di Alessio Palumbo
Con l’arrivo dell’estate le campagne tornano ad animarsi. La raccolta di pomodori, angurie e quant’altro, impegna una vasta manodopera, spesso immigrata. Povera gente che, in molti casi, fugge da condizioni sociali ed economiche terribili e cerca di allontanare lo spettro della fame lavorando nelle nostre campagne. Non di rado sono immigrati irregolari, pagati pochi soldi e stipati in alloggi di fortuna. Svolgono quei lavori spesso rifiutati dagli italiani, ma ciò non garantisce loro rispetto o solidarietà. Anzi, in molti casi sono esclusivamente additati come causa di disordini, come autori di atti criminosi. Sono degli indesiderati. Sono le “vittime” di chi ha una scarsa conoscenza delle proprie origini e della propria storia.
Troppo spesso, infatti, confusi da immagini edulcorate sul nostro passato, fermandoci alle rappresentazioni della campagna salentina come luogo sì di lavoro, ma soprattutto di feste contadine e di canti al ritmo dei tamburelli, dimentichiamo che anche i nostri antenati hanno vissuto l’emigrazione, lo sfruttamento, il disprezzo degli altri popoli.
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, l’agricoltura del sud Italia attraversò un periodo di profondo regresso a causa sia di trattati commerciali dannosi per le colture del Mezzogiorno sia di periodiche crisi agricole, dovute tra l’altro alla diffusione di malattie parassitarie. A questa difficile situazione le popolazioni meridionali risposero, in molti casi, con l’emigrazione in Europa ed oltreoceano.
Nel Salento la crisi fu particolarmente grave, intaccando le due principali colture locali: la vite e l’ulivo. Dal 1892 in poi, interi uliveti furono colpiti da un’epidemia, la brusca, che costrinse i proprietari a sradicare numerose piante, facendole saltare in aria con la dinamite. Nel giro di pochi anni anche la vite fu infettata da una malattia parassitaria, la filossera. Ne derivò un terribile immiserimento per tutti coloro che vivevano del lavoro nei campi:la Terrad’Otranto divenne per molti una terra di disperazione.
Per tutto il primo quindicennio del secolo, una miseria terribile e diffusa impedì a gran parte del proletariato salentino persino di racimolare il denaro necessario per emigrare oltre confine. Scriveva Francesco Coletti:
“M’interessa segnalare una zona delle più disgraziate posta nel Subappennino (nei circondari di Lecce e Gallipoli), la quale ancora non fornisce emigranti: è gente isolata e denutrita, che ha paura dell’ignoto e persino stenterebbe a racimolare il peculio per il viaggio”[1]
Enormi masse di contadini cercarono quindi di sottrarsi alla fame e alla povertà spostandosi nelle campagne del brindisino, del Tavoliere e persino della Calabria. Nei borghi, flagellati dalla malaria e da periodiche epidemie di colera, rimasero le famiglie e quei pochi che potevano far a meno di emigrare. Come dimostrano le numerose inchieste dell’epoca e le denunce dei meridionalisti, gli immigrati dal basso Salento venivano alloggiati in posti di fortuna, costretti a lavorare dall’alba al tramonto, tra il disprezzo e l’astio dei contadini locali. Per i braccianti baresi e foggiani, spesso già organizzati in combattive leghe di lavoro, i leccesi erano soltanto degli affamatori che svendevano per nulla il proprio lavoro, causando così un abbassamento generale dei salari. Le carte prefettizie testimoniano le aggressioni ai danni dei contadini salentini:
“Queste immigrazioni […] danno luogo a incidenti fra gli immigrati e gli indigeni i quali temono ribassi nei salari. La cronaca deve registrare casi non infrequenti di violenze commesse a danno degli immigrati”[2]
“Gli operai giornalieri restano, di regola di notte alle masserie; le condizioni di ricovero variano da masseria a masseria. Nel migliore dei casi gli adulti maschi stanno in un locale, le femmine e i ragazzi in un altro. D’estate per molte masserie anche in siti malarici, si dorme all’aperto tutti quanti o tutt’al più in qualche capanna di paglia, nei cui angoli gli uomini si ammucchiavano”[3]
Chi rimaneva nei luoghi d’origine molto spesso viveva di stenti. Gli scarsi sussidi del governo, le cucine economiche per i più poveri, l’opera di alcune società di mutuo soccorso e di enti benefici, rimanevano semplici palliativi per una situazione drammatica. Alcune testimonianze dell’epoca possono rendere maggiormente l’idea:
“Prolungamento piogge e deficienza lavori campestri sindaco Cutrofiano invoca concessione sussidio per distribuzione generi alimentari famiglie povere e bisognose […] anche per evitare turbamento ordine pubblico”[4]
“Sindaco Alezio invoca sussidio per impianto cucine economiche a pro contadini disoccupati. Dalle informazioni assunte risulta che causa piogge abbondanti quei terreni sono tutti allagati e quindi effettivamente vi è assoluta mancanza di lavoro con conseguente miseria della classe dei contadini”[5]
“Comune Casarano ove giorno sei corr. verificansi caso accertato colera ed ove occorre intensificare profilassi così nel capoluogo come nell’importante frazione Melissano, essendo deficienti servizi come fu constatati da ispezione medico provinciale. Chiede sussidio”[6]
Fermiamo qui la narrazione. Sono solo degli spunti per riflettere su un passato spesso dimenticato. Volendo, potremmo interrogarci sul perché di questa dimenticanza: si tratta di un passato troppo remoto per essere ricordato? O forse talmente duro da “dover” essere dimenticato?
[1]Francesco Coletti, Dell’emigrazione italiana, 1911 in R. Villari, Il sud nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 1981
[2]Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini meridionali e della Sicilia – Puglie, vol III, tomo I: Relazione del delegato tecnico prof. G.Presutti, Tip. Nazionale di G.Berterio, Roma, 1909, p.170, in. F. Grassi, Il tramonto dell’età giolittiana nel Salento, Roma-Bari, Laterza, 1973
[3]Inchiesta sui contadini in Calabria e in Basilicata, in F.S. Nitti, Scritti, Bari, Laterza, 1968, p.182
[4] Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 04/03/1910, in Archivio Centrale dello Stato, M.I. Assistenza e beneficenza Pubblica, 1910-12, b.21
[5]Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 28/02/1910, ivi
[6]Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 10/01/1911, ivi
Ottimi spunti di riflessione!
Aggiungo come da leggere, se riuscite a trovarlo (Oscar Nuccio
ALFREDO CODACCI PISANELLI – Atti Parlamentari per “Le Puglie” la “Terra d’Otranto” il “Capo di Leuca” 1897-1925) l’intervento in Parlamento del 1 giugno 1903 sulle Condizioni della Provincia di Lecce in cui Alfredo Codacci Pisanelli descrive lo stato agonizzante dell’agricoltura e dell’economia del Capo di Leuca.