Fidanzata e sposa
di Giorgio Cretì
Alla fine, poi, Ippazziantonio si accasò e con una ragazza alla quale era arrivato da solo, direttamente, senza alcuna intermediaria o ruffiana.
Era ancora il tempo delle sanzioni economiche all’Italia, dell’autarchia fascista e della raccolta di derrate alimentari gestite dallo Stato, nonchè dell’occultamento di ciò che veniva sottratto all’ammasso. Doveva essere dichiarato qualsiasi raccolto, anche se si trattava di pochi tomoli, poi le autorità decidevano qual era il fabbisogno del contadino-produttore.
La gente nascondeva di tutto, però: grano, legumi, olio e soprattutto tabacco, nei posti più impensati ed a poco servivano le ispezioni, che, per la verità, non erano molto fiscali. Si coltivava il tabacco ma i fumatori, per mantenere il vizio, non potevano adoperarlo e dovevano comprare quello del Monopolio. Qualcuno per nascondere l’olio aveva escogitato un sistema molto originale: scavava una buca nel terreno, vi sistemava, per esempio, una giara piena d’olio e poi copriva con una lastra di pietra e con la terra; quindi, piantava le fragole o il prezzemolo che innaffiava regolarmente. I muri a secco delle strade campestri nascondevano il tabacco migliore che i contadini fumavano durante le soste dal lavoro. I caini della Finanza per sorprenderli con il contrabbando, a volte dovevano rimanere acquattati per ore e per mezze giornate per poter appioppare loro una contravvenzione.
Dal mese delle messi alla Madonna del Rosario quasi tutti gli abitanti dei paesi si trasferivano in campagna e dormivano anche in ricoveri di fortuna; principalmente per la coltura del tabacco e poi per gli ortaggi in genere, i pomodori e la raccolta dei fichi da seccare per i mesi invernali quando si tornava ad abitare in paese.
Dopo la disfatta di Cerfignano, dove aveva rischiato di rimetterci le cuoia, Ippaziantonio aveva preso a frequentare la Madonna di Costantinopoli, una contrada sotto le marine dove d’estate abitava una sua zia con la famiglia. C’erano anche altre famiglie nella zona e ce n’era una confinante con la quale si trattavano da sempre e si scambiavano aiuto in caso di necessità. Di questa famiglia faceva parte Nunziatina, di un paio d’anni più giovane di lui, con la quale un po’ alla volta era maturata una naturale attrazione consacrata con la promessa di lui a lei e alla di lei famiglia. Insomma, si può dire che Ippaziantonio si era integrato nella piccola comunità dove si recava sempre più spesso. Poi ad una certa ora andava via per tornare a casa sua. Sempre in bicicletta.
Però, a Nunziatina cui piaceva molto la sua compagnia, o anche semplicemente la sua presenza, cominciò a sembrare strano che tutte le volte andasse via così presto. Anzi, cominciò ad insospettirsi. E non aveva torto in quanto, poiché il lupo cambia il pelo ma non il vizio, Ippaziantonio via di là andava a far visita ad un’altra ragazza che stava ad un paio di chilometri di distanza sulla stessa strada. La cosa andò avanti per un po’ di tempo finché la ragazza una sera, intanto che lui, con suo padre, era andato ad innaffiare un filare di melanzane e peperoni vicino alla cisterna dell’acqua piovana, prese un’acuceddha da tabaccco(1) e in silenzio andò a sfogare la sua rabbia contro la ruota della bicicletta lasciata all’ombra sotto albero di fico. Poi tornò a sedersi al fresco con gli altri.
Quando Ippaziantonio salutò tutti per andar via, lei lo accompagnò come se niente fosse successo fino al cancello e poi tornò indietro. Ippaziantonio montò allegro in sella, ma dovette subito scendere e camminare a piedi sullla strada brecciata. Naturalmente, senza nessuna sosta intermedia. E gli passò anche la voglia di fare visite all’altra ragazza.
La mattina successiva, ch’era di domenica, come al solito, fece un’abbondante colazione con verdura, piselli e pane fritto che sua madre aveva preparato per tutti, poi, dopo aver riparato lo squarcio della camera d’aria ripartì allegro verso la Madonna di Costantinopoli dove si guardò bene dal raccontare la scarpinata della sera prima.
Ora, appena poteva liberarsi degli impegni della campagna di casa sua se ne andava lì dove pure si sentiva a casa.
Insomma, nel giro di qualche mese chiese a Nunziatina se voleva sposarlo e lei accettò felice. Poi assieme diedero la notizia a tutti, compresi zia e famiglia. A casa sua Ippaziantonio l’aveva già comunicato e si cominciò a parlare della data delle nozze che tutti furono contenti venissero celebrate nella cappella della Madonna.
Prima, però, fu festeggiata la rituale visita del fidanzato e dei suoi a casa della fidanzata e nell’occasione la madre di Ippaziantonio aveva fatto la sua bellissima figura affrendo a tutti i presenti i bocconotti alle mandorle(2) da lei preparati e personalmente portati al forno.
Il matrimonio fu festeggiato in campagna ed era il mese di aprile con la natura in festa, le sue luci ed i suoi colori. Come era costume di allora gli invitati restarono separati, le donne in casa e gli uomini all’aperto sotto un grande noce. Alle donne fu servito il tipico bicchierino di liquore colorato(3) e cose duci(4) fatte in casa, agli uomini vino. Naturalmente pane fresco di forno, lupini sanati, fave abbrustolite ed anche finocchi crudi.
Ma fu servito anche il caffè a chiunque lo chiedesse. Era un decotto fatto bollire nel camino e poi addolcito con certo zucchero rossiccio, ma non era la diffusissima bevanda nervina ottenuta dai semi del caffè arabico tostato e macinato, ma da miscele autarchiche nelle quali predominava l’astragalo(5), detto cafè mericanu, e messo a coltura intensiva in quegli anni; qualcuno tostava orzo ed anche ghiande. A dire il vero, Ippaziantonio era riusciito a procurarsi un mezzo chilo di caffè arabico, Pippi Marro lo aveva portato dall’Africa, che mescolato al resto era stato un successo.
Al suono di un mandolino cantarono e ballarono sull’aia che stava dietro la casa e il poeta di turno, ispirato dall’ottimo aleatico, declamò il suo brindisi preferiito. Con lo sguardo fisso al fondo del bicchiere che teneva sollevato in alto e la faccia rivolta agli sposi solennemente poetò:
A ntra lu culu de lu bicchieri
A ntra lu mazzu de la scalora
A ntra lu oscu de li bricanti
Fazzu ‘nu brinnisi a tutti quanti.
Gli applausi furono generali, anche dei bambini che facevano baccano per loro conto e più degli adullti. Per la loro gioia furono lanciati i cacai bianchi(6) alla sposa, ma non le tradizionali monetine da quattro e due soldi, non parliamo della mezza lira, perché la crisi non lo permetteva. Poi tutti tornarono alle loro case, salvo Nunziatina che si trasferì a casa di lui.
E da lì, marito e moglie andavano e venivano spesso in due sulla stessa bicicletta. A volte Ippaziantonio ci andava da solo e lei rimaneva nella casa nuova a dare una mano alla suocera. Lui, ormai, aveva più amici che al suo paese e la sua compagnia era sempre contesa, specialmente nei pomeriggi di festa per una partita a padrone e sotto(6).
Con l’approssimarsi della prima domenica di marzo Ippaziantonio disse che voleva andare alla fiera della Madonna, ma Nunziatina non si fidò a lasciarlo andare da solo e volle andare anche lei. Durante la notte aveva diluviato, ma le strade erano buone. Il forno Coppuleddha, di fronte alla casa di Peppino Picci, fratello di Gustavo, era aperto e dentro c’era gente. Dalla parte di Peppino avevano scavato un fossetto perché stavano facendo lavori di sistemazione e l’acquazzone lo aveva riempito d’acqua. Salutarono quelli del forno e proseguirono, lui pedalava e lei seduta di traverso sulla canna.
A casa di lei arrivarono di buonora e li passarono la mattinata. Dopo il pranzo della festa, le donne rimasero in casa e gli uomini uscirono. Ippaziantonio ed il suocero andarono al tabacchino, cioè dal tabaccaio, ma non perché avessero bisogno di comprare tabacco o altri generi di monopolio. Lì c’era anche la mescita di vino ed era piena di gente che loro conoscevano. Trovati i compagni giusti iniziarono subito a giocare a padrone e sotto, non con le carte, però, ma a tocccu(7) che era molto più sbrigativo. Io lascio all’urmu(8) te, tu lasci all’urmu me…
Rimasero lì forse tre ore durante le quali Ippaziantonio, che non era un bevitore incallito, mandò giù ventiquattro quarti di vino, cioè sei litri. Anche il suocero fece la sua parte. Dopo tuttto era festa! Tornarono a casa allegri e subito Ippazioanntonio chiese a Nunziatina se era pronta per andar via. Era pronta. La madre di lei, però, vedendoli pronti e decisi, iniziò a piangere e diceva: “Chissà contro quale muro andate a sbattere, chissà in quale tajata(9) andate a buttarvi!”. Insomma, tra sì e no, partirono, lui a pedalare e lei sulla canna.
Con l’aiuto del guatemalteco San Simon giunsero all’ultimo incrocio per tornare a casa, lì vicino alla bottega del Nano, la bicicletta voleva andare dritta, ma Ippaziantonio non sapeva dove si trovavano.
“Nunziatina dove siamo?”, chiese.
“A Casamassella”, rispose lei serafica.
“Oh pellamadonna”, disse lui cercando di invertire la direzione di marcia.
Poi a fatica giunsero vicino al forno e vedendo le fiamme alte lui chiese: “E qui che cosa c’è?”.
“La farmacia”, rispose lei allo stesso modo di prima.
“Oh pellamadonna”, disse ancora lui confuso.
Insomma, la bicicletta che li portava era ancora in piedi ma non ce la faceva più e tirò dritto nel canale pieno d’acqua davanti a Peppino. Lei si trovò all’improvvisso con il sedere nell’acqua e le gambe per aria, lui a cavalcioni sul fosso provvisorio.
Vissero così d’amore e d’accordo fin quando poterono. Poi la Patria ebbe bisogno di lui e lo chiamò per mandarlo in Russia da dove tornò con un piede congelato che gli diede non pochi fastidi per tutta la vita.
(1) Acuceddha. Grosso ago appiattito usato per infilare il tabacco ad un filo di spago e appenderlo al sole.
(2) Bocconotti. Il bocconotto era un dolce che anche nel basso Salento veniva offerto alla famiglia della fidanzata, quando l’uomo andava a chiederla ufficialmente in moglie e il ripieno svelava il ceto di appartenenza: il cioccolato era l’indice del ceto alto, la marmellata di quello medio e la pasta reale (fatta con mandorle pestate, zucchero e bianco d’uovo montato) di quello popolare.
(3) Bicchierino colorato. Di solito si offriva il rosolio, un liquore dolce composto di acqua, zucchero e alcol, profumato con essenze vegetali, petali di fiori, spezie, a volte ambra. Molto apprezzato nel XVII e nel XVIII sec. è oggi diventato raro, fu la bevanda prediletta dalle signore. Il rosolio più diffuso era quello di petali di rose rosse, profumato con fiori d’arancio, cannella e chiodi di garofano, con un po’ di carminio, per conferirgli la caratteristica colorazione rosata da cui la preparazione trae il nome. Ma c’era anche il latte di veccchia, il latte di giovane, la cannella, l’alchermes, il maraschino di Zara ed anche altri. Si preparavano in casa con acqua, zucchero, alcol e coloranti. Le essenze si vendevano in bottigliette di 10 cc.
(4) Cose duci. Dolciumi in genere.
(5) Astragalo. Astragalus boeticus L. surrogato del caffè. Era conosciuto anche con il nome di astragalo spagnolo, caffè messicano, caffè messicanu e,da noi, cafè mericanu.
(6) Cacai. Tipici confetti formati da un nucleo di mandorla, nocciola, cannella o altro, rivestito di uno strato di zucchero; tradizionalmente offerto, o lanciaito, in occasione di battesimi, cresime e matrimoni.
(6) Padrone e sotto. Era un antico passatempo da bettola nell’Italia Meridionale, severamente proibito dai regolamenti municipali dell’Ottocentro perché poteva sfociare in risse violente. Si pagava il vino che veniva amministrato dal padrone e dal sotto ed aveva lo scopo di bere il più possibile a spese degli altri o di non far bere affatto qualcuno.
(7) Toccu. Gioco che si fa tirando a sorte con le dita.
(8) All’urmu. Lasciare un giocatore all’urmu voleva dire lasciarlo senza bere.
“Tanto va la gatta al lardo…”! Ed è toccato anche al nostro Ippaziantonio, eroe di un sequel che ci ha tenuto col fiato sospeso per mesi su Spigolature Salentine.
Come succede spesso nel caso dei tombeur de femme, arriva un bel giorno in cui, chissà perchè, chissà per come, l’irriducibile reo giunge all’altare. In tutto questo tempo Ippaziantonio ci ha fatto sorridere, mai indignare, proprio per quella sua naturale tendenza al tradimento e all’innamoramento facile, tipica dell’eterno adolescente. Grazie a lui siamo entrati nelle case di contadini, paesani e parenti, abbiamo assistito a feste di paese e percorso in bicicletta stradine tormentate da breccio e buche. Campagna e mare, piazze e dichiarazioni d’amore. Giorgio Cretì si svela un grande incantatore di pubblico perchè laddove la sua chiarezza stilistica e il suo parlare colto, chiaro e folcloristico sono riusciti a tenerci attaccati al racconto, lì le pagine si son trasformate in richiami irresistibili alla mente, piccoli capolavori di un Creato tutto umano.
Nunziatina, la prescelta da Dio e da Giorgio, ha compiuto il miracolo incarnando LA fidazata per eccellenza e istradando l’impenitente protagonista verso il matrimonio. No, signori miei, questa ragazza non ha usato discorsi nè rimostranze ufficiali tanto care al genere femminile, ma semplicemente astuzia, istinto contro istinto, sopravivvenza su sopravvivenza. Sarebbe il caso di coniare allora un nuovo detto accanto al ben più classico ‘Bastone e carota’: ‘Azione e parata’.
Quale quadretto più delizioso, a questo punto della storia, di quello tracciato dall’autore nel giorno delle nozze? Banchetto semplice di pane fresco, lupini, fave e finocchi, suoni di mandolino, balli e canti.
Ma qui, ‘Passato il santo…’ non finisce la festa e la giovane vita coniugale è simpaticamente retta da Nunziatina che non smentisce la sua natura di saggia matrona salentina, e bizzarramente colorata dal nostro eroe che non smentisce invece la sua natura di allegro trastullone campagnolo.
Auguri Ippaziantonio per questo matrimonio inaspettato e, lasciaci dire, in odor di ‘natural sbandate’, e un abbraccio riconoscente all’amico Giorgio che ha intrecciato il fantastico al vero con una conclusione degna della miglior favola d’ogni giorno: “Vissero così d’amore e d’accordo fin quando poterono.”