di Giorgio Cretì
Tutti i mercoledì la gente di Castro si recava al mercato di Poggiardo. A piedi. Andavano tutti scalzi e con le scarpe legate tra di loro per i lacci ed appese ad una spalla. Non facevano grandi acquisti, perché di soldi ne avevano pochi, ma andavano ugualmente, specie d’inverno quando il tempo non permetteva di uscire in mare; anche se poi acquistavano solo qualche chilo di verdura. A Poggiardo compravano anche la canapa ed il cotone che poi davano da filare a Mastro Pativito, per le lenze e per le reti.
Nunzio andò anche lui al mercato, a fare provvista di materia prima. Comprò da Elia, dove andava sempre per questo genere di spese, un chilo di coloratu – sali di acido clorico –, mezzo chilo di solfuro di antimonio, che era una polvere nera come il carbone e pesante come il piombo, ed un quarto di pece greca. Nascose il tutto in fondo alla bisaccia e di sopra vi pose un paio di chili di cavoli ed una manna (un mannello) di canapa grezza.
Tornando a casa pensava alle sarpe(1). Le aveva osservate per un po’ di tempo, sotto uno scoglio alle Striare. Perlamadonna, si andava dicendo, devo prenderle! Dieci, quindici chili di sarpe gli avrebbero fatto proprio comodo, a venderle se ne poteva ricavare almeno settanta lire. Tutti i giorni, ad una certa ora, andavano lì a brucare le alghe alla foce di un fiumicello sotterraneo – erano ghiotte di quell’erba morbida che i pescatori chiamavano erba di seta –. Come le pecore, pensava Nunzio, sono proprio come le pecore, per la loro madonna!
Giunto a casa si mise subito all’opera. Macinò nel mortaio la pece greca e la passò al setaccio della farina, poi prese un pezzo di carta azzurra, di quella che allora veniva usata per involgere la pasta, e con la massima attenzione cominciò a fare la miscela per le botte. Bisognava fare tutto con arte e perizia. Quello non era un mestiere da pulcinella, ma di gente seria; qualcuno che ci si era messo a farlo senza conoscerne bene l’arte, o ci aveva rimesso la vita oppure era rimasto mutilato di una mano o, anche, di un occhio. Nah, perlamadonna! Bisognava assolutamente evitare l’attrito tra le diverse polveri, adesso. Non c’era pericolo di esplosione, ma la miscela poteva incendiarsi e bruciare come brucia la benzina. Chi gli dava poi le sette lire per andare ancora da Elia? A credenza, ad uno come lui, non dava niente nessuno! Prese un altro pezzo di carta, ne fece una specie di cilindro, piano piano lo riempì di miscela e pressò bene il tutto. Mise la miccia, che per il lancio che aveva in mente stimò sufficiente della lunghezza di mezzo fiammifero, chiuse l’ordigno e lo legò stretto con lo spago, come si legano le cartucce dei fuochi d’artificio. Nascose ogni cosa in un posto dove i bambini non potevano arrivare e scese al Porto per altre faccende. La sua vita era lì.
La sera andò a letto presto, come di consueto, anche prima dei bambini. La moglie rimase a rammendare alla luce di una piccola lampadina di quindici candele.
Aveva mangiato poco e sognò molto. Un branco di cefali, di oltre mezzo chilo l’uno, continuava a girare vicino alla sua postazione, ma non veniva mai a tiro ed egli si girava e rigirava nel letto. Poi la visione dei cefali svanì ed egli dormì tranquillamente per qualche ora.
Si trovò seduto sopra una roccia. Poteva essere il mese di giugno e dal mare soffiava una leggera brezza di scirocco, increspando appena appena le onde che battevano sotto di lui e si frantumavano in spuma frizzante. Stava lì seduto ed attento perché era l’ora in cui le sarpe venivano al pascolo. Teneva poggiata sulla roccia, alla sua sinistra la bomba pronta per essere innescata e lanciata e alla sua destra teneva accesa una vecchia corda di gabbia di frantoio avvolta stretta con un pezzo di rete. La corda imbevuta di olio emanava un acre odore di lucerna.
Aveva anche pronto il coppo(2) a portata di mano, per buttarsi in mare dopo l’esplosione e raccogliere i pesci che sarebbero venuti a galla riversi.
Le sarpe non si facevano vedere. Eppure, perlamadonna!, era l’ora. Controllò l’ordigno e ne osservò bene la miccia, tutto era a posto.
Stava con gli occhi fissi al mare, quando intravide sotto il pelo dell’acqua il branco che si avvicinava. Attese che i pesci si avvicinassero di più e, intanto, con la sinistra prese la botta e ne verificò ancora la miccia. Senza voltarsi allungò la destra per prendere la corda accesa e… sentì al tatto una cosa fredda e viscida che non si attendeva, una sacara(3) perlamadonna!, e, d’istinto, scaraventò tutto in acqua.
Si svegliò di soprassalto e si rese conto ch’era ora di alzarsi. In casa tutti dormivano profondamente.
Si infilò in fretta i calzoni, li legò con un pezzo di corda resa rigida dalla salsedine e indossò un maglione scuro che aveva comprato chissà quando. Mise in tasca due botte ed uscì. Dalla posizione delle Pleiadi potevano essere le tre e mezzo.
Prese il ripido sentiero che collegava a mo’ di strada diretta il paese alla marina e, quando giunse nel punto in cui questo tagliava la litoranea, trovò la macchina della Finanza che faceva il giro d’ispezione notturno. Cercò di tirare diritto, ma il brigadiere lo chiamò.
“Hei, Nunzio, dove vai?”
“Stavo scendendo al Porto”, Nunzio rispose fermandosi. Apparentemente era calmo.
“Sali che vieni con noi”, lo invitò il brigadiere.
“Grazie, comandante, disse Nunzio, giù di qua sono già arrivato”.
“E sali..”., lo invitò ancora il brigadiere.
E Nunzio salì e con loro fece il giro di Santa Croce. Nessuno dei finanzieri parlò finché non giunsero sulla piazzetta del Porto.
“Che cosa bevi, Nunzio?”, chiese il brigadiere mentre entravano nel bar di sotto.
“Il compare lo sa, Nunzio disse, compare dammi un Sammarzano”. Pensò che le guardie erano brave persone, ma siccome le precauzioni non erano mai troppe, disse: “Permesso un momento, quanto vado qua dietro a urinare”.
Uscì con molta calma, ma appena fuori controllò con la coda dell’occhio i finanzieri e si diresse di corsa verso la parete rocciosa. Prima trasse di tasca le due botte e le nascose in una fessura e poi urinò. Allora tornò al bar, non solo tranquillo, ma anche spavaldo.
“Dov’eri?”, finse di chiedergli il barista.
“Come dov’ero, perlamadonna! Ho detto che andavo fuori a urinare! Dammi il mio Sammarzano, dammi! E ne vogliamo noi di questi!”, disse alzando il bicchiere e schizzando l’occhio al compare.
“E ne vogliamo!”, confermò il barista, che sapeva molto bene di quale piede Nunzio zoppicasse.
I finanzieri, bevuto che ebbero, se ne andarono verso Tricase. Nunzio salutò, andò a riprendersi ciò che aveva prima nascosto e scese al porticciolo. Aveva i suoi attrezzi in una delle grotte naturali ai piedi del monte, li raccolse e li portò nella barca.
Tirò su la mazzara(4), slegò la zuca(5) dell’ormeggio e, remando con ritmo lento ma vigoroso, si avviò verso la Punta Mucurone.
L’alba si preannunciava radiosa.
Sarpe, salpe.
Coppo, retino.
Sacàra, sorta di serpe di considerevoli dimensioni. E’ il Cervone o Colubro a quattro righe che può raggiungere il peso di 3 chili e la lunghezza di 260 centimetri. Una diceria popolare voleva che la sacara, molto ghiotta di latte, durante la notte succhiasse alle mammelle delle donne mettendo la sua coda in bocca ai bambini per farli star buoni.
Màzzara, àncora.
Zuca, generalmente corda di sparto o di giunco, la meno resistente e la meno costosa, in questo caso cima d’ancoraggio.
(“il Rosone” – Anno VII n. 4-5, 1984)
Congratulazioni a Giorgio Cretì per il suo straordinario articolo.
Il suo stile di scrittura è scorrevole, mai pesante, ed ha la caratteristica di tenere sempre tesa l’attenzione del lettore. Bravo veramente!
Una nota a margine: nei ricordi della mia infanzia NUNZIO era anche il nome di un pescivendolo che con il suo APE Piaggio negli anni ’70 veniva da Castro a Spongano (mio paese d’origine) a vendere per le strade l’ottimo e profumato pesce azzurro.
Marino Miccoli.