LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO
IL SONNAMBULISMO E TUTTE LE FORME LINGUISTICHE
INERENTI L’USO DELL’OPPIO E DEGLI EFFETTI OPPIACEI
LA PAPARINA (LA PAPAVERINA)
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Non appena il sonnambulo – impressionante nell’atonia dei suoi occhi sbarrati – sgusciava fuori dal letto come risucchiato dall’urgenza di compiere un’azione – peraltro imprevedibile in quanto determinata da interferenze oniriche -, un familiare, o persona amica appositamente rimasta a vegliarlo, si metteva sui suoi passi, attento a sincronizzarsi nei tempi di andatura al fine di mantenere una certa distanza cautelare: per un’improvvisa inversione di marcia, il sonnambulo non si sarebbe così scontrato col suo pedinatore, evitando quel risveglio improvviso i cui effetti si temeva fossero letali. Seguendolo, era infatti di regola agire con la massima delicatezza, tenendo presente che più di una volta occorreva arginarlo in azioni rese pericolose dal suo stato di non lucidità: poteva mettersi a tirare acqua dal pozzo, arrampicarsi su un albero, salire su una grondaia, camminare sull’estremo ciglio di un fosso, o inoltrarsi in un campo non suo e venire aggredito da qualche cane da guardia.
Per fortuna, se il contatto fisico – involontario o voluto che fosse – creava dei timori, nessuna preoccupazione sussisteva per ciò che riguardava rumori, voci, grida, sicché la persona che lo seguiva poteva liberamente parlare a voce alta, in tal modo prendendo due piccioni con una fava: da una parte ciò gli consentiva di svolgere l’azione terapeutica, che – come già accennato – consisteva in una reiterazione di messaggi, dall’altra, proprio in virtù di questo suo alto e continuo vociare, dava legalità all’inconsueto incedere notturno, comunicando in tempo a eventuali intercettatori che non si trattava di un malintenzionato ma solo di nnu sunnàmbulu a ppassìu (un sonnambulo a passeggio). Nessuno infatti avrebbe mai potuto malignare udendo l’avvitarsi di quel monologo, inequivocabile peraltro anche a considerevole distanza per via della particolare cadenza: un litaniare lento nella pronuncia, ma forte nel tono e coreograficamente sostenuto dal costante tendere dei palmi verso la nuca del malato, gesto se non di vera e propria irradiazione, quanto meno di convogliamento della volontà.
Va da sé che la volontà era quella di riportare il sonnambulo nel suo letto, in pari tempo convincendolo a non ritentare l’esperienza di quell’assurdo deambulare, per cui, nel chiaro intento di forzarne la sfera psichica, alle frasi si dava misura lapidaria, forgiandole in termini di confronto fra ordine e disordine e offrendole come chiave di rientro nella normalità: “Spranga li farcùni e ttorna a llu chiasciòne prima ca lu castariéddhru si nni ccorge.” (“Chiudi gli occhi e ritorna nel lenzuolo prima che il gufo se ne accorga.”); “No ss’à ddurmire tisi, s’à ddurmire stisi.” (“Non si deve dormire in piedi, si deve dormire stesi.”); “Lu sciùrnu a mmiénzu all’erva, ma la notte intra,a llu liéttu.” (“Di giorno fra l’erba, ma la notte nel letto.”); “Uécchi piérti a llu sole li bbinitìce Ddiu; uécchi piérti ti notte li rranfa la cuccuàscia.” (“Occhi aperti di giorno li benedice Dio; occhi aperti di notte per sonnambulismo li graffia la civetta.”).
A questi messaggi, che il tramando orale definiva “palòre ti cugnu” (“Parole cardine”), spesso venivano a sommarsi “Li palòre scange” (“Le parole non regolamentari”), frasi fantasiosamente improntate da quanti, trovandosi per caso a incrociare il patetico passìu e forse curiosi di vedere come andavano a finire le cose, facevano gruppo alle spalle del sonnambulo.
“Cchiù mmànure sprùanu l’aulìe / cchiù mprima si àe a llu trappìtu.” (“Più sono le mani che brucano le olive / più presto si va al trappeto [prima si ha l’olio].”), dicevano questi avventizi a giustificare la loro intromissione, analogicamente facendola valere come provvidenziale rafforzamento dell’azione terapeutica e quindi capace di determinare un più rapido “ssugghimiéntu ti nnùbbiu”.
Questo identificare la guarigione del sonnambulo in uno scioglimento da nùbbiu (annebbiamento) – la cui valenza semantica era specificatamente volta a indicare l’effetto oppiaceo – svela un’indubbia trasposizione di segno nella logica, non essendo accettata, neppure a livello di diagnosi contadina, un’oggettiva correlazione fra stato sonnambolico e azione narcotica. Il perché dell’improprio accostamento va quindi cercato nella sfera delle trascrizioni associative, innestandosi in quella particolare dialettica mentale le cui coniugazioni raramente sottostavano alla legge dei rilievi matematici, interessate com’erano a cogliere i riflessi di ipotetiche derivanze e interferenze.
A tale scopo, occorre necessariamente rifarsi al parlato quotidiano, cioè vedere quali erano in pratica le occasioni di riporto all’effetto oppiaceo e se e quanto l’applicazione linguistica variasse nell’eventuale passaggio dal dichiarato al sottinteso.
L’oppio, per il suo essere prodotto dei campi e quindi più o meno alla portata di tutti, si può dire fosse il ritrovato più comune della farmacopea contadina, per cui, sempre in riferimento terapeutico, non si aveva nessuna remora nell’avallarne e caldeggiarne l’uso.
“Ci uéi cu ddorma, tocca cu llu nnubbi.” (“Se vuoi che si addormenti gli devi propinare un po’ di oppio sciolto nel latte.”), si diceva a una giovane madre alle prese con un bambino restio ad addormentarsi; e se qualcuno lamentava dei dolori – fossero reumatici o mestruali – non ci si peritava di consigliare: “Nnùbbiate cu lla paparìna, accussì no ssuéffri.” (“Stordisciti con uno sciroppo a base di oppio, così non soffri.”).
Per quanto diffusa, la paparìna (papavero bianco, nel Salento quasi sempre rosaceo) non era erva ti scapìstru (erba priva di capestro, cioè proliferante) come le famose scàttule (papaveri rossi), per cui, nel suo nascere a ceppi isolati, richiamava l’attenzione dei bambini: “Stàtibbe alla larga ti la paparìna, no nci ficcati lu nasu, ca sinnò bbi nnùbbia.” (“Tenetevi alla lontana dalla corolla del papavero, non avvicinate il naso, altrimenti vi ottunde, vi addormenta.”).
In verità, quando al culmine della fioritura le capsule si gonfiavano accusando la presenza dell’oppio, anche gli adulti giravano al largo per evitarne le esalazioni; né mancava chi – marito geloso di una donna giovane e calda – le guardava in tralice, temendo che la moglie avesse poi a servirsene per narcotizzarlo, in tal modo assicurandosi libertà d’incontri durante la notte. Paura dettata dal comportamento di donne leggere, i cui tradimenti – a quanto si raccontava – erano stati agevolati dalla cummàre paparìna, ca sobbra’a lli corne nci mintìa l’ammàce ssicurànnu a lla mugghére nfitéle nnu marìtu gnorri e scuscitàtu (dalla comare papaverina, che copriva le corna con la bambagia, assicurando così alla moglie infedele un marito ignaro e tranquillo). Episodi che, per quanto sporadici, facevano testo nel ristretto ambiente paesano, malignamente alimentando quel linguaggio ironico-allusivo sempre gradito alle bocche maschili: vedendo un contadino presentarsi al lavoro mezzo addormentato o comunque tardo nei movimenti, i compagni non si lasciavano sfuggire l’occasione di chiedergli fra il faceto e il preoccupato: “Cce tt’à ffattu mugghérita stanotte, t’à nnubbiàtu?” (“Che ti ha fatto tua moglie questa notte, ti ha dato oppio?”).
E senza dare tempo alla risposta seguiva il collettivo nonché fraterno consiglio: “Anna sotta’a llu saccone, frate mia, e ci ttruéi scusa paparìna, scàngiala cu mmiéru ti putéa, ca nnu lliòne ale cchiùi ti nnu crapòne!” (“Cerca sotto il materasso, fratello mio, e se vi trovi dell’oppio, cambialo [commercialo] con vino di bettola, ché un leone [ubriaco prepotente] vale più di un caprone [cornuto]!”).
In realtà, cedendo alla lusinga del quarto di vino da consumare in allegra compagnia, i contadini eleggevano le bettole a loro privilegiate banche di cambio, incoraggiati dalla bravura che gli osti avevano nel fare incetta di tutto. In tale quadro speculativo, un particolare interesse lo suscitava proprio l’oppio, vantaggiosamente ricollocabile presso gli speziali o i barbieri, usi questi ultimi ad adoperarlo come analgesico durante le loro prestazioni odontoiatriche. All’epoca, infatti, per calmare un forte mal di denti non si aveva altra alternativa se non quella di ricorrere ai buoni uffici o dei barbieri o degli apicultori, gli uni e gli altri esperti nel dare sollievo utilizzando quelli che il popolo definiva “mbàrsami scusi ti la criazziòne” (“lenimenti nascosti nella natura”).
“Tàggiu scucchiàta la mégghiu apicéddhra…” (“Ti ho scelto la migliore ape…”), diceva correndo al rincaro del suo servigio, e opinando che più l’insetto si agitava, più veleno accumulava e quindi maggiore effetto aveva la puntura, aggiungeva: “Tàmule tiémpu cu ssi rràggia, ca cchiù si mbiléna mégghiu gghéte” (“Diamole il tempo d’invelenirsi, perché più s’invelenisce meglio è”). Solo quando vedeva l’insetto sbattere furiosamente contro il vetro e ne udiva il ronzare in forsennato crescendo si decideva a capovolgere il bicchiere sulla guancia dolorante, sfilando poi lentamente l’immaginetta e dando così all’ape la possibilità di conficcare il suo pungiglione.
Per l’azione velenifera e più ancora per il turgore che ne conseguiva, il poveretto registrava un rapido scemare del dolore, sicché se ne poteva tornare subito al lavoro senza dover neppure attendere all’estrazione del pungiglione: trattandosi di ape mellifera, usa a posarsi soltanto sui fiori, non sussisteva rischio di infezione. Se preoccupazione sopravanzava, era solo quella di risarcire all’allevatore la perdita dell’ape (privato del pungiglione l’insetto era destinato a morire), un danno sulla cui entità non c’era da obiettare, soprattutto se si era in tempo di fioritura quando a ogne bbulu criscìa nna stiddhra ti mele (a ogni volo la produzione del miele aumentava di una stilla).
Meno laborioso e quasi più aristocratico il rimedio offerto dai barbieri, come s’è detto basato sull’oppio. “Tiémpu cu ssi mpìccia lu craòne e llu miràculu ete fattu!” (“Il tempo occorrente per accendere un carbone e il miracolo è bell’e fatto!”), promettevano a ogni avanzare di richiesta; e desiderosi di far colpo sulla semplicità contadina ostentavano mosse solenni nel mettere in campo il prezioso oggetto con il quale compivano il vantato ‘miracolo’: un fornello quadrato, quasi una scatola metallica, che voleva essere una pipa da terra, popolarmente soprannominata argiòla” (“gabbia”) e per associazione di meccanismo nonché di uso riportabile ai narghilé orientali.
Posta all’interno la dose dell’oppio, stabilito il calore necessario e inserita nell’apposito buco una rigida e lunga cannuccia, invitavano il paziente ad aspirare il fumo lentamente, raccomandandogli di trattenerlo il più a lungo possibile nel cavo orale affinché il dente malato avesse tempo cu ssi nnùbbia toce toce (di assorbire l’oppio dolcemente).
Pur se ammirata come oggetto di non comune possesso e celebrata in quanto mezzo risolutore di uno stato di sofferenza al quale prima o poi tutti si era costretti a soggiacere (senza cugni nasci, senza cugni muéri [senza denti si nasce, senza denti si muore]), la cargiòla veniva guardata con un certo sospetto dal popolo, non ignaro che della stessa se ne servivano quanti usavano l’oppio, privatamente, a fine voluttuario; casi rarissimi, spesso semplicemente sospettati o comunque accertabili solo a distanza di tempo, cioè quando nell’assuefazione e conseguente rincaro delle dosi l’oppiomane ne dava conferma con il suo comportamento: delle azioni che compiva in stato di nnùbbiu non serbava memoria. “Mancu ci gghete nnu sunnàmbulu! » (« Neanche fosse un sonnambulo a come si comporta!”) commentavano alle spalle quanti ne venivano a contatto, e fra questi non mancava chi, passando dal rilievo alla sentenza, impietosamente concludeva: “Tiscrazziàtu cinca lu nnùbbiu si lu cerca ti sulu!” (“E’un essere spregevole chi l’annebbiamento se lo procura volontariamente, cioè per vizio!”). Due frasi che pur se casuali nella proposizione e apparentemente disancorate fra di loro, si offrono a chiave d’interpretazione della definizione “Ssugghimiéntu ti nnùbbiu”, citata a proposito dell’azione terapeutica svolta a favore del sonnambulo.
Se la prima, situando i termini di confronto nell’azzeramento della memoria, fa strada alla ragione dell’improprio accostamento fra sonnambulismo ed effetto oppiaceo – qui focalizzato nella caratteristica di vizio -, la seconda, calcando nel segno della riprovazione, lascia chiaramente intendere quanto lo stesso effetto oppiaceo – sempre in versione distruttiva – potesse avere origine dolosa. E poiché nùbbiu sostanzialmente stava per sonno indotto, nel momento che se ne parlava come di un negativo interferente, implicitamente lo si identificava in uno stato ipnotico malevolmente provocato da terzi, sia pure in modo indiretto, ovverosia tramite un’azione di affatturamento.
Proprio per questo suo battere sul versante della comminazione esoterica, punto nevralgico delle paure popolari, l’assunto veniva a porsi come certificazione d’immanenza nel vissuto quotidiano, per cui – sempre a livello di agito verbale – lo ritroviamo diluito in più superficiali applicazioni, fatto causa di un cattivo comportamento o decifrazione di un particolare stato d’animo. Tanto per fare un esempio, se una madre vedeva il figlio giovane farsi di colpo svagato e come disancorato dalla realtà, non esitava a dire “Quarche puttàna ti fémmina mi ll’à nnubbiàtu” (“Qualche malafemmina me lo ha rimbambito”), sposando così l’azione pratica del dare oppio a quella meno documentabile ma più temibile del plagio mentale.
Del resto per il popolo fra plagio, sortilegio e maleficio non correva acqua, l’uno innestandosi nell’altro in forza di un’unica matrice che si voleva demonica e perciò responsabile di tutto quanto poteva capitare di sgradito, dannoso o sia pure semplicemente indecifrabile.
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA, Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, pagg. 222-227
E’ una storia di un meraviglioso Salento di altri tempi, siamo a Spongano, ai primi del ‘900.
Mia nonna Addolorata Polimeno mi narrava che nel Salento meridionale era uso fare della PAPAGNA per addormentare i bambini che non riuscivano a riposare. Si trattava di uno sciroppo ricavato da un papavero particolare, violaceo, di dimensioni maggiori di quelli più comuni, i rosolacci.
Questa pianta cresceva spontanea nei campi incolti. Se ne ricavava una bevanda che, opportunamente addolcita e somministrata con la dovuta attenzione e parsimonia, dava gli effetti sperati.
Mi raccontava inoltre che al compianto mio zio Vittorio (suo figlio) ne fu somministrata ( LU ‘MPAPAGNARA) una dose consistente tanto da farlo dormire per due giorni. Lo diedero per morto ma quando il bambino mostrò una bava dalla sua bocca e poi si mise a piangere allora la famiglia ed il vicinato tutto gioì per il ritorno del neonato (che si dava ormai per perduto…) nella sua famiglia!
A seguito di ciò mia nonna commissionò un pupo di cera che portò in segno di devozione, ad un pellegrinaggio (effettuato a piedi) di ringraziamento al santuario de SANTU DUNATU.
Marino Miccoli.
Questo commento conferma quanto la ‘paparina’ fosse ritenuta un rimedio importante a livello di farmacopea contadina.
Il ‘pupo di cera’ altro non è che il classico ex voto. Evidentemente la nonna aveva chiesto grazia a san Donato promettendo che, guarito il bambino, sarebbe andata in pellegrinaggio a piedi al santuario in segno di ringraziamento. E in segno di ringraziamento ha portato la rappresentanza in cera del bambino guarito.
“la papagna” era il decotto con il “papàuru”. Di posologie bizzarre se ne raccontano anche a Nardò e ricordo anche io di bambini rimasti addormentati per due giorni a causa di un eccesso di dose. Mentre la papagna si dava agli irrequieti e per dolori ostinati, ai piccoli con le “coliche” si somministrava l’acqua in cui erano state bollite foglie di alloro, ben noto al popolo per le sue qualità antispastiche
grazie, alloro come antispastico, non lo sapevo!
Grande, indimenticabile Giulietta Livraghi Verdesca Zain. Con quel magnifico Monet poi …
Caro Nino, grazie per aver pubblicato questa bellissima pagina!
Mi fa tanto piacere, caro Marco Amedeo, che anche tu abbia confermato i consensi espressi col voto da altri lettori. Dico questo perché avevo manifestato a Marcello le mie titubanze circa la pubblicazione sul blog, pensando potesse, il pezzo, risultare pesante, non distensivo, perché lungo e dalla scrittura meno narrativa e saggisticamente dal tema un po’ ostico. Invece ha destato interesse, curiosità.
ANZITUTTO UN RINGRAZIAMENTO A NINO PER AVERCI OFFERTO UN ALTRO PREZIOSO CONTRIBUTO DELLA SUA GIULIETTA, AGGIUNGO QUINDI UN MIO PICCOLO COMMENTO RICORDANDO CHE COSì COME NEL NORD-EST SI USAVA, E FORSE QUALCUNO LO FA ANCORA, AGGIUNGERE UN PO’ DI “SGNAPA” (GRAPPA) NEL LATTE DEL PICCOLO.
DA NOI LE POPATELLE REALIZZATE TRADIZIONALMENTE CON MOLLICA DI PANE ZUCCHERATA, ERANO DA ALCUNI BAGNATE NELLA DECOZIONE OTTENUTA DALLA BOLLITURA DEGLI OVARI DI PAPAVERO, IN MODO TALE DA DARE TRANQUILLITA’ AL LATTANTE.
Vedi Gigi come le notizie collimano? Pur parlando di tempi sicuramente più recenti in confronto all’Ottocento, fai cenno all’uso del papavero e della “pupatella” (in copertinese), della quale si parla più volte anche in “Tre Santi e una campagna”, il libro che, altrove, mi hai detto di possedere.
D’altra parte gli usi contadini sono andati scemando dall’ultima guerra in poi, anche se ancora nel ’65, quando sono arrivato per la prima volta nel Salento, in parecchie interne campagne la vita si svolgeva alla vecchia maniera.
Grazie, Gigi.
Negli anni ’50 il mio giardino a Galatone era pieni di papaveri viola. Se si verificasse adesso verrebbe la Finanza. Quando i papaveri perdevano i petali, mia nonna Clotilde li raccoglieva a mo’ di fiori, li legava e li lasciava appesi, perchè seccassero bene, sotto un albero di fico. Ogni tanto si vedeva arrivare qualcuna che diceva: “Cutirde, pi l’arma ti li morti, tamme nu picca ti papagna ca figghiuma sta raggia pi lu male ti tienti”, oppure “ca lu piccinnu ae ca chiange tuttu osce”. Bellissimi ricordi!