acqua e poi sciogliere a caldo nell’infuso 180 g. di gomma arabica. Filtrare il liquido con un panno, aggiungervi 220 g. di sciroppo semplice, bollire finché il tutto non raggiunge una consistenza pastosa. Profumare con 10 g. di fiori di arancio, togliere la schiuma e versare in stampi di adeguata dimensione e mettere in forno a 30° per dieci minuti circa. Se si vuole si può lasciare mescolata col liquido un po’ di polpa.
Un’ultima annotazione: forse la nostra scèsciula ha a che fare con la Zinzulusa, la famosa grotta tra Castro e Santa Cesarea Terme.
Il Rohlfs al lemma zìnzulu propone un confronto con l’omografo calabrese e con il “greco moderno τσάντσαλον” (leggi tsàntsalon)=cencio.
Il maestro tedesco mostra di seguire l’opinione corrente che collegherebbe il nome proprio della grotta con le sue stalattiti che sembrano cenci. In realtà questa interpretazione metaforica risale ad una memoria del Brocchi pubblicata nel 1820, leggibile integralmente all’indirizzo
Il De Giorgi, poi, nei suoi Bozzetti di viaggio la riprese forse decretandone la diffusione e il successo. Credo, però, che le cose stiano diversamente. Lo stesso Rohlfs più che proporre un’etimo invita ad un confronto. Infatti τσάντσαλον come padre di zìnzulu non regge sul piano fonetico; e poi, ogni tentativo che ho fatto di trovare τσάντσαλον ha, non da oggi, avuto esito negativo, anche se non è da escludere che più che di una voce neogreca si tratti di una voce dialettale.
Credo che i cenci non c’entrino per nulla e che, invece, un ruolo di protagonista lo reciti il giuggiolo. E in questo condivido pienamente quanto si legge nel saggio dedicato all’argomento da Gianluigi Lazzari, interamente visionabile cliccando sul primo titolo (thalassia 26 definitivo … ul) che appare all’indirizzo
http://www.google.it/#hl=it&sclient=psy-ab&q=antonio+francesco+del+duca+zinzolosa&oq=antonio+francesco+del+duca+zinzolosa&gs_l=hp.12…48141.60550.1.66789.36.32.0.4.4.3.1555.10251.0j20j1j2j5j2j0j1j1.32.0…0.0…1c.1.4.psy-ab.LnJXehqQFrM&pbx=1&bav=on.2,or.r_gc.r_pw.r_qf.&bvm=bv.42965579,d.Yms&fp=b1e277ef7d8a11de&biw=1280&bih=631
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1 Therapetikà, VI, 5.
2 X, 3, 43 e 44 ; traduco dal testo originale dell’edizione a cura di P. Needham, A. & G. Churcill, Cambridge, 1704, pagg. 242 e 270.
3 De re rustica, IX, 4; traduco dal testo originale dell’edizione a cura di J. G. Schneider, Antonelli, Venezia, 1846, pag. 551.
4 Naturalis historia, XV, 14 e XVII, 14; traduco dal testo originale dell’edizione a cura di M. L. Domenichi, Antonelli, Venezia, 1844, vol. I, pagg. 1331-1333 e 1507.
5 Edictum de pretiis rerum venalium, VI, 56. Traduco dal testo dell’edizione a cura di T. Mommsen , Lipsia, 1851, pag.
6 Cito dall’edizione uscita per i tipi di Imberti a Venezia nel 1643, pag. 187.
7 Op. cit., pagg. 187-188.
8 Giovanni Onorato Castiglione, Prospectus pharmaceutici, Quinto, Milano, 1698, pag. 48
al caro Amico ed impenitente, ma da me giustamente apprezzatissimo erudito, Armando Polito, un grazie per questa ricca integrazioni delle chiacchierate del sottoscritto (ormai di risalente a oltre 2 anni fa) e di Massimo Vaglio del novembre 2011, un grato commento non tanto per aver citato il mio modesto contributo del settembre 2010, quanto per aver offerto ancora una volta una prova ( se ce ne fosse stato bisogno) della sua capacità di supportare con ricche referenze ogni notizia che ci offre nei suoi inimitabili articoli.
Ad Armando pongo un quesito, che sorta di larve sono quelle in grado di rovinargli il raccolto di giuggiole? Nella mia esperienza con unico esemplare terrazzato ma rigorosamente “non trattato” non abbiamo mai rilevato tracce di parassiti di sorta…. e gli esperti non ne parlano se non come giusta prevenzione per i cultivar cresciuti in terra e non in terrazzo, impiegati per usi commerciali.
grazie se Armando vorrà darci un commento in merito.
Caro Luigi, l’apprezzatissimo erudito è in grado solo di dire che i bruchi in questione solo di colore chiaro e che il loro nome dialettale è il comunissimo cannèddhe; esagerando (per via del superlativo che accompagna erudito…), voglio (!) aggiungere che cannèddha è diminutivo di canna, non solo per la forma allungata della bestia (!) in questione ma probabilmente anche per le gallerie che scava all’interno del frutto. Se poi qualcuno mi farà osservare che tali gallerie non sempre sono rettilinee come quelle idealmente contenute da una canna, l’erudito avrà tutto il diritto, credo di accusarlo di pignoleria. Speriamo che qualche entomologo (che conosca, però, anche la scèsciula…) sia in grado di soddisfare la tua curiosità e anche la mia, che, come la tua, è disinteressata, nel senso che, pur essendo meno fortunato di te, mi accontenterò solo dell’informazione scientifica e non passerò, come ho già detto, alle vie di fatto con questo o quel veleno. Intanto fra poco andrò a comprare una bustina di semi di ravanello…
Un caro saluto. Armando
ho piantato due anni fa una pianta di ggugiolo/mela (le giuggiole grosse) il primo anno come pensavo non ha dato frutti ma molti fiori. Quest’anno una miriadi di fiori, la pianta e’ triplicata in altezza, frutti direi abbastanza ma sono tutti “bacati” come se avessero subito una grandinata maxi miusura! Non se ne salva uno! Ho pensato potessero essere stati amngiati dalle api poiche’ vivendo in campagna, qui ne ho tantissime ma e’ solo una mia supposizione. potrebbe essere quindi cola di qualche specie di bruco? grazie per la risposta
Gentile lettrice, solo un botanico o, meglio, un fitoiatra potrà darle una risposta attendibile. Io, che non sono né l’uno né l’altro, credo, però, di poter dire in assoluta sicurezza che l’inconveniente da lei lamentato non dipenda affatto da qualche specie di bruco, almeno da quello che puntualmente infesta le mie e non solo. Infatti il mio (lo dico, ormai, con orgoglio più che con rabbia …) scava gallerie all’interno mentre il frutto all’esterno sembra perfetto, finché non lo si morde … Solo sporadicamente qualcuno può apparire raggrinzito in piena maturazione.
Ignoravo l’esistenza del giuggiolo-mela o giuggiolo-gigante. Molto probabilmente sarà un ibrido e sospetto (sempre da ignorante in materia!) che la malattia da lei descritta sia legata a questa sua caratteristica. Escluderei api o vespe perché non ne ho mai vista una (e pure da me, fortunatamente, non mancano) ronzare attorno ad una giuggiola o posarvisi. Può darsi, però, che le cose vadano diversamente con l’ibrido. Un cordiale saluto.
Quale relazione intercorre tra il frutto “scesciola” e la toponomastica in alcuni comuni pugliesi: Vedi via Scesciola o contrada Scesciola? Grazie
L’ipotesi più semplice e, forse, più ) attendibile è che in passato in quella zona, all’epoca campestre, proliferasse l’essenza in questione.
Alcuni sostengono che “scesciola” derivi dall’arabo, col significato di labirinto di viuzze e case antiche individuato come primo insediamento umano del luogo: vedi Minervino, Casamassima, Putignano. Cosa ne pensa di quest’altra ipotesi? La ringrazio per la risposta.