Sulle tracce della frisèddha
di Armando Polito
E’ opinione comune che la nascita della frisèddha e la prima diffusione nel mondo contadino siano dovute al fatto che in passato i lavoratori, soprattutto quelli della terra, non potevano avere pane fresco ogni giorno e dovettero perciò inventare un prodotto a lunga conservazione (naturale!). Bastavano e bastano, infatti, poche gocce di acqua perché essa diventi morbida senza perdere il suo sapore (come succede per il pane raffermo).
Ma sono state veramente le popolazioni autoctone ad aver inventato la frisèddha?
Come succede di norma in questioni del genere, è praticamente impossibile giungere ad una certezza che abbia il crisma della scientificità. Possono essere fatte solo delle supposizioni, pur partendo, com’è doveroso, da constatazioni di carattere storico.
Il Meridione, soprattutto il Salento è stato (e per certi versi lo è ancora) prevalentemente, com’è noto, per motivi di posizione geografica, un crocevia di popoli, per lo più animati da intenzioni tutt’altro che pacifiche (la guerra, anche quella preventiva, esiste da sempre), che si sono alternati e talora fusi con le popolazioni locali.
In assenza, purtroppo, di testimonianze letterarie ed archeologiche ad hoc sulle più antiche civiltà delle nostre terre [ad esempio, per quanto riguarda le abitudini di vita concreta, direi quotidiana, dei Messapi, sappiamo solo che, forse (!) erano abili domatori di cavalli; per gli Etruschi, invece, anche se estranei alla nostra cultura delle origini, nella fattispecie sappiamo che anche per loro il nutrimento principale furono per molto tempo le farinate a base di miglio e di farro, le clusinae pultes, la cui esistenza è documentata sia da Marco Valerio Marziale1 (I°secolo a.C.), sia da ritrovamenti archeologici], siamo obbligati a rivolgere la nostra attenzione alle epoche più recenti.
I Romani nella fase più antica della loro storia non conoscevano il pane, ma la polenta, almeno come vocabolo: il mais sarebbe arrivato dopo quasi 2000 anni…
Plinio (I° secolo d. C.) nella sua Naturalis Historia (18, 83-84) ci tramanda quanto segue: Pulte autem, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum, quoniam et pulmentaria hodieque dicuntur et Ennius, antiquissimus vates, obsidionis famem exprimens offam eripuisse plorantibus liberis patres commemorat. Et hodie sacra prisca atque natalium pulte fitilla conficiuntur, videturque tam puls ignota Graeciae fuisse quam Italiae.
[Poi che di puls2 , non di pane abbiano vissuto per lungo tempo i Romani (è) cosa chiara, poiché e anche oggi si parla di pulmentària3 ed Ennio, antichissimo poeta, volendo dare un’idea della fame che si provava in occasione di un assedio, ricorda che i padri sottraevano ai figli che piangevano un’offa4. Anche oggi i riti antichi e quelli che accompagnano le nascite vengono celebrati con puls fitilla5, e pare che la puls fosse sconosciuta tanto alla Grecia quanto all’Italia.].
Per tornare all’argomento in questione, i Romani , dunque, nell’epoca più antica della loro storia, in attesa che Colombo facesse conoscere il mais, mangiavano la puls, anche la polènta6, ma non conoscevano il pane.
Se è pacifico che esso non esisteva già in epoca considerevolmente anteriore a Plinio, la testimonianza enniana che lo stesso riporta [(Ennio visse dal 239 al 169 a. C. e scrisse il poema Annales in 18 libri, narrante 6 secoli di storia romana, dall’arrivo di Enea nel Lazio fino a circa il 178 a. C; di tale poema ci restano, purtroppo solo pochi frammenti, nessuno dei quali (purtroppo nel purtroppo…) coincide con la citazione pliniana] ci fa intuire che quanto meno ai tempi di Ennio il pane esisteva; peccato che Plinio non ci abbia ricordato (ammesso che lo sapesse o che lo ricordasse) di quale assedio cantava Ennio, perché avremmo in tal caso potuto spostare ancora più indietro nel tempo la conoscenza di questo alimento; tuttavia tutto quello fin qui detto ci autorizza a supporre che i Romani abbiano conosciuto il pane non prima del IV secolo a. C.
E sulle testimonianze antiche di questo alimento diciamo qualcosa in più, cominciando proprio da Plinio: Naturalis historia, XVIII, 105-108: Panis ipsius varia genera persequi supervacuum videtur, alias ab opsoniis appellati, ut ostrearii, alias a deliciis, ut artolagani, alias a festinatione, ut speustici, nec non a coquendi ratione, ut furnacei vel artopticii aut in clibanis cocti, non pridem etiam e Parthis invecto quem aquaticum vocant, quoniam aqua trahitur ad tenuem et spongiosam inanitatem, alii Parthicum. Summa laus siliginis bonitate et cribri tenuitate constat. Quidam ex ovis aut lacte subigunt, butyro vero gentes etiam pacatae, ad operis pistorii genera transeunte cura. Durat sua Piceno in panis inventione gratia ex alicae materia. Eum novem diebus maceratum decumo ad speciem tractae subigunt uvae passae suco, postea in furnis ollis inditum, quae rumpantur ibi, torrent. [Sembra superfluo elencare i vari tipi di pane, che prende il nome ora dal companatico, come l’ostreario7, ora dalle leccornie, come l’artolàgano8, ora dalla fretta, come lo speustico9, e non dal metodo di cottura, come quello cotto al forno o l’artopticio10 o quello cotto nel clibano11, importato non molto tempo fa dai Parti che lo chiamano acquatico, poiché l’acqua gli conferisce una tenue e spugnosa delicatezza; altri lo chiamano partico. La fama sta tutta nella bontà del fior di farina e nella sottigliezza del setaccio. Certi lo lavorano con uova e latte, col burro poi pure popoli amici12, mentre dedico (ora) la mia attenzione all’arte dei fornai13. Continua la gratitudine al Piceno per aver inventato il pane dalla spelta (grano vestito). Dopo averlo lasciato macerare per nove giorni, al decimo lo lavorano con succo di uva passa preparato per l’occasione, poi, introdottolo nel forno su tegami, lo cuociono finchè i tegami non si rompono.].
Ma è nel libro XXII, 138 che Plinio ci fornisce un’indicazione che potrebbe essere, secondo me, un riferimento all’antenata della nostra frisèddha: Panis hic ipse, quo vivitur, innumeras paene continet medicamentas. Ex aqua et oleo aut rosaceo mollit collectiones; ex aqua mulsa ad duritias valde mitigandas, ex vino ad discutienda aut quae praestringi opus sit et, si magis etiamnum, ex aceto, adversus acutas pituitae fluctiones, quas Graeci rheumatismos vocant, item ad percussa, luxata, ad omnia autem fermentatus, qui vocatur autopyrus, utilior. Inlinitur et paronychiis et callo pedum in aceto. Vetus aut nauticus panis tusus atque iterum coctus sistit alvum. Pistores Romae non fuere ad Persicum usque bellum annis ab urbe condita super DLXXX. Ipsi panem faciebant Quirites, mulierumque id opus maxime erat, sicut etiam nunc in plurimis gentium. Artoptas iam Plautus appellat in fabula, quam Aululariam inscripsit, magna ob id concertatione eruditorum, an is versus poetae sit illius, certumque fit Atei Capitonis sententia cocos tum panem lautioribus coquere solitos, pistoresque tantum eos, qui far pisebant, nominatos. Nec cocos vero habebant in servitiis, eosque ex macello conducebant.
[Questo stesso pane14, di cui ci si nutre, contiene quasi innumerevoli proprietà medicamentose. Inzuppato in acqua e olio di oliva o di rose lenisce gli ascessi; inzuppato in acqua mescolata con miele è alquanto utile a mitigare sensibilmente gli indurimenti, inzuppato nel vino, meglio ancora nell’aceto, nei casi in cui bisogna fluidificare o solidificare, contro gli attacchi acuti di raffreddore, che i greci chiamano reumatismi, parimenti per le contusioni, le lussazioni; quello integrale poi, che è chiamato autopìro15, per tutto. Si stende anche sui panerecci e, imbevuto nell’aceto, sul callo dei piedi. Il pane vecchio o il nautico16, pestato e di nuovo cotto, blocca la diarrea. Fornai a Roma non ce ne furono fino alla guerra contro Perseo17, oltre 580 anni dalla fondazione di Roma. Gli antichi romani si facevano il pane da soli e questa era esclusivamente incombenza delle donne, come anche ora nella maggior parte dei popoli. Già Plauto nella sua commedia Aulularia nomina le artopte18, con grande discussione a tal proposito tra gli eruditi se questo verso sia di quel poeta; ma è certo, a parere di Ateo Capitone19, che i cuochi a quel tempo erano soliti cuocere il pane per quelli alquanto piuttosto raffinati e che erano chiamati mugnai solo quelli che macinavano il farro. Né per la verità avevano cuochi tra i servi, ma li assoldavano dal mercato.].
E’ proprio l’ultimo tipo di pane citato (avente in comune con quello vecchio la durezza), ma distinto nel testo pliniano dalla congiunzione disgiuntiva aut (se avesse voluto dire vecchio altrimenti detto nautico Plinio avrebbe usato vel e non aut)20, che mi fa pensare alla nostra frisèddha, o, almeno, alla sua probabile antenata.
E’ intuitivo che il pane nautico, proprio in virtù della sua durezza, poteva durare a lungo e durante la navigazione essere consumato ammorbidito con acqua, magari di mare21.
Questa intuizione, però, per quanto banale, complica il problema, perché è certo che, prima e più dei Romani, altri popoli furono provetti navigatori e, quindi, dovettero affrontare il problema del pane a lunga conservazione: i Fenici, quelli del Vicino Oriente e i Greci. Purtroppo, relativamente ai primi due, nessuna testimonianza specifica, neppure semplicemente onomastica, rimane, a quanto ne so, sull’argomento, a parte leggende di ignota provenienza, frutto, forse, di una forma di pubblicità ante litteram, o di elucubrazioni etimologiche facenti concorrenza alle mie, come quella secondo la quale sarebbe stato Enea ad introdurre la frisèddha nel Salento in occasione del suo sbarco a Porto Badisco (credo, per paretimologia, da Phrygia=della Frigia, troiana); ad onor del vero circola anche la leggenda inversa, per la quale sarebbero stati gli indigeni ad offrire friselle agli ospiti troiani22.
Decisamente meglio le cose vanno col mondo greco perchè vari autori antichi ci parlano di un pane cotto due volte: dipyrìtes23 o dìpyros, [sottinteso artos=pane)]24; entrambe le voci risultano composte da dis=due volte e pyr=fuoco e dalla seconda deriva il latino dìpyros attestato da Marziale25. Diretto discendente di questo tipo di pane è il paximàdi26, caratteristico di Creta, che, in base alla forma, viene distinto in due categorie: il dakos o dakòs27 e le kulùres28. I dakos sono fette, tagliate spesse, di pane dalla forma allungata. Le kulùres sono ciambelle tagliate a metà longitudinalmente, che danno origine a due parti, quella inferiore e quella superiore (sembrano le gemelle della nostra frisella).
La maniera più comune di servirle è bagnarle, metterci su pomodoro fresco a pezzetti, cospargerle di origano o maggiorana freschi e versarci su un filo di olio extravergine di oliva.
E come dimenticare, spostandoci in altra area geografica che ci riporta ai Vichinghi, lo svedese knekerbrad o knäckebröd? (più simile, per la verità, nonostante il buco centrale, alla piadina romagnola che alla frisella)?
Per aggiungere un altro tassello al quadro, consapevole che esso, comunque, non sarà per questo completo, ricordo per la Sardegna il pane de fresa o pane carasau29, detto anche carta da musica in riferimento allo spessore e alla croccantezza, tipico di alcune zone del Sassarese e del Nuorese: la sfoglia dopo una prima cottura si lasciava raffreddare, veniva poi spazzolata e divisa in due parti, (fresau), infine posta su un tavolo a cataste di quaranta, cinquanta pani (sa fresa). I pani venivano infornati, per essere biscottati, una seconda volta. Una variante ancora più sottile è il bissau.
Infine, per il Veneto, il pan scafetò, pane che dura anche sei mesi e che la gente di campagna, un tempo, acquistava una volta ogni tanto, conservandolo nello scafetò30, una specie di scaffale in cui i contadini custodivano granaglie, farine e, dunque, anche il pane.
Perciò ho l’impressione che la frisella conserverà forse per sempre il segreto del suo parto gemellare31, con le rughe che ricordano le onde nella parte inferiore (considerata la meno pregiata) e, in quella superiore, con il piccolo foro centrale simile a un gorgo o a un ombelico o, per fare onore alla fantasia dei napoletani che di fresèlla fanno anche un uso metaforico32, al sesso femminile.
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1 Xenia (Epigrammaton XIII, 8): Inbue plebeias Clusinis pultibus olla, ut satur in vacuis dulcia musta bibas.[Colma le pentole scadenti di farinate di Chiusi, affinchè sazio tu beva dolci mosti in quelle vuote] ; si può dedurre da questa testimonianza che gli Etruschi conoscevano la puls, probabilmente fatta non con farina di farro, ma di cereali meno nobili, come il miglio. Qualcosa di simile aveva ricordato, a proposito dei Cartaginesi, Marco Porcio Catone (III-II secolo a. C.): (De agricultura, 85): Pultem Punicam sic coquito. Libram alicae in aquam indito, facito uti bene madeat. Id infundito in alveum purum, eo casei recentis P. III, mellis P. S, ovum unum, omnia una permisceto bene. Ita insipito in aulam novam. [Cucina così la polenta cartaginese: butta in acqua una libbra di spelta e fa che si imbeva bene; versala in un contenitore oblungo pulito, (aggiungi) tre libbre di formaggio fresco, mezza libbra di miele, un uovo, mescola bene il tutto. buttalo così in un’altra pentola.].
2 Riporto al nominativo le voci, per così dire, tecniche, di Plinio e degli autori citati successivamente anche per rendere più agevole e meno soggetta ad equivoci l’interpretazione del brano; puls (genitivo pultis)[probabilmente connesso con pollen=fior di farina e, in senso traslato polvere(da cui l’italiano polline)e sicuramente connesso col greco poltos o poltòs)=minestra a base di farina] indicava una farinata di farro.
3 Pulmentàrium [o pulmèntum o pulpamèntum o pulpàmen, tutti da pulpa]era il piatto di carne, cioè quello che noi chiamiamo genericamente il companatico, per cui Plinio ci fornisce anche una preziosa nota di ordine filologico;c’è da notare che panis (pane)in latino non entra mai in composizione come nel nostro companatico, per indicare il concetto del quale era usato anche il termine obsònium [dal greco opsònion)=approvvigionamento, da opsònes=chi compra vettovaglie, composto da opson=cibo e onèomai=comprare] voce già presente in Tito Maccio Plauto, autore del II secolo a. C., nel quale, però, la voce ha il significato originario del primo componente greco in uno dei suoi geniali, intraducibili, giochi di parole (obsònium obsonàre=comprare le provviste, preparato da locuzioni più normali: obsonàtum ire =andare a fare la spesa; tribus obsonàtum est=si è fatta la spesa per tre); vale la pena qui ricordare che il nostro polentone (nel significato spregiativo con cui vengono chiamati i settentrionali) in realtà era già stato inventato (riferito, però, alle abitudini alimentari dei Romani) più di duemila anni fa da Plauto con i suoi pultìphagus [Mostellaria: non enim haec pultìphagus òpifex òpera fecit bàrbarus (infatti questi dettagli non li ha fatti un artigiano straniero mangiatore di polenta)] e pultiphagònides [Poenulus: latìne Plautus pàtruus pultiphagònides (in latino Plauto lo zio dei discendenti di mangiatori di polenta)].
4 Offa significava boccone, focaccia, polpetta e, per traslato, bernoccolo; è evidente che qui sta nel senso di boccone o, al più, di focaccia, non certo di polpetta!(in Cicerone offa pultis: boccone di puls).
5 Per puls vedi la nota 2; della fitilla ci parla anche Lucio Anneo Seneca (più famoso del padre Lucio Anneo Seneca il Vecchio), autore del I secolo d. C., nella sua opera De beneficiis (I,6 VI): Non est ergo beneficium ipsum, quod numeratur, aut traditur; sicut nec in uictimis quidem, licet opimae sint, auroque praefulgeant, deorum est honos; sed pia ac recta uoluntate uenerantium. Itaque boni etiam farre ac fitilla religiosi sunt; mali rursus non effugiunt impietatem, quamuis aras sanguine multo cruentauerint.[Non è dunque il sacrificio in sè stesso che viene tenuto in conto o ricordato; come neppure nelle vittime, per quanto siano grasse e risplendano di oro, consiste il rispetto degli dei, ma nella pia e retta volontà dei fedeli . E così i buoni sono religiosi anche col farro e con la fitilla; i cattivi, al contrario, non eviteranno l’empietà, sebbene abbiano lordato gli altari di abbondante sangue.]
Ma che cosa poteva essere questa fitilla? Tenendo conto che , oltre alla puls fitilla citata da Plinio, esisteva anche la puls fabata [vale a dire la farinata di fave, in pratica l’antenata, questa sì, delle fàe iànche (fave bianche) che in un tipico piatto salentino si accompagnano alle cicurèddhe ti campàgna (cicorie selvatiche)] e che nel brano precedente farro e fitilla sono citati come offerte povere, è legittimo dedurre che la fitilla era un cereale poco pregiato, certamente meno pregiato e costoso del farro la cui pianta, era più sensibile, come ci ricorda sempre Plinio (Naturalis historia, XVIII, 83 ricordi che ex omni genere durissimum far et contra hiemes firmissimum. patitur frigidissimos locos et minus subactos vel aestuosos sitientesque; primus antiquis Latii cibus, magno argumento in adoniae donis… [di ogni specie il più duro, resistentissimo anche contro i rigori dell’inverno, è il farro; non sopporta i luoghi molto freddi o troppo caldi e aridi; primo cibo per gli antichi abitanti del Lazio, di grande importanza tra le ricompense per una vittoria…]. Sulla individuazione del cereale da cui si ricavava la fitìlla ci viene in aiuto Arnobio (III secolo d. C.)(Adversus nationes, II, 21, 3): At vero cum coeperit solidioribus cibis infans debere fulciri, nutrice inferantur ab eadem…. Ipse autem qui infertur cibus sit unus atque idem semper, nihil materia differens nec per varios redintegratus sapores, sed aut fitilla de milio aut sit panis ex farre aut, ut saecula imitemur antiqua, ex cinere caldo glandes aut ex ramis agrestibus baculae. [Ma invero quando il bambino comincerà a dovere essere nutrito con cibi più solidi, questi siano somministrati da una sola nutrice…Lo stesso cibo poi che viene somministrato sia uno solo e sempre lo stesso, in nulla differente nella materia né corretto con varie sostanze che gli conferiscano sapore, ma sia o una fitilla di miglio o un pane di farro o, per imitare i tempi antichi, castagne cotte nella cenere calda o bacche di alberi selvatici.]
Ad onor del vero, a complicare le cose, come spesso succede in filologia, in alcuni manoscritti compare, al posto di fitìlla, fit illa, per cui l’interpretazione sarebbe…ma o sia essa (la materia) ricavata dal miglio o… Tuttavia, il contrasto di fit (indicativo) col successivo sit (congiuntivo) e il soggetto illa (la materia) che nella sua generità si contrappone alla specificità dei successivi (panis, glandes, baculae)mi fanno ritenere che sia da accettare la lezione fitìlla e non fit illa.
Ad ogni buon conto, nello stesso autore la fitìlla compare senza ombra di dubbio in altri passi (VII, 24, 5): Quid fitilla, quid frumen, quid africia, quid gratilla, catumeum, cumspolium, cubula? Ex quibus duo, quae prima, sunt pultium nomina sed genere et qualitate diversa, series vero quae sequitur liborum significantias continet; et ipsis enim non est una eademque formatio. [Che cosa è la fitilla, che cosa il frumen, l’africia, la gratilla, il catumeo, il cumspolio, la cubula? Di questi, i primi due, sono nomi di polente ma di specie e qualità diversa, il resto della serie ha il significato di sacrifici e per loro non è una sola e medesima la forma.]; VIII, 24, 6: … non mille species vel sanguinaminum vel fitillarum, quibus nomina indidistis obscura vulgoque ut essent augustiora fecistis. […non le mille specie o di offerte a base di sangue o di fitille, alle quali avete affibiato nomi oscuri e lo faceste perché fossero importanti agli occhi della gente.]. Le parole non certo imparziali di questo apologeta cristiano sono una conferma al carattere “plebeo” della fitilla emerso dalle testimonianze precedenti.
La fitìlla, insomma, doveva essere unafarinata probabilmente non molto dissimile da quella etrusca criticata da Marziale (vedi nota 1 a pag. 2). Quanto, poi, all’etimologia di fitilla a prima vista si direbbe, in virtù del suffisso, un diminutivo; se così è, la radice sarebbe nominale (come in anguìlla=anguilla, da anguis=serpente) o verbale [come in favìlla=scintilla, da (attraverso un *fovìlla) fovère=riscaldare?].
La candidatura contemporanea del sostantivo fetus=parto, oppure dell’aggettivo fetus=fecondo, oppure del verbo fetàre=fecondare, sembra tagliare la testa al toro, anche per l’evidentissimo accordo semantico tra questa radice *fet e il natàlium del passo pliniano citato a pg. 2.Per questo mi appare meno praticabile una derivazione dalla radice *fut (connessa con fùndere)con l’idea di versare (azione tipica dei sacrifici) che, a parte il sostantivo futis=vaso ha dato vita solo a verbi composti come confutàre e refutàre in cui l’idea di versare si è esasperata in quella di abbattere.
Ancora meno praticabile mi pare la strada che porta al greco; in questo caso candidato sarebbe fætlh (fiùtle)=stirpe , ma bisognerebbe immaginare nel passaggio al latino l’epentesi di –i– e un raddoppiamento espressivo –l>-ll-: troppo per non privilegiare le due radici prima messe in campo (tra l’altro, già *fet aveva in sé l’idea della fertilità).
A conclusione di questo lungo excursus, rimane, comunque, l’impossibilità di dare un’identità precisa all’ingrediente principale della puls fitìlla.A complicare ulteriormente le cose e a rendere ancora più problematica l’etimologia della nostra frisèddha c’è da aggiungere, infine, che alcuni codici recano la variante fritìlla, comunque non accettata dalla maggior parte dei filologi., anche se vi si potrebbe ravvisare un legame con il neutro indeclinabile frit che in Marco Terenzio Varrone (I secolo a. C.)(De re rustica, I, XLVIII] indica i chicchi di grano apicali della spiga: Illut autem summa in spica iam matura, quod est minus quam granum, vocatur frit. [Quello poi alla sommità della spiga già matura, che è meno che grano, si chiama frit.].
6 polènta deriva da puls con aggiunta del suffisso –olènta (da òlens, participio presente del verbo olère=odorare) come violèntus=violento da vis=forza. Puls ha dato vita in italiano a polta (pastone per animali da cortile e, estensivamente, intruglio) e, attraverso il tardo diminutivo pultìcula, a poltiglia.
Polènta assume, nel dettaglio, un significato diverso presso i vari autori che l’attestano: in Marco Porcio Catone (III-II secolo a. C), più noto col nome di Catone Maggiore o Catone il Vecchio [(per distinguerlo da Marco Porcio Catone Minore o Uticense (I secolo a. C.)], polènta vale come farina d’orzo(De agricultura, 108: Vinum si voles experiri duraturum sit necne, polentam grandem dimidium acetabuli in caliculum novum indito et vini sextarium de eo vino quod voles experiri eodem infundito et inponito in carbones; facito bis aut ter inferveat. Tum id percolato, polentam abicito. Vinum ponito sub dio. Postridie mane gustato. Si id sapiet, quod in dolio est, scito duraturum; si subacidum erit, non durabit.[Se vuoi provare a far durare il vino o no butta in un altro piccolo calice un ottavo di emina di chicchi di orzo grossolanamente macinati e versaci un sesto di congio di quel vino su cui vuoi fare l’esperimento e metti il tutto sui carboni; fallo bollire due o tre volte. Dopo averlo filtrato butta via l’orzo. Poni il vino lasciandolo scoperto. Assaggialo il giorno dopo al mattino. Se esso ha un sapore come se fosse stato in una botte sappi che durerà; se sarà un po’ acido, non durerà.]; [156]: Postea, salem addito, et cumini paululum et pollinem polentae eodem addito et oleum. [Poi, aggiunto il sale, mettici e un po’ di cumino e fior di farina di orzo e olio]; [157]: Eo addito oleum bene et salis paululum et cuminum et pollinum polentae. [Aggiungici olio abbondantemente e un po’ di sale e cumino e Fior di farina di orzo].
Tito Maccio Plauto (vedi nota 2 parla di polentàrius crèpitus=crepitio della polenta: Curculio, 294-295 :…tristes aut ebrìoli incèdunt: eos ego si offèndero ex unoquòque eòrum èxciam crèpitum polentàrium. […camminano malinconici e alticci: se li offenderò eda ciascuno di loro trarrò fuori il crepitio della polenta.].
In Lucio Giunio Moderato Columella (I secolo d. C.) la voce vale come farinata (probabilmente di orzo) terapeutica: De re rustica, VI, XVII, 8: Epìphoram supprìmit polènta conspèrsa mulsa aqua, et in supercìlia genàsque impòsita.[Sopprime il catarro la farinata bagnata con idromele e applicata sulle sopracciglia e sulle guance].
Vale anche come cibo per i pulcini: VIII, XIV, 10: Deinde pullis, exclusis primis quinque diebus, polentam vel maceratum far sicut pavonibus obiciunt. [Poi ai pulcini, eccetto i primi cinque giorni, danno da mangiare farinata o farro bagnato come ai pavoni]; e poco più avanti (VIII, XIV, 11]: Et est facilis harum avium sagina, nam polentam et pollinem ter die, nihil sane aliud, dari necesse est…[Ed è facile l’ingrassamento di questi uccelli, infatti è sufficiente che sia data tre volte al giorno farinata e fior di farina, nient’altro…].
In Publio Ovidio Nasone (I secolo a. C.-I secolo d. C. ) vale come orzo abbrustolito: Metamorphòseon V, 449-454: prodit anus divàmque videt lymphàmque rogànti dulce dedit, tosta quod tèxerat ante polènta. Dum bibit illa datum, duri puer oris et audax cònstitit ante deam risìtque avidàmque vocàvit. Offènsa est neque adhuc epòta parte loquèntem cum lìquido mixta perfùdit diva polènta. [Compare una vecchia ed ella vede la dea ed a lei che chiede un sorso d’acqua porge una bevanda dolce che prima aveva insaporito con orzo tostato. Mentre ella beve quel dono un ragazzo dallo sguardo duro e insolente si fermò davanti alla dea e ris e la chiamò ingorda. (La dea) si offese e senza finire di bere gli sputò in faccia, mentre lui parlava, l’orzo misto al liquido.
In Plinio Secondo vale come polenta vera e propria: Naturalis historia, VIII, 136: ergo corpus eius exùstum adspèrgunt àliis càrnibus polèntae modo insidiàntes ferae necàntque ètiam cìnere. [dunque le fiere in agguato cospargono il suo corpo bruciato con altre carni a mò di polenta e lo spengono anche con cenere].
XIV, 92: sed Fàbius Dossènus his vèrsibus decèrnit: “Mittèbam vinum pulchrum, murrìnam” et in Acharistione:”Panem et polèntam, vinum murrìnam.” [ma Fabio Dosseno in questi versi dice:”mandavo un bel vino, quello profumato di mirra” e nell’Acaristione:”Pane e polenta, vino profumato di mirra”.
Apuleio (II secolo d. C.) nomina una polènta caseàta, una sorta di torta al formaggio: Metamorphòseon I, 4: Ego denique vespera, dum polentae caseatae modico secus offulam grandiorem in convivas aemulus contruncare gestio, mollitie cibi glutinosi faucibus inhaerentis et meacula spiritus distinentis minimo minus interii. [Per finirla, l’altra sera, mentre tra i commensali facevo la bravata di consumare un boccone di torta al formaggio per disgrazia più grosso de l dovuto, a causa della morbidezza di quel cibo molliccio che mi si attaccava al palato e che mi ostuiva le vie respiratorie, per poco non morii].
In Mauro (o Mario) Servio Onorato (IV-V secolo d. C.) vale come pastone per animali.
In Marcio Celio Rufo (I secolo d. C.) e in Sesto Aurelio Vittore Afro (IV secolo d. C.) vale come polenta di farina d’orzo.
Infine, Tito Maccio Plauto (vedi nota 2) parla di polentàrius crèpitus=crepitio della polenta.
7 Che accompagna le ostriche.
8 Tipo di focaccia composta di farina, vino, latte, olio, grasso e pepe ; dal greco artolàganon), da artos=pane (forse da ararìsko=stringere insieme, con riferimento all’impasto) e làganon=dolce di farina, miele e olio (da lagàio=liberare, con riferimento alla morbidezza).
9 Pane fatto in fretta; sempre dal greco speusticòs=frettoloso, da spèudo=affrettare.
10 Cotto nella teglia; dal greco artoptìkops=cotto in padella, da artos=pane (vedi nota 2) e optào=arrostire.
11 Specie di teglia probabilmente dalle pareti più alte rispetto a quella della nota precedente; dal greco clìbanos o crìbanos)=tegame, vaso.
12 Ci vedo un’allusione alla difficoltà di reperire il burro in tempo di guerra.
13 Il pistor (da pìnsere=pestare) era in origine il mugnaio, ma ai tempi di Plinio era sinonimo di fornaio.
14 Quello di orzo, cereale di cui ha subito prima decantato le virtù.
15 Dal greco autòpyros, da autòs=da sé e pyròs=frumento.
16 Quello usato dai marinai; la traduzione fornita dai comuni dizionari, biscotto, la accetto solo in senso etimologico (cotto due volte).
17 Perseo, figlio illegittimo di Filippo, ultimo re di Macedonia, fu vinto da Paolo Emilio nel 168 a. C.
18 Teglie per cuocervi il pane di lusso o cibi raffinati; dal greco artòptes=panettiere, padella per cuocere il pane [da artos=pane e optào=cuocere]. Aulularia, 396-400: Dromo, desquama piscis. Tu, Machaerio, congrum, murenam exdorsua quantum potest. Ego hinc artoptam ex proximo utendam peto a Congrione. [Tu, Dromone, squama i pesci; tu, Macherione, togli le lische al grongo e alla murena, meglio che puoi. Io vado qui presso a chiedere in prestito a Congrione una teglia.].
19 E’ più probabile che sia Gaio Ateio Capitone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), l’insigne giurista, più che l’omonimo padre.
20 Non condivido, perciò, per oggettivi motivi di grammatica e di stile e non per portare acqua al mio mulino, l’interpretazione che i comuni dizionari danno di questa locuzione pliniana alla voce panis: il Calonghi galletta da marinaio; il Castiglioni-Mariotti pane vecchio, galletta da marinai (in cui l’uso della virgola e non del punto e virgola sottolinea, secondo me, il valore esplicativo (corrispondente ai nostri o, oppure, ovvero, ovverosia usati per cioè, vale a dire, altrimenti detto) e non disgiuntivo attribuito ad aut. L’importanza di tale tipo di pane rimane, secondo me, nel nesso napoletano mbarcarse senza viscuotte (letteralmente imbarcarsi senza biscotti, in senso traslato intraprendere un’iniziativa o altro senza aver preso le dovute precauzioni).
21 Ancora fino a pochi anni fa per i pescatori di professione e per diporto la frisèddha, inzuppata nell’acqua di mare e condita con una croce di olio d’oliva, costituiva un impareggiabile spuntino; poi l’inquinamento ha costretto gli uni e gli altri a portarsi appresso l’acqua e il sale…
22 Le due leggende sono evidentemente legate, secondo me, ai versi 526-546 del libro III dell’Eneide: e, la prima in particolare, ai versi 107-115 del libro VII dello stesso poema : (III, 526-546) Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis/cum procul obscuros collis humilemque videmus/Italiam. Italiam primus conclamat Achates,/Italiam laeto socii clamore salutant./Tum pater Anchises magnum cratera corona/induit implevitque mero, divosque vocavit/stans celsa in puppi:/«Di maris et terrae tempestatumque potentes,/ferte viam vento facilem et spirate secundi»./Crebrescunt optatae aurae portusque patescit/iam propior, templumque apparet in arce Minervae;/vela legunt socii et proras ad litora torquent../Portus ab euroo fluctu curvatus in arcum,obiectae salsa spumant aspergine cautes,/ipse latet: gemino demittunt bracchia muro/turriti scopuli refugitque ab litore templum./Quattuor hic, primum omen, equos in gramine vidi/tondentis campum late, candore nivali./Et pater Anchises «bellum, o terra hospita, portas:/bello armantur equi, bellum haec armenta minantur./ sed tamen idem olim curru succedere sueti/quadripedes et frena iugo concordia ferre:/spes et pacis» ait. tum numina sancta precamur/Palladis armisonae, quae prima accepit ovantis,/et capita ante aras Phrygio velamur amictu,/praeceptisque Heleni, dederat quae maxima, rite/Iunoni Argivae iussos adolemus honores./Haud mora, continuo perfectis ordine votis/cornua velatarum obvertimus antemnarum,/Graiugenumque domos suspectaque linquimus arva.(E già, messe in fuga le stelle, rosseggiava l’aurora, quando da lontano vedemmo delle oscure colline [traduco genericamente così obscuros, in quanto l’aggettivo in latino può significare oscuro, vago, sconosciuto, nascosto; non escluderei nemmeno il concetto di misterioso o, più semplicemente, coperte di vegetazione] e la poco elevata Italia. “Italia!” per primo grida Acate, “Italia!” acclamano i compagni con lieto clamore. Allora il padre Anchise incoronò di fiori una grande coppa e la riempì di vino puro, e invocò gli dei ritto sulla parte più alta della poppa:”Dei dominatori del mare e della terra e delle tempeste, date facile via concedeteci al vento e spirate favorevoli”. Cresce la brezza agognata e già si apre più vicino un porto, e appare sull’altura un tempio di Minerva. I compagni ammainano le vele e volgono la prua a terra. Il porto, curvato ad arco verso il mare di levante, mentre due promontori contrapposti schiumano di gocce salate, rimane nacosto: gli scogli a forma di torri allungano le braccia con una duplice muraglia e il tempio è lontano dalla riva. Vidi qui, primo presagio, pascolare quattro cavalli, bianchi come la neve. E il padre Anchise dice:”Terra straniera, tu porti guerra: si armano i cavalli per la guerra, questo bestiame minaccia la guerra. Tuttavia i quadrupedi talora sono ugualmente avvezzi ad essere aggiogati al carro e a sopportare di buon grado il freno col giogo: c’è anche speranza di pace”. Preghiamo allora la santa divinità di Pallade armisonante, che per prima ci accolse esultanti, e davanti agli altari veliamo il capo col velo frigio e, seguendo il consiglio più importante che Eleno ci aveva dato, secondo il rito compiamo in onore di Giunone protettrice di Argo i sacrifici che ci erano stati raccomandati. Non c’è indugio, immediatamente dopo, sciolto il voto secondo quanto ci era stato ordinato, volgiamo le vele ed abbandoniamo le case e i campi sospetti dei Greci.)
(VII, 107-115) Aeneas primique duces et pulcher Iulus/ corpora sub ramis deponunt arboris altae,/ instituuntque dapes et adorea liba per herbam/subiciunt epulis (sic Iuppiter ipse monebat)/ et Cereale solum pomis agrestibus augent./ consumptis hic forte aliis, ut vertere morsus/ exiguam in Cererem penuria adegit edendi,/ et violare manu malisque audacibus orbem/ fatalis crusti patulis nec parcere quadris:/ «heus, etiam mensas consumimus?» inquit Iulus,/…[Enea e i condottieri più importanti e il bel Iulodistendono i corpi sotto i rami di un alto albero e dispongono il banchetto sacrificale e sull’erba pongono come appoggio per le vivande le focacce di frumento (così ammoniva Giove in persona) e riempiono di frutti selvatici questo contenitore ricavato dal grano. Consumate qui per avventura tutte le altre vivande, come l’esiguità del cibo spinse a volgere i morsi verso il sottile pane e a violare con la mano e con le audaci guance la circonferenza della crosta fatale e a non risparmiare l’ampia focaccia, Iulo disse:”Ehi!, consumiamo anche le mense?”…].
C’è da dire che la prima testimonianza di Virgilio (I secolo a. C.) con i suoi dettagli paesaggistici è compatibile con l’identificazione del porto di cui si parla nel poema con Porto Badisco, identificazione che trova conferma nella toponomastica: nelle immediate vicinanze c’è Castro; di Castrum Minervae nobilissimum ubicato nel Salento parla un frammento delle Antiquitates rerum humanarum et divinarum di Marco Terenzio Varrone (più o meno coevo di Virgilio) tramandatoci dallo Pseudo Probo (forse V secolo d. C.) nei suoi Commentarii in Vergili Bucolica VI, 31; Castra Minervae compare anche, ubicato nella stessa zona, nella Tabula Peutingeriana VI 5-VII 2 (si tratta di una mappa il cui originale fu presumibilmente redatto nel IV secolo d. C.); nella stessa direzione sembra portare anche la testimonianza di Servio (fine del IV secolo-inizi del V d. C.) che nei suoi Commentarii in Vergilii Aeneidem III, 531 così dice:”Apparet in arce Minervae: hic dubium est utrum Minervae templum an in arce Minervae debeamus accepire. Sane Calabria ante Messapia vocata est. Hoc autem templum Idomeneus condidisse dicitur, quo etiam castrum vocatur. (Apparet in arce Minervae: qui è dubbio se si debba intendere il tempio di Minerva oppure sulla rocca di Minerva. Veramente la Calabria prima fu chiamata Messapia. Si dice inoltre che Idomeneo abbia fondato questo tempio che viene chiamato anche castrum)]. Tuttavia, a parer mio, il testo virgiliano sembrerebbe escludere un incontro amichevole tra Enea e la popolazione locale; si ha l’impressione che questa abbia autorizzato la visita al tempio solo per rispetto alla divinità più che ai doveri dell’ospitalità (non riesco ad immaginare che i Troiani siano arrivati al tempio senza che nessuno se ne accorgesse); credo pure che la rapidità della visita non sia connessa solo con le esigenze narrative e che la fretta con cui Troiani si allontanano non sia dovuta solo all’ansia di raggiungere il Lazio e alla proverbiale diffidenza nei confronti dei Greci o, comunque, di popolazioni di origine greca, quasi autocitazione, più ristretta e generica, che Virgilio fa del timeo Danaos et dona ferentes (Temo i Greci anche quando portano doni) del v. 45 del libro II.
La seconda testimonianza fa pensare che i Troiani si fossero portati appresso una buona quantità di focacce da utilizzare come piatti per i sacrifici, ma da questo, a considerare la mensa come l’antenata ed Enea il primo importatore della frisella, ne passa!
23 Ippocrate (V-IV secolo a. C.), Sulle malattie interne, 25.
24 Eubulo (IV a. C.), 2; Alexis (IV-III a. C.), 178.18; Alceo (V-IV secolo a. C. , da non confondersi con l’omonimo lirico del VII-VI secolo a. C.), 2.
25 Epigrammaton, IV, XLVII: Encaustus Phaethon tabula tibi pictus in hac est./Quid tibi vis, dipyrum qui Phaethonta facis? (Fetonte è stato da te dipinto ad encausto in un quadro./Che scopo ti sei prefisso nel dipingere Fetonte bruciato due volte?). Dìpyros non è qui usato con riferimento al pane, ma non posso fare a meno di notare come l’arte di Marziale riesca a conferirgli un valore quasi surreale, amplificandone le valenze satiriche. Mi spiego meglio: Fetonte, personaggio della mitologia greca, ottenne dal padre Elio (o Apollo) di guidare per un giorno il carro del sole, ma perse il controllo, arse il cielo e fu fulminato da Giove; l’encausto è un metodo di pittura usato dagli antichi, per il quale i colori erano stemperati in cera liquefatta e fissati col fuoco; Fetonte, perciò, nel quadro risulta bruciato due volte, ma, anche se espressamente l’autore non lo dice , è come se la pessima arte del pittore l’avesse bruciato per la terza.
26 Il nome nacque in epoca bizantina in onore del suo presunto inventore o, per averne parlato, valorizzatore: Pàxamos (scrittore dell’epoca di Cristo), che, secondo la testimonianza di Ateneo (II-III secolo d. C.), si sarebbe interessato di gastronomia. Facendo due ulteriori salti qua e là nel tempo: lo storico Procopio di Cesarea (VI secolo d. C.) nella sua Storia delle guerre ci informa che il pane destinato ai soldati veniva cotto due volte; ma già Elio Spartiano, uno degli autori della Historia Augusta (forse III secolo dopo C.) e Ammiano Marcellino (IV secolo d. C.) ci parlano di un buccellàtum=galletta, pane da militari (da buccèlla=panino, da bucca=bocca); è noto che durante il dominio veneziano i forni di Creta producevano grandi quantità di paximadi destinato alla flotta della Serenissima; Henry Blount nel suo A voyage into the Levant (1636) ci fa sapere che per i temerari sfuggarades (pescatori di spugne) di Kalimnos, che aravano il Mediterraneo nelle profondità per cercare le preziose spugne, il paximadi rappresentava il compagno più fedele e che se ne nutrivano fin da piccoli per rimanere magri.
27 Dacos probabilmente è dall’omonima voce classica che significa bestia feroce, morso (da dakno=mordere).
28 Kulùres sono chiamati a Creta pure i pozzi circolari rinvenuti nella corte occidentale del palazzo di Festo. Ma è la somiglianza col pane ad aver dato il nome a quest’ultimi, o viceversa? Non sono in gradi di avanzare ipotesi: dico solo che nel greco classico collýra significa pagnotta e che certamente da questa voce derivano i siciliani, tipici di Caltanisetta, cuddrirèddri e la salentina cuddhùra (ciambella con un uovo nel mezzo) che ricorda, sia pure vagamente, i pozzi di Creta. Il parallelepipedo centrale è veramente , come qualcuno vorrebbe, un residuo della distruzione del palazzo o parte integrante del pozzo?
Solo coincidenze?
29 Carasau probabilmente è dal latino charaxàre=solcare, dal greco charàsso=incidere, con riferimento alla crosta screpolata.
30 Dal longobardo skafa=tavola per appoggio.
31 L’impasto, modellato in forma circolare, subisce una prima cottura alla fine della quale la cocchia (corrispondente all’italiano coppia) viene divisa longitudinalmente a metà con un filo.
32 In tale dialetto la voce è usata anche nel senso di ferita con carne martoriata. Vedi il post ‘A fresella all’indirizzo http://www.vesuvioweb.com/it/2012/01/armando-polito-a-fresella/
Credevo di trovarmi davanti a un leggero pezzo estivo di taglio investigativo e invece, come al solito succede con i contributi del prof. Polito, si resta come un ciclista a metà salita. Si parte per una ingenua lettura, si finisce col vocabolario in mano.
Per restare leggeri e tentare di scollinare pure noi poveri gregari, penso che abbia inventato la frisella chi ha inventato la biscottatura, o meglio i benefici che essa comporta nella doppia cottura della farina impastata. Quindi ha inventato tutta la famiglia delle gallette, dei i biscotti e delle friselle appunto. Magari qui nel Meridione abbiamo inventato solo quel modo particolare di confezionare il pezzo da cuocere che le conferisce le proprietà di condimento che fanno dimenticare di stare a mangiare solo farina asciutta.
Angelo non dimentichiamoci dell’ottimo grano duro che abbiamo solo noi, cresciuto sulla nostra terra rossa, in un clima particolarissimo. Converrai che anche questo è un unicum di cui dovremmo andare fieri. La straordinarietà di questo umile ma saporitissimo alimento, a mio parere, sta proprio nell’ottima farina (e come dimenticare la pasta fatta in casa?). Sapori ineguagliabili esaltati dall’olio nostrano, dai pomodorini, capperi, rucola e tutto il resto. Altro che Mc Donald! E non me ne importa se mi includono tra i tradizionalisti campanilisti!
Chiedo scusa ma, senza nulla togliere all’ottimo prodotto salentino, in merito al grano duro mi corre l’obbligo di precisare che il suo alveo naturale è la fertilissima terra nera del Tavoliere, il granaio d’Italia.
La risposta ai dubbi della nota 22, sono nella stessa Eneide nello stesso Libro III. Eleno, durante la tappa di Butrinto in Albania, predice il destino a Enea e lo mette a corrente di ogni minimo dettaglio. Gli predirrà lo sbarco in Italia nel Salento e qui Virgilio rinforza l’ipotesi delle origini cretesi di Castro, che la tradizione vuole fondata da Lictius Idomeneo. Idomeneo è partecipe alla guerra troiana e quindi potenziale nemico di Enea. E’ Eleno a consigliare Enea di fare i voti e fuggire subito: “Queste terre d’Italia e questa riva vèr noi vòlta e vicina ai liti nostri, è tutta da’ nimici e da’ malvagi Greci abitata e cólta: e però lunge fuggi da loro. I Locri di Narizia qui si posaro; e qui ne’ Salentini
i suoi Cretesi Idomeneo condusse; qui Filottete il melibeo campione
la piccioletta sua Petilia eresse. Fuggili, dico, e quando anco varcato
sarai di là ne l’alto lito, intento a sciôrre i vóti, di purpureo ammanto
ti vela il capo, acciò tra i santi fochi, mentre i tuoi numi adori, ostile aspetto
te coi tuoi sacrifici non conturbi: e questo rito poi sia castamente
da te servato e da’ nepoti tuoi.”
E lo stesso Enea, che per consiglio di Eleno si traveste con rossi cappelli frigi, nel terminare la visita al Tempio con rito dei voti della partenza rinforza: “il greco ospizio e ’l sospetto paese abbandonammo”. Sul piano letterario Enea, più che scambiare friselle, si preoccupò solo di tenere gli occhi aperti.
bella integrazione! grazie!
ottima trattazione, l’unico neo che trovo riguarda la necessaria differenziazione geografica e culturale tra la frisa bucata e quella senza buco. E un’altra aporìa occorre illuminare: la fragilità della frisa non le consente d’essere paragonata alla galletta o al pane vichingo. E, probabilmente, nemmeno al pane carasau anch’esso fragile ma per costruzione soggetto ad una possibilità di packaging che lo preserverebbe dalle rotture. La frisa non lo attribuisco al movimento di militari proprio per queste ragioni. Credo invece che sia più attribuibile ad una conservabilità stanziale a supporto dei periodi carestìa. Sono solo domande che pongo a me medesimo apprezzando in toto l’eccellente contributo.
scrive Armando nella nota 4: “Offa significava boccone, focaccia, polpetta e, per traslato, bernoccolo”.
Ma, se ricordo bene, significa anche “sorso”. Mio nonno di tanto in tanto chiedeva alla moglie “‘n’ùffulu ti mieru” per inumidire la bocca e la gola (“cu mmi ssuppu li cannaliri”)
In un poema in latino medioevale di incerta datazione, il Facetus, compare un “offare” che il Diefenbach nel suo glossario latino-germanico interpreta come sinonimo di sorbère=sorbire , mentre considera “cratis” incrocio tra cyathus e crater (entrambi, pressappoco sono sinonimi di bicchiere).
Dum cibus extat in ore tuo, potare caveto:
in cratis offare decet, non in ore repleto
(Mentre c’è del cibo nella tua bocca, guardati dal bere:
conviene sorbire nei bicchieri, non nella bocca piena)
Direi che la glossa del Diefenbach (d’altra parte scontata, dato il contesto) fa pensare ad un sostantivo offa, del quale “uffulu” sarebbe diminutivo. A questo punto questo “offa” sarebbe veramente lo stesso del post solo immaginando un passaggio concettuale dal solido (boccone) al liquido (sorso). Purtroppo di “offare” il Diefenbach si guarda bene dal proporre l’etimo e il Rohlfs, dal canto suo, registra “uffulièddhu=sorsellino” citandolo da “Cose nosce” di Francesco Castrignanò, nell’edizione, però, del 1909 (l’amico Marcello mi ha regalato una copia della ristampa del 1968, dove, però, la poesia con “uffulièddhu” non compare e nel vocabolarietto in appendice manca la nostra voce che, invece, doveva comparire nell’edizione del 1909), anche lui senza proposta etimologica. E io, a parte l’ipotetico slittamento semantico proposto, non sono Mandrake…
Complimenti, devo proprio dire che ora ne so qualcosa di più
Me passau la fame…. quella venale del ventre!
Ma quanta fame mentale ho se rimango stupito davanti al valore intrinseco di una frisella?
Carissimo Professore, devo farle ovviamente i comlimenti anche se aggiungerei, per la polenta, la combinazione farina di spelta e lenticchie abbondantemente consumate dalle classi più basse perché se ne servivano le clasi alte come riempitivo nel trasporto di pezzi importanti dalle colonie (un po’ come si fa oggi con il polistirolo, e la minestra con lenticchie è appunto puls lentis. Riguardo alla friseddhra credo che sia importante investigare sulle tecniche di cottura oltre chesui riferimenti bibliografici. La friseddhra è un bis-cotto quindi ha bisogno dei forni a cupola. Per certo ne fu edificato uno a Roma nel 161 a.c. (che io sappia) solo nei fornia cupola abbiamo le temperature di 400 °C di primo alzo e poi la decrescita lenta per la seconda cottura che va fatta a circa 240 °C
Ma comnque le note sono interessantissime per un cultore della friseddhra della quale mi reputo.
Pino De Luca
Ringrazio per i complimenti ma soprattutto per le integrazioni che mi consentono di dire quanto segue:
1) mi pare felicissimo il paragone tra la lenticchia e le palline (o altre forme) di polistirolo; debbo, però aggiungere che le lenticchie (come la sabbia o il pietrisco), sicuramente ecocompatibili, erano utilizzate come zavorra per garantire alle navi la stabilità. Plinio (Naturalis historia, XXXVI, 11) ci informa che la nave che trasportò a Roma per volere di Caligola un obelisco egizio (fu sistemato come spina del circo, poi Sisto V nel 1586 lo fece piazzare al centro della piazza del Vaticano) venne zavorrata con 120.000 moggi (più di mille tonnellate) di lenticchie. Sicuramente erano lenticchie egiziane, delle quali lo stesso Plinio ricorda una varietà più pregiata, tonda e nera, ed un’altra comune. Plinio ci informa pure che la nave venne affondata per servire da fondamenta al porto ostiense, ma è logico supporre che tanta lenticchia venne prima immessa sul mercato: il classico “nu iàggiu e ddo’ sirìzzi (un viaggio e due servizi).
2) il dettaglio della doppia cottura è fondamentale e se, come successo per il pane di Ercolano, questo stesso centro o Pompei ci restituisse una friseddha o quel che ne resta, avremmo almeno un dato cronologico in più. Comunque, visto che forse, paradossalmente, sarebbe meglio riseppellire ciò che finora è stato portato alla luce per conservarlo alle generazioni future, chi vivrà vedrà. Nel frattempo, però, per quanto riguarda la doppia cottura, possiamo retrodatare, per l’Italia, la probabile applicazione di questa tecnica almeno alla metà del VI secolo a. C. A tale età infatti risale un forno a camera circolare coperto da una cupola a sezione ogivale rinvenuto tra i resti di una fattoria coeva a Roma nel quartiere Flaminio (Garandini-D’Alessio-Di Giuseppe, La fattoria e la villa dell’Auditorium nel quartiere Flaminio di Roma, L’”Erma” di Bretschneider, Roma, 2006, pp. 71-76). Certo, il forno è piccolo, ma, comunque, delle stesse forma e dimensioni di quello, in cemento refrattario compresso e a legna, in cui mia moglie procede alla cottura di tutto o quasi e, se necessario, alla biscottatura (per ora son rimasto fuori dall’una e dall’altra …), friseddhe comprese.
Interessante articolo, che evidenzia in fondo come prodotti alimentari simili nascano in posti diversi per rispondere ad esigenze simili (navigazione, lunga conservazione etc.). Saluti
Articolo molto interessante. Ringrazio la fondazione per queste perle che tengono viva la nostra cultura. Avrei un commento/domanda (anche se l’articolo e’ un po’ vecchio spero qualcuno possa ancora leggere questi commenti).
Sono stato a Creta piu’ volte, e la somiglianza del dakos con la nostra frisella e’ impressionante, sia nella forma e gusto, ma sopratutto nella preparazione (con annesso termine dialettale cretese per indicare la “sponzatura”…) . Ho riscontrato questo “gemellaggio” gastronomico anche nelle cozze munaceddhre, molto comuni a Creta, con l’unica differenza che loro le cucinano con rosmarino e noi alloro.
Questa somiglianza del dakos con la frisa potrebbe secondo me essere investigata un po’ meglio, dato lo storico legame Salento-Creta sin dai tempi antichi. A Creta i forni che producono i dakos sono business famigliari di antichissime generazioni, proprio come da noi nel Salento, e sarebbe interessante investigare eventuali punti di contatto nella storia tra i produttori.
In aggiunta, un’altra mia curiosita’ mi ha fatto pensare alla dominazione veneziana di Creta e sopratutto Corfu. Queste isole erano il cuore della produzione del “biscotto” della marineria veneziana. Sopratutto a Corfu si concentravano i forni che rifornirno di biscotto le galere che furono impiegate in tante guerre contro il turco.
Mi chiedevo se avrebbe senso cercare un legame tra la frisa e il “biscotto” delle galere di produzione greco-veneziana.
Grazie!
Paolo
Quando le conoscenze investono il sapere sulla nostra storia, le nostre tradizioni ed usi radicati, il quadro che si apre anche sul quotidiano, la gioia di conoscere, spronano al rapido apprendimento: Questo articolo apre porta su un mondo che ci ha preceduto, apre finestre su paralleli spiragli della nostra storia antica, quasi ancestrale, richiama scrittori e storici dell’antichità che sono fari della nostra cultura. Si legge avidamente e ci si incanta sui tanti tasselli che si aprono sui diversi aspetti che interessano ed appassionano. Si finisce la lettura, lieti di saperne di più e con dentro l’orgoglio della nostra salentinità.