testo e foto di Rocco Boccadamo
Esiste ancora al paese natio, esteso nella sua dimensione originaria, un fondo agricolo denominato “Arciana”, pregno, a modo suo, di storie, reminiscenze ed emozioni, intorno a fatti di vita snodatisi per lo meno nell’arco di secoli, se non di millenni: a tal punto, da far avvertire la sensazione che finanche le sue pietre parlino, comunichino.
Nonostante la notevole vetustà, il campo in questione è rimasto fondamentalmente inalterato, come naturale fisionomia, sino allo scorso gennaio, quando una violenta tromba d’aria, abbattutasi su Marittima e dintorni, ha sradicato e abbattuto, quasi fossero stati fuscelli, tutti i maestosi e giganteschi pini che ne cingevano due segmenti del perimetro.
Per fortuna, il violento fenomeno atmosferico ha invece risparmiato la bella torre colombaia (dai paesani, appellata semplicemente palummaru), che si erge quasi al centro dell’appezzamento.
Il più illustre intestatario dell’Arciana è indubbiamente stato l’arciprete del paese don F.N. (gli abitanti più anziani hanno avuto agio di conoscerlo direttamente in vita e se lo ricordano bene), mentre, dopo di lui, il fondo è finito sparpagliato, in uno con diversi altri beni immobili posseduti dall’autorevole personaggio, nell’ambito dei numerosi suoi eredi.
Ai tempi del reverendo, per la verità, nell’Arciana vegetavano molti alberi da frutta, compresi alcuni mandorli che, in primavera, erano sistematicamente scalati da nugoli di monelli, con la ovvia conseguenza a loro carico, in aggiunta alla canonica penitenza, d’immancabili severe reprimende da parte del legittimo titolare in tonaca, derubato, in occasione dei saltuari contatti con lui al confessionale.
E’ caratteristica e suscita, già di per sé, un certo fascino, la stessa posizione dell’Arciana, a due passi dal centro storico e dall’antico spiazzo detto Campurra: affacciata, da un lato, sulla via vecchia per Andrano e dall’altro su una suggestiva strada di campagna, asfaltata non da molto, conducente ad una serie di fondi, piccole e frazionate proprietà contadine, dai caratteristici e misteriosi identificativi, Aranisi, Laricu, Sciunta, Munti e Murtuli (non a caso, ora che è venuta a rientrare nella mappa dell’abitato, ha assunto la toponomastica ufficiale di via Murtuli).
A poche centinaia di metri dall’Arciana col relativo palummaru, si trova il fondo detto “Turse”, oggi parzialmente coperto da una moderna abitazione, che, verso la metà del secolo scorso, era condotto e coltivato intensamente a cura dei proprietari, un nucleo famigliare composto da padre, madre e quattro figli, di cui gli ultimi due, U. e V., gemelli. Durante la bella stagione, coincidente con la fase più intensa dei lavori agricoli, tutti i predetti soggiornavano a tempo pieno alle “Turse”, dormendo alla meglio in una piccola casetta in pietre.
I gemelli U. e V. , intorno ai 10 – 15 anni, erano due ragazzi/adolescenti normali, anche se di statura medio bassa, e però, abituati a stare sempre ed esclusivamente in famiglia, si presentavano timidi e un po’ impacciati.
Non si allontanavano quasi mai dalle “Turse”, non frequentavano, tranne in rare occasioni, la piazza del paese, non avevano amici, erano titubanti e sembravano di aver paura nei confronti di chicchessia, addirittura dei coetanei.
Difatti, zio A., stessa classe di nascita ancor che maggiormente sviluppato nel fisico, destava palesi sentimenti di soggezione in U. e V., i quali, se si trovavano per caso a dare una sbirciata in giro oltre il muretto del loro fondo, scappavano immediatamente via, ritirandosi e scomparendo, non appena percepivano che il loro anzi ricordato pari età stava per passare davanti a loro, per recarsi al vicino fondo detto “Laricu” dove, insieme con i familiari, collaborava nella raccolta, infilatura e seccatura del tabacco.
Timidezza a parte, anche per U. e V. giunse il momento della leva e del servizio militare obbligatorio: il primo, finì in Marina, dove, passato il periodo di naia, decise di “raffermarsi”, riuscendo poi a compiere un’apprezzabile carriera fino al grado di Maresciallo, mentre V. fu arruolato nell’Esercito e mandato a prestare servizio nel Nord Italia.
Dopo la parentesi in uniforme grigio verde, V. fece ritorno a Marittima, lasciando i compaesani notevolmente meravigliati per la sua inaspettata e inusitata spigliatezza; in particolare, il già soldato, confidava di aver scoperto una passione per la musica leggera, per le canzoni italiane in modo particolare, seguiva le classifiche e i festival, imparando a memoria, mercé l’ausilio di un apposito libretto canzoniere, i motivi più in auge.
Due brani, li considerava alla stregua di personali cavalli di battaglia, con ciò riferendosi a “Corde della mia chitarra” e “Usignolo”, portati al primo e secondo posto nella classifica del Festival di Sanremo del 1957, dalle coppie Claudio Villa – Nunzio Gallo e Claudio Villa – Giorgio Consolini. Ovviamente, affermava di conoscere a menadito dette due canzoni, sia come testo, sia come musicalità e interpretazione.
Si discettava a lungo della mania “canterina” di V. in ogni riunione fra ragazzi e giovani, in piazza o fra le aiole della moderna villetta pubblica sorta sul vecchio largo Campurra.
E tutti, indistintamente, a dare corda a V., a stimolarlo, incitandolo a dimostrare la sua abilità mediante esibizioni in diretta, inducendolo, a tal fine, a montare sul bordo circolare della vasca della fontana a zampillo, lui era contento, e intanto, per l’auditorio, s’innescava uno svago non da poco: quanto alla qualità delle performance, beh, lasciamo stare, in fondo ciò che contava era dare gloria a V.
Dopo un po’, l’artista concittadino manifesto apertamente l’aspirazione ad esibirsi davanti a un pubblico più vasto, al che, immediatamente, in sintonia, qualcuno degli amiconi gli prospettò o ventilò la possibilità di trovargli spazio in un sito di rango, quale indubbiamente era da considerarsi il cinema “Excelsior”, all’epoca attivo nel paese (adesso, l’edificio è utilizzato come profumeria e lavanderia) .
Invitammo V. ad acquistare, per sé e per i supporter, biglietti di galleria in numero sufficiente (per inciso, il tariffario del cinematografo prevedeva 30 lire per platea ragazzi, 40 per platea adulti e 60 lire per la galleria), avremmo pensato noi ad organizzare la manifestazione o debutto coi fiocchi.
La domenica pomeriggio, una coppia di svelti s’intrufolò, come accadeva ogni tanto, nella cabina di proiezione con la scusa di dare una mano al vecchio operatore A.B. , di sfuggita agguantò il microfono utilizzato da quest’ultimo per annunziare i film in programmazione e, attraverso la finestrella di proiezione, lo passò a un “complice” in galleria. Accesesi le luci nell’intervallo della pellicola, bastò un attimo e l’altoparlante fu in mano a V. il quale, su un gradino alto della galleria stessa, prese a cantare: “Corde della mia chitarra, perché vi fermate, perché non suonate soltanto per me…….”, fra la grandissima sorpresa degli spettatori, vocii, schiamazzi di godimento o riprovazione.
Il trambusto fu così sonoro, che l’operatore A.B., distrattosi in cabina, si rese conto della stranezza della situazione, guardò d’istinto giù dalla finestrella e s’accorse del tranello: con grida indignate e minacciose, intimò la restituzione immediata del microfono, zittendo, di fatto, il povero V., in fondo rammaricato per lo stop alla sua esibizione, ma sotto sotto contento di aver potuto dimostrare a un vasto pubblico le sue doti canore.
Fortunatamente, i gemelli U. e V. sono, ad oggi, vivi e attivi, hanno entrambi famiglia, figli e nipoti. Prossimi agli ottanti, si scorgono in giro, il primo in macchina o a piedi o a bordo di un motocarro Ape, il secondo al volante dell’auto o a cavallo di una bicicletta elettrica, in supporto ad arti e muscoli naturalmente affaticati da molti decenni di lavoro.
Davvero, la loro lontana timidezza giovanile è, ormai, un capitolo di cui non è rimasta la minima traccia.