La morte di un lemma, l’agonia di un altro: la sciuscètta e la šciušcètta.
di Armando Polito
Il titolo non è allegro ma ho più volte sostenuto che le parole sono proprio come noi e, dopo aver per qualche tempo più o meno fedelmente espresso sensazioni, emozioni, sentimenti comportandosi talora nel modo capriccioso, imprevedibile, strano, irrazionale che sovente contraddistingue gli umani, in tempi variabili, come chi le ha create, subiscono prima il declino diventando obsolete e quasi per pietà ancora registrate nei comuni dizionari, poi l’inevitabile scomparsa dall’uso e dalla memoria.
Qualcuno si chiederà perchè non ho inserito questo post nella serie “Gli omofoni del dialetto neretino a fumetti” e qualcuno più attento penserà che l’ho fatto nella speranza di avere qualche lettore in più visto che la serie citata ha riscosso un’attenzione molto, molto blanda1. In realtà i due lemmi che oggi esaminerò non possono essere definiti omofoni anche perché il secondo comporta una pronuncia rafforzata della s (lunga o doppia) del gruppo sc (grafia šc).
Comincerò dal defunto, la sciuscètta (a Nardò era usato pure il diminutivo sciuscèttula): la voce è legata all’arte antichissima della tessitura, che nel Salento è rimasta fino alla metà del secolo scorso relegata al ruolo di industria tessile casalinga2, e, in particolare, indicava la spola, la navetta del telaio.
La voce è dal latino sagìtta(m)=freccia, saetta3 .
Passo ora al moribondo: šciušcètta designa ancora, con notevoli difficoltà di comprensione del suo significato da parte della generazione SMS, lo status della ragazzina battezzanda o cresimanda4 nei confronti del padrino che, secondo il diritto canonico, diviene responsabile dell’educazione cristiana della figlioccia.5 Non a caso, infatti, la voce è dalla locuzione latina fìlia(m) suscèpta(m)=figlia adottata; e suscèpta(m) è participio passato del verbo suscìpere=accogliere, difendere, composto da sub=sotto e càpere=prendere. Suscèptus in latino era il cliente rispetto al suo avvocato e il paziente rispetto al suo medico; mi piace sottolineare il carattere originario protettivo e non subordinante della preposizione (sub), soprattutto alla luce di un recentissimo fatto di cronaca sul quale soltanto adesso intervengo per dire quale devastante degrado ha subito quella preposizione (dal concetto di servizio a quella di prevaricazione), in triste accordo e squallida coerenza con quelle stranezze, di cui parlavo all’inizio, che definire animalesche è offensivo per le cosiddette (da noi umani!) bestie.
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1 Siccome sono un masochista sto per inviare all’amico Marcello le ultime tre puntate della serie; tenuto conto della generosità del nostro mentore, al lettore per sperare di non leggere nemmeno il titolo non rimane che fare esplicita, tempestiva richiesta di non pubblicazione. Non è finita: siccome sono un miserabile, m’illudo di suscitare un fantasma di attesa (emulando in questo i più scadenti, autoreferenziali spot pubblicitari di trasmissioni televisive imminenti) facendo sapere in anteprima che le voci prese in considerazione sono: stuccàre, critàzzu e mùgnulu.
2 Sull’argomento segnalo L’arte della tessitura nel Salento di Antonio Monte e Maria Grazia Presicce, stampato nel 2010 da Nuova Phromos, Città di Castello,per conto di CRACE (Centro Ricerche Ambiente Cultura Economia).
3 Mi piace ricordare che saetta ha la stessa etimologia di sciuscètta; però il neretino, in connessione col significato di fulmine, ha sviluppato saiètta, usato come interiezione e come sinonimo di colpo apoplettico o grave malore improvviso, quasi a non voler confondere il positivo/sacro (il lavoro) col negativo/blasfemo (la malattia/l’imprecazione). Anche la fonologia ha un sentimento!
4 Esiste, naturalmente, anche il maschile šciušcèttu, anche se qui sciuscètta mi ha costretto a considerare centrale il femminile.
5 È amaro constatare come questa funzione protettiva oggi si sia ridotta ad essere una mera partecipazione burocratica e, nella stragrande maggioranza dei casi, ad un narcisistico esibizionismo che ha la sua manifestazione più significativa in un regalo, appariscente e costoso, anche se inutile, al figlioccio, la cui famiglia, dal canto suo, ha già provveduto, in una spirale perversa, a non sfigurare, organizzando una festa laica degna di un faraone. Dopo di che, ognuno per la sua strada…
Chiedo scusa se da solo me la suono e me la canto, ma la stima enorme, rasentante la devozione, che ho per il Rohlfs mi ha giocato un brutto scherzo quando ho riportato dal suo dizionario la derivazione per sciuscètta (l’oggetto) dal latino sagìtta(m)=freccia, saetta. Infatti, mi son chiesto qualche ora fa: come ha fatto il gruppo sa- a svilupparsi in sciu-? La semantica deve fare i conti con la fonologia che ha sempre l’ultima parola, dal momento che gli agganci di significato sono sempre possibili, specialmente quando ci si lascia andare con la fantasia. Cosa evocava, infatti, la sciuscètta della foto se non una freccia (veramente sembra più una piccola nave e non è un caso che l’attrezzo si chiama in italiano spola o navetta) pronta ad essere lanciata per contribuire alla tessitura? Addirittura nella nota 4 mi ero lanciato pure io in una ulteriore elucubrazione, pervenendo alla conclusione di una notevole nobiltà sentimentale del dialetto che, nella fattispecie, pur essendo estremamente suggestiva, non ha ragion d’essere. Il rispetto della fonologia impone, secondo me, una diversa conclusione: la nostra sciusciètta è dal latino subiècta(m), participio passato di subìcere=gettare sotto, composto da sub=sotto e iàcere=gettare (l’oggetto, infatti, nella tessitura, veniva lanciato sotto i fili superiori dell’ordito). Il salentino scettàre/scittàre (corrispondente all’italiano gettare che a sua volta deriva dal latino *iectàre, dal classico iactàre, intensivo del citato iàcere) spiega perfettamente sc- di sciuscètta obbligando a respingere,con buona pace dell’insigne maestro, sagìtta(m). Rimane, invece, integralmente valido tutto quel che è stato detto su šciušcetta e, naturalmente, in nota 4 su saiètta, lui sì, da sagìtta(m).
e noi siamo lieti, caro Armando, di gustare ancora una volta questo puntuale ed ineccepibile (come sempre) approfondimento. Oramai per ogni termine che ci capita di ascoltare siamo portati a riflettere sull’etimologia.
Ma te ne dico uno proprio di oggi, che m’ero quasi scordato esistesse nel gergo: fuffulisciare. La signora infatti intercalava nel suo colorito linguaggio, riferendosi al fratello avido: “s’è fuffulisciatu tuttu”
Il problema posto non è di facile soluzione, anche perchè il Rohlfs nemmeno registra questa voce.
Potrebbe essere:
1) da fòffula che a Nardò indica una folta capigliatura e fuffulisciàre (iterativo di fuffulàre) è usato pure nel senso di tagliare la fòffula, che, tra l’altro, nel Leccese (tra cui Nardò) e nel Tarantino indica anche il mazzo di spighe raccolte. L’idea del raccogliere e quella dei capelli tagliati gettati via potrebbe essere alla base del significato di dilapidare.
2) potrebbe essere una voce di origine onomatopeica da una serie fuf…fuf che ricorda il vento (al quale uno ha gettato il patrimonio) o contenere un riferimento all’iperico (a Soleto fuffù, a Nardò fùmulu) che, quando è secco, viene portato via dal vento come il fumo (dopo gettare al vento, mandare in fumo).
3) potrebbe essere da fuffàre (altra voce onomatopeica, usata nel gioco della dama)>fuffulàre> (forma intensiva, come passìre rispetto a ‘mpassulàre)>fuffulisciàre (diverso dal primo, e si torna all’immagine del soffio).
Propenderei per la seconda e ancor più per la terza ipotesi. Ogni aiuto è ben accetto…
ma tagliare i capelli non è “furficare” nel nostro dialetto?
Concordo che il nostro “fuffulisciare” derivi da “fòffula”, ma è su questo termine che occorrerebbe qualche lume. Non sono convinto che possa rientrare nel secondo e terzo caso che ci proponi. Intanto direi che quel “…sciare” esprima un’azione protratta, di una certa durata, come per esempio “andare”=cercare è ben distinto da “andisciare”=cercare in un tempo prolungato. Così per “spitticulare” e “spitticulisciare”.
Se “fòffula” non è noto ad Armando, allora devo pensare ad un termine molto antico… cercheremo ancora!
Furficàre è chiaramente da forfex/fòrficis=forbice. Ricordo perfettamente (ma alla mia età può essere sintomo di arteriosclerosi avanzata…) che mia madre usava indifferentemente furficàre e fuffulisciàre (non so quanto volontariamente o indotta dall’analogia di suono). L’intervento di un terzo potrebbe por fine alla questione e chiarirla. Comunque in fuffulisciàre l’idea di “azione protratta” è chiaramente indicata dal suffisso e l’avevo messa in luce definendo la forma “iterativa”. Quanto all’origine di fòffula (il termine mi è noto, tant’è che è il primo che ho messo in campo), esso pone seri problemi non fosse altro perché sull’etimo della voce il solito maestro non si pronuncia e sarò costretto, perciò, anche qui a procedere da solo, anche se con il suo aiuto indiretto. Al lemma cruffa, infatti, usato a Brindisi, leggo:” gruppo di alberi o di arbusti [cfr. il siciliano troffa, salentino troppa=gruppo di arbusti]”; nel suo Dizionario etimologico siciliano il Pasqualino fa derivare troffa dal greco tròfema che in realtà non esiste ma che, comunque, rivela il collegamento che il Pasqualino opera con il verbo trefo=condensare, nutrire, allevare. Conclusione: alla luce di quanto fin qui emerso, dal momento che fuffulisciàre sembra contenere in sè fòffula, la prima ipotesi acquista un’attendibilità pari se non superiore alle altre due: solo che bisogna passare dal concetto di capigliatura folta a quello di patrimonio di una certa consistenza e successivamente da quello di sfoltimento dei capelli a quello della dilapidazione. Se ci fosse stata all’inizio una s- estrattiva (sfuffulisciàre) tutto sarebbe stato chiaro e ancor più chiaro se fosse attestata (valla a sentire!) una forma iniziale sfuffulisciàre da cui sarebbe nato fuffulisciàre (fenomeno strano perché il dialetto salentino tende ad aggiungere una s- intensiva e bisognerebbe ipotizzare una confusione con questa di quella estrattiva che è stata, per questo, eliminata).
illuminante e molto chiaro, come al solito! grazie Armando.
Affascinante l’ipotesi della s estrattiva, magari abbandonata nel linguaggio corrente per difficoltà di pronuncia, visto che già di per sè fuffulisciare è una parola alquanto complessa
Ho dimenticato di riportare un passaggio intermedio: a cruffa sono arrivato partendo da foffula dove il Rohlfs rimanda a croffula, che, in tutta evidenza,è diminutivo di cruffa.
sempre a proposito di fòffula, inteso come “dilapidare”, mi sembra che il nostro popolo lo applicasse esclusivamente al patrimonio e all’eredità. Si fosse trattato di solo denaro avrebbe utilizzato “spransumare”, ma sempre in senso iterativo e non limitato nel tempo. In quest’ultimo caso mi pare preferisca altri verbi come “spicciare”: aggiu spicciatu li sordi, s’è spicciatu lu pane. Riflettevo che comunque il popolo riserva il verbo a sostanze solide.
Se invece il consumo riguarda liquidi utilizza ancora un verbo: struscire (olio, acqua dalla cisterna). Vi sembra possibile?
Sì, a quanto ne so fuffulisciàre era riferito solo alla dilapidazione del patrimonio proprio o ereditato. Spransumàre è la prima volta che lo sento e credo sia incrocio tra sprangìre (cambiare la moneta in spiccioli) da un latino *exfràngere (dal classico fràngere con aggiunta di ex-) e consumare. Spicciàre (da spiccio, di etimologia incerta, ma secondo me ha a che fare con spicchio dal latino spìculum, diminutivo di spica=spiga, con passaggio dall’idea di appuntito a quello di diminuito) ha in sé l’idea prevalente non dello sperpero ma dell’esaurimento inseguito a consumo progressivo. Struscìre è da un latino *destrùgere, dal classico destrùere ed è, in un certo senso, il corrispondente (per i liquidi) di spicciare (per i solidi). L’osservazione mi sembra, perciò, pertinente.
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