(Inedito)
testo e foto di Giorgio Cretì
Funnucrudeu era una proprietà coltivata da quattro mezzadri, cioè da quattro famiglie, ed era suddivisa più o meno equamente in quattro partite ognuna costituita da una buona parte di bassura arativa e da un’area più piccola di cuti1). Tutte le bassure erano coltivate, i cuti solo in piccola parte, con le zappe naturalmente. Il resto era lasciato alla flora spontanea: al timo, ai fùmuli(2) e alle fracilische(3) che una volta secchi venivano raccolti per il forno. Spontanei crescevano anche i lampascioni(4).
Le colture più praticate erano costituite da orzo, grano e piselli, a seconda delle rotazioni. Non si coltivavano ortaggi perchè il fondo era lontano dal paese e c’era soltanto un piccolo ricovero semi diroccato, segno di un’epoca in cui c’era stata la vigna distrutta poi dall’attacco della fillossera alla fine dell’Ottocento. C’era anche una cisterna, ma non mateneva più l’acqua perchè era stata a lungo trascurata ed ora dentro c’erano delle grosse pietre buttatevi chissà da quali mani vandaliche. Per bere bisognava approvvigionarsi alla cisterna di un fondo vicino tenuta sempre in ordine. D’inverno, però, c’era acqua pulita sui cuti di Funnucrudeu, in certe conche naturali impermeabili a forma di cono rovesciato, che venivano tenute regolarmente pulite dalla terra e dalle erbe.
Funnucrudeu era ripartito tra Raffaele della Luna, Rafeli, Angelo Cisterna, Ancilu, suo fratello Rocco e la famiglia di una loro sorellla che si chiamava Gesira. Quell’anno Peppino aveva imposto di seminare avena, un cereale che a lui serviva ma non ai mezzadri che avevano dovuto subire il sopruso. A loro servivano il grano, l’orzo ed i piselli. Anche se questi ultimi, coltivati lì, non erano molto apprezzati, però, perchè la terra scarseggiava di certe sostanze minerali e non era adatta per i legumi: non cuocevano mai.
La terra rossa veniva lavorata al secco nei mesi estivi dalle zappe di due chili e mezzo che rivoltavano ernormi zolle puntando nelle spaccature del terreno. Raffaele, con il gomito sinistro poggiato sull’anca, piano piano e da solo zappava al secco tutta la sua partita.
La terra poi veniva era arata da Peppino D’Aprile, il padrone, in autunno dopo le prime piogge che ammorbidivano le grosse zolle rimaste al sole tutta l’estate. Peppino aveva un solo cavallo bianco, paziente come un asino, che assolveva il suo compito come poteva. L’aratro era quello di legno con il timone a forca e il vomere a punta triangolare. I coloni, mezzadri, arrivavano a piedi la mattina presto e risalivano al paese la sera tardi.
Erano sopravvissuti i fichi piantati ai margini della proprietà lungo i confini e addossati ai muri a secco ancora ben tenuti. I frutti prodotti dalle vecchie piante andavano tutti a Raffaele che se li faceva stimare, circa due tomoli(5), e li consumava tutti per mirenna(6) quando zappava. I figli giovani degli altri mezzadri, però, quando arrivavano prima di lui gli rubavano i più belli e li mangiavano loro, a volte glieli portavano via soltanto per fargli dispetto. Questo a lui dava molto fastidio perché era geloso delle sue cose e il giorno che se ne accorse, arrivò prestissimo e raccolse tutti i fichi, maturi e acerbi. Scavò una specie di cassettone in mezzo alle zolle assolate, vi sistemò tutti i fruttti e li coprì di fùmuli e zolle di terra. I ragazzi non tardarono ad accorgersi dell’operazione e stettero all’erta. Non tardarono a scoprire che durante le soste per la mirenna, quando si riunivano tutti assieme all’ombra, Raffaele lasciava gli altri e con una scusa qualsiai andava in un punto della terra zappata e fingeva di muovere qualcosa con la zappa. Poi infilava le mani sotto le zolle e al tatto sceglieva i frutti più buoni da mangiare.
E consumava la bellezza di circa due tomoli di fichi verdi a mirenna. I ragazzi che avevano scoperto il suo segreto e volevano portargli via il tesoro, furono fermati da Angelo che fece la voce grossa, usando anche qualche bestemmia.
Poi arrivò l’autunno con le piogge. Peppino faceva i solchi ed i mezzadri con grande perizia spargevano dentro i semi man mano.
Passò anche l’inverno e dopo la sarchiatura arrivò anche il tempo delle messi. Era abitudine recarsi a mietere tutti assieme.
Decisero quell’anno di mietere la mattina della festa di Sant’Antonio, anche se Raffaele aveva aderito soltanto pensando di tornare a casa ad una certa ora per andare a messa. Lui andava sempre a messa. E la Nena, sua moglie, lo sapeva bene. Giunse il momento in cui secondo Raffaele bisognava smettere e tornare in paese e cominciò ad agitarsi. Nona diede una voce a Gesira che era più vicina.
“Gesira?”, disse.
“Che cosa c’è, Nona?”, disse Gesira.
“Voi non andate a messa?”.
“No”, intevenne Angelo secco, “No. Visto che ci troviamo finiamo di mietere, poi la festa a Sant’Antonio la facciamo stasera”.
“Nona ce n’andiamo? Andiamo a messa”, tagliò corto Michele alla moglie.
“Stai zitto”, rispose lei, se no loro finiscono di mietere prima di noi”.
“Sangue così”, insistette Raffaele, “che noi non abbiamo neanche portato il pane per la mirenna”.
“Ancilu”, chiese lei, “non avete qualche frisella in più che noi non abbiamo portato pane?”.
“Sì, Nona, ce l’abbiamo”, rispose Angelo e fece cenno a Gesira di darle il pane.
“Ecco Raffaele”, disse Nona, “tieni il pane”.
Fu un attimo, Raffaele prese una frisella e gliela fiondò sulla schiena come una sassata.
“Se vuoi lavorare lavora, io me ne vado”.
E scaraventò in terra anche l’altra frisella assieme alla falce dentata.
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(1) Cuti. Rocce superficiali, affioranti.
(2) Fumuli. Iperico (Hyperiicum perforatum).
(3) Fracilisca. Specie di Ferula nana (Ferula communis L.).
(4) Lampascioni. Gigliacea spontanea (Muscari comosum) con poche foglie lineari erette e fiori violetti a ciuffo molto belli a vedersi. Se ne consumano i piccoli bulbi globosi di color rosso-vinoso chiaro, soprattutto nell’Italia meridionale. A seguito delle grandi migrazioni verso il nord il consumo si è esteso a tutto il territorio nazionale ed il nome toscano è stato sostituito con quello pugliese di lampascione. I bulbi si utilizzano di solito in insalata, previa cottura in acqua bollente, conditi con olio, sale, pepe e aceto; si consumano anche in altri modi: alla genovese, fritti, dorati, etc.
(5) Tomolo. Equivalente a 2 mezzetti, a 4 quarte, a 24 misure e a55,545113 litri (legge 6 aprile 1840 di Ferdinando II).
(6) Mirenna. Colazione mattutina dei contadini.
Scene di vita comune dei contadini di un tempo, affreschi bucolici di cui si può sentire l’odore anche solo leggendo questi righi che sanno fi fichi, di erba e di aratro. Giorgio ci invita nel magico mondo delle piccole cose, dove anche le tensioni tra i protagonisti sono scatenate da motivi semplici, da umili beni ma da grande ardore. Il sudore e la fatica bagnano la speranza nell’avvenire, la campagna con la sua ricchezza riscalda il cuore del lettore.