di Giorgio Cretì
Ippaziantonio, questa volta, si era trovata una fidanzata a Marittima e l’andava a trovare in bicicletta. Tutti, allora, andavano in bicicletta, soprattutto i giovani che si spostavano da un paese all’altro per i loro svaghi.
Esisteva una procedura particolare per trovarsi la fidanzata, che in certi casi diventava complessa, ma bisognava seguirla perché era la regola. Un giovane non si avvicinava ad una ragazza per strada né le si accostava in alcun luogo pubblico. Tutto sommato, però, l’approccio non era difficile, nemmeno per i più timidi. Era necessario avere una intermediaria, ecco! Bastava che il giovane manifestasse le proprie intenzioni alla ruffiana, che in genere era persona già conosciuta e si prestava a questo tipo di ambasciate, e le dicesse che gli piaceva la Tizia. La ruffiana riferiva e poi portava la risposta, che di solito era di attesa: non lo conosco, bisogna che lo veda. Così il giovane faceva in modo di essere visto e se la ragazza gli mandava a dire che era interessata, la cosa era fatta. A questo punto la ruffiana poteva anche togliersi di mezzo, ma spesso era lei stessa ad organizzare il primo incontro.
Diversamente, bisognava ritentare e, in tal caso, il ruolo della intermediatrice ed il suo prendersi più o meno a cuore il caso erano molto importanti.
Così Ippaziantonio si era trovata quella fidanzata ed ora era giunto il giorno, il due di luglio, del patrono di Marittima. Egli l’aveva atteso, non per San Vitale, a cavallo di un baio che sembrava un asino – altro era il cavallo bianco di San Giorgio –. Del santo ad Ippaziantonio non importava proprio nulla. Gli importava, invece, incontrare la fidanzata e “parlare” un po’ con lei. Si diceva così, parlare, per significare l’appartarsi in intimità di due giovani.
Chiese a sua madre il vestito nuovo, appena cucito dal sarto, e quando le disse che doveva andare alla festa, lei gli domandò se non era matto a straregnarsi così lontano; poi gli preparò il vestito e non disse più nulla.
Quando fu sera, tornato da zappare, Ippaziantonio si lavò da capo a piedi, indossò il suo abito nuovo, l’unico, e, inforcata la bicicletta, partì.
Nella notte limpida e tiepida, il chiarore della festa si scorgeva da lontano, dalla provinciale già all’altezza delle Urle, e quando giunse a Diso molta gente si avviava verso Marittima a piedi.
Giunto in paese lasciò la bicicletta presso un conoscente e, dopo aver comprato un cartoccio di noccioline tostate da un banco illuminato ad acetilene, si inoltrò tra la gente che andava e veniva lungo la via principale, sotto gli archi illuminati. Ai lati della via i venditori ambulanti imbonivano la gente ad acquistare grossi cuori di marzapane e stecche di cupeta fatta con mandorle e zucchero fuso. Poi c’erano i venditori della “devozione” del Santo e le bische ambulanti che facevano girare le loro roulettes. Era tutto un vociare confuso e si faceva fatica ad andare avanti perché nel passeggio della folla due correnti si scontravano senza soluzione di continuità.
A tratti giungeva fino alla passeggiata anche il fragore della banda. Ippaziatonio andò avanti, anche se a fatica, e ogni tanto si alzava in punta di piedi per cercare in mezzo a quella folla la sua fidanzata. Andò ancora avanti e giunse sulla piazzetta dove, all’inizio della salitella che porta alla chiesa, era stato montato il palco per la banda. Qui non spingeva più nessuno e regnava un relativo raccoglimento: la banda di Mottola stava eseguendo un sunto della “Carmina” di Bizet e la piazza era affollata di gente che ascoltava quasi in estasi quelle vivacissime melodie. Finalmente Ippaziantonio vide la ragazza che scendeva dalla parte della chiesa con una sua amica e anche loro si guardavano in giro.
Le due giovani si diressero verso la piazza passando da dietro il palco ed egli andò ad attenderle dall’altra parte. La fidanzata l’aveva già notato e l’aveva detto alla compagna, ma quando le due ragazze lo incontrarono si finsero sorprese e gli chiesero che cosa faceva lì, che era un convenevole di cortesia. Egli rispose che era venuto alla festa e non si dissero altro, perché in pubblico non potevano.
Poteva capitare anche che i giovani si incontrassero durante lavori in campagna, ma in quei casi al massimo ci poteva scappare qualche occhiata furtiva.
Ippaziantonio ricordava bene la prima volta che si erano incontrati e aveva capito subito che lei avrebbe gradito una sua ambasciata.
Era di novembre e lui era venuto ad aiutare Nina Cusifierru, con la cui famiglia i suoi “si trattavano”, che aveva una sorella a Marittima e l’andava ad aiutare per certi lavori alle marine.
Ippaziantonio era giunto a Marittima con Nina in bicicletta e poi aveva caricato un sacco di lupini in spalla ed erano partiti a piedi per la strada di Tutt’osse, così detta per gli spuntoni di roccia che emergevano qua e là tra i muri di pietra che delimitavano il sentiero.
Una giornata caliginosa con il cielo coperto da nuvole basse che salivano dal mare e minacciavano di piovere ad ogni momento. Poi era piovuto per davvero e loro avevano cercato riparo in una casupola fatta di pietre, una specie di trullo come se ne vedono ancora cadenti lungo le marine.
Così Ippaziantonio si era trovato molto vicino a lei, in quello spazio angusto che aveva dovuto ospitare anche un pastore ed una decina di pecore. La pioggia aveva preso un passo che lasciava prevedere non avrebbe smesso prima di qualche giorno e loro erano tornati in paese e si erano inzuppati come pulcini. Ippaziantonio non avendo panni asciutti per cambiarsi, aveva indossato un grembiule di lei ed era tornato a casa che pioveva ancora, conla Ninaseduta di traverso sul tubolare della bicicletta.
Con questi ricordi Ippaziantonio aveva atteso la festa di San Vitale.
Le due ragazze lasciarono la folla e si allontanarono per una viuzza che scendeva verso le marine. Egli le seguì da lontano e mentre si avviava nella stessa direzione sentì che la banda attaccava “II Piave”(1) e la gente applaudiva chiassosamente.
Il padre della ragazza faceva di mestiere il maestro d’ascia e costruiva traìne, cioè carri da traino.
Era, sì, un bravissimo artigiano, ma era anche il campione degli ubriaconi.
Aveva la casa, in fondo alla viuzza, formata di tre stanze in fila una dietro l’altra. Sul retro c’era un cortiletto, cintato da un muro alto e liscio su cui non ci si poteva arrampicare in nessun modo. Non c’erano altri ingressi se non quello che dava sulla via e per andare nell’ultima stanza, dove c’era il focolare e la cucina, bisognava traversare le altre due. La bottega era sulla stessa via, ma staccata dalla casa.
Ippaziantonio vi passò davanti: un mozzo appena impostato ed una ruota completa di razze e cerchio di ferro erano addossati al muro.
Le ragazze lo aspettavano e in giro non si vedeva nessuno. Si udiva il brusio lontano della festa ed era come una garanzia che nessuno sarebbe andato a disturbarli. Ippaziantonio e la sua fidanzata si ritirarono in fondo a “parlare”, mentre l’altra ragazza, ad ogni buon conto, rimase di guardia.
E non passò molto tempo che partì l’allarme: stava arrivando il padre.
Pur sapendo che di là non poteva scappare, Ippaziantonio si rifugiò nel cortiletto, mentre l’uomo, ubriaco che non ne poteva più, entrò in casa deciso. Sbandava da tutte le parti, ma andava dritto verso il retro.
Ippaziantonio si sentì perduto. Non aveva scampo, perché di là non poteva scappare, a meno che non avesse affrontato l’uomo ubriaco e forse avrebbe fatto meglio.
Si ritirò, invece, in un angolo dove due sarcine di ulivo, fascine di rami destinati al fuoco domestico, erano poggiate in piedi contro il muro e costituivano una specie di riparo. Si sentì per un attimo al sicuro perché lì, al buio, nessuno poteva vederlo, ma l’ubriaco, sempre sbandando paurosamente, si diresse proprio verso le fascine e verso di lui.
Ippaziantonio si fece piccolo piccolo e trattenne il respiro. Chiuse gli occhi d’istinto, ma proprio in quel momento si sentì cadere addosso uno zampillo caldo. Era l’ubriaco che urinava e, siccome gli ubriachi quando urinano non finiscono mai, Ippaziantonio che non poteva più oltre trattenere il respiro, dovette sentire anche il sapore di quel liquido e senza parlare.
Dopo un bel pezzo, finalmente, l’ubriaco, svuotata la sua enorme vescica, se ne andò deciso come era venuto. Allora corsero le due ragazze, le quali, quando videro Ippaziantonio in quelle condizioni non sapevano se ridere o se preoccuparsi. Ippaziantonio seppe solo dire: “Guardate come mi ha combinato!”.
“E mo’!”, disse la fidanzata rassegnata. Che era come dire che ormai era fatta e bisognava cercare di rimediare.
I rimedi, però, si possono trovare solo se si ha esperienza e siccome, sia la fidanzata di Ippaziantonio che la sua amica erano giovani ed inesperte, fecero la cosa più sbagliata che potevano fare: decisero semplicemente di sciacquare subito la camicia e di asciugarla con lo scaldaletto, ché con quello si stirava allora, e accesero il fuoco, mentre Ippaziantonio si era spogliato e si lavava.
Ippaziantonio, a torso nudo, osservava le due ragazze che si davano da fare. Ma non appena lo scaldaletto con dentro la brace fu accostato alla camicia bagnata, un tanfo di ammoniaca invase l’ambiente, l’urina era ancora lì.
L’operazione fu subito interrotta. E mo’! Zitti, zitti! Avevano una bottiglia di profumo e decisero di spruzzarne un po’ prima di stirare, ma non appena tentarono di avvicinare nuovamente lo scaldaletto caldo, un odore peggiore di quello di prima si sprigionò dalla camicia.
Non c’era niente da fare.
Insomma, per farla breve, Ippaziantonio non potè godersi la festa con la fidanzata e dovette raccogliere i suoi vestiti in un involto e tornarsene a casa mezzo nudo. Il vestito nuovo era la prima volta che lo indossava!
Giunse a casa e, piano piano, senza svegliare i suoi, pose i panni in un angolo e andò a dormire.
La mattina, quando si svegliò, sentì sua madre che brontolava per via di un cattivo odore che emanava dai vestiti: sembravano urinati dai topi.
Brontolò un po’, poi, visto che il figlio non sapeva darle una spiegazione, li prese e li mise a bagno dentro un limmu(2) pieno di lisciva.
(1) Le bande suonavano “il Piave” alla fine di un pezzo, dopo aver ricevuto uno o più mazzi di fiori. A volte ringraziavano anche con altre marce o pezzi, comunque briosi.
(2) Limmu, recipiente in terracotta usato per l’ammollo dei panni da lavare.
(“il Rosone” – Anno IX n. 3-4, 1986)
Racconti cosi autentici e belli li vedo e l’immagino come in un film da Neorealismo Salentino .
Per giunta essendo di Ortelle maggiormente apprezzo e publicizzo
Giorgio è un grande! incarna perfettamente il Salento di un tempo. Pagine assolutamente da leggere e da conoscere. Questa trilogia delle tre fidanzate è veramente bella. Nessuna finzione, tutto reale, autentico… grazie Giorgio per questi meravigliosi doni che di diritto entrano nella letteratura del nostro territorio
Ippaziantonio ne ha combinata un’altra delle sue!, questo sarebbe il commento naturale di chi ha seguito con passione la ‘Saga delle fidanzate salentine’. Complimenti alla tenacia del vulcanico e sfortunato protagonista e onori al suo ‘pittore d’inchiostro’ Giorgio Cretì! Non è stato facile, credici, arrivare agli ultimi righi dopo aver vissuto in prima persona ogni disavventura e rocambolesca ambientazione del caro Ippaziantonio, uno di noi, nè tantomeno distaccarci dal fine romanticismo che lo ha circondato pagina dopo pagina. E tutto grazie alla fantastica penna del suo autore, quella dotata di teletrasporto! Con la speranza che il nostro eroe sia alfine riuscito a trovare la fidanzata giusta, aspettiamo con trepidazione altre delizie letterarie da Cretì e dalle prodighe mani della Santa Redazione!
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