Faccellavatu

coll. priv. Giorgio Cretì (riproduzione vietata)

di Giorgio Cretì

Biagio Sannimaro giunse nel pomeriggio inol­trato di un’afosa giornata d’agosto. Era stato in giro tutta la mattina montando uno di quei caval­li arabi che il barone aveva acquistato di recente e che si erano dimostrati ottimi anche per il dipor­to e per la caccia. Egli aveva il compito di batte­re ogni giorno il territorio delle due masserie che con il loro feudo costeggiavano il litorale adriatico e, quando vi passava vicino, si fermava al casino a conferire con il barone oppure a scambiare due chiacchiere con il casiniere che, come lui, parlava volentieri, e per ristorare il cavallo.

A volte, quando d’inverno la famiglia del ba­rone non c’era, dormiva lì, ma la sua residenza fis­sa era alla masseria Bruficu(1).

Durante la notte non era calata muttura(2) e, av­vicinandosi alla zona la mattina presto, egli si era soffermato qua e là a parlare con i mezzadri sparsi per la campagna. Le macchie di terra rossa zappata rompe­vano ogni tanto la monotoria delle stoppie brucia­te delle grandi colture cerealicole. Vicino ai casolari sparsi i contadini coltivavano anche piccole strisce di cotone e pomodori, dolici(3)  e altri ortaggi, quanti se ne po­tevano permettere in base alla capacità delle ci­sterne di acqua piovana che avevano a disposizione.

Intorno a quelle costruzioni dall’architettura molto essenziale, lussureggiavano a filari le chio­me dei fichi, grande fonte di frutta secca per l’inverno.

ph Giorgio Cretì

Poi i sentieri che Biagio aveva percorso si inoltravano fra i grandi boschi di ulivi, o in mezzo alle vigne, per perdersi nella macchia bassa che copriva un largo tratto dalla parte del mare. Se n’era andato, in quell’intrico di arbusti, un po’ al trotto e un po’ al galoppo, con il cavallo che sembrava divertirsi a volare sopra lentischi e ginepri spinosi, come ricordasse le scorribande di un suo antenato montato da un predone saraceno. Alla fi­ne, Biagio aveva portato il cavallo al passo e si era fermato al bracchio(4) delle Tamerici; rimase lì in cima alla duna, al­l’ombra del ricovero di frasche dove anche la brezza marina contribuiva a mitigare la forte calura. Da quella posizione controllava una vasta distesa di spiag­gia e tutta la campagna intorno alla Terra del Sa­raceno che da anni i baroni avevano eletto a loro dimora estiva.

Attraverso il grande cancello di ferro, sempre aperto, infilò, al passo, il lungo viale fiancheggia­to da alti pini domestici, che portava al palazzotto, tra l’assordante frinire delle cicale.

Quando dritto in groppa al cavallo varcò il se­condo cancello, aperto nell’allo muro di cinta, tut­to era silenzio ed egli si avviò verso la stalla.

Dormivano tutti o stavano al riparo dal caldo. Il rumore degli zoccoli sul selciato, però, era sta­to udito ed egli, con la coda dell’occhio scorse due figure di donna che lo osservavano da dietro le tendine di una finestra al piano superiore. Sotto il grande gelso, quattro o cinque uomini dormivano per terra, sdraiati sulla schiena.

Francesco, il vecchio casiniere, sollevò lenta­mente il berretto da sopra gli occhi e si tirò su.

Biagio smontò di sella ed abbeverò il cavallo, quindi raggiunse in silenzio gli uomini sotto il gelso.

Dietro le cortine della finestra, la moglie del barone e donna Titina, una sua parente ch’era an­data in moglie ad un marchese della Capitanata ormai si preparavano a scendere dabbasso.

“Chi è”, chiese donna Titina, “quel paesano che è appena entrato?”.

“E’ Biagio”, disse la baronessa, “una delle guar­die a cavallo del feudo”.

“Sembra che sappia cavalcare solo lui, dritto come se fosse mposimatu(5) ma chi crede di essere, la statua di San Giorgio?”.

“E’ un poppitu(6). E’ qui da tre anni ed è come se ci fosse nato. Conosce la gente del feudo me­glio del casiniere e di mio marito”.

“Sarà!”, commentò la marchesa, “ma dall’a­spetto sembra un tipo poco socievole”.

“No, affatto. Anzi, è proprio il tipico faccellavatu(7), come dicono qui”.

“E che cosa vuol dire?”.

“Che è un tipo piuttosto sfrontato. Allro che poco socievole..”.

“Allora tu lo conosci bene”, disse donna Titina ammiccando alla baronessa, “lo conosci molto bene!”

“No”, si schermì la baronessa con un sorriso in­nocente, “io non ho di queste debolezze”.

“E allora, con don Fifì, a Conversano, due an­ni fa, che cos’era?”.

“Che centra, quello era uno di noi, non del popolo”.

“Uno di quelli con i calzoni alti, donna Titina commentò con una punta di malignità, “che poi dentro i calzoni non portano niente”.

“Per me andava bene così. Era un diversivo e poi… era sempre così devoto..”.

“Ma questo Biagio”, tagliò corto la marchesa, “viene qui spesso?”.

“Non molto. Si ferma solo quando è necessa­rio: per parlare con il casiniere o con mio marito”.

“Con quello barbaspilatu(8) che pensa solo al­le terre. Non posso sopportarlo!”.

“Se non ci fosse stato lui a prendere in mano il patrimonio, con il regresso demografico, suo fratello si sarebbe giocato tutto. Altro che!”.

“Ah, è un faccellavatu, commentò la marchesa come se parlasse a se stessa, “allora ci sarà da divertirsi!”

“Che cosa ti stai mettendo in testa? Guarda che mio marito lo tiene in grande considerazione”.

“Stai tranquilla che non glielo rovino e non glielo porto via”.

Intanto le due donne si erano di nuovo avvici­nate alla finestra e donna Titina, ne aveva scosta­ta piano un’anta. Sotto stavano passando Biagio ed il casiniere.

Fingendo di non essersi avveduto di nulla, Biagio, come continuando un dialogo già inizia­ti, chiese a Francesco: “Chi è quell’occhi de masciàra(9) alla finestra?”.

“Dove?”, il casiniere chiese.

“Lì, di sopra”, disse Biagio accennando con la testa.

“E’ la marchesa di Caprarossa che sta qui per l’estate”, Francesco disse.

“Sola?”, chiese Biagio.

“No, c’è anche il marchese. Adesso è andato a Melendugno con il barone”.

“Potrei insegnarle ad andare a cavallo”, com­mentò Biagio, mentre la sua voce poteva ancora essere udita di sopra.

Le due nobildonne si erano ritirate all’interno della camera, ma avevano udito tutta la conversazione.

“Svergognato”, disse fingendosi indispettita donna Titina, “gli faccio vedere io chi sa andare a cavallo”.

“Lascia stare”, disse la baronessa, “qui stiamo tranquilli”.

“Tu lascia fare a me e non ti preoccupare. Che cosa vuol dire occhi de masciàra?”

“Vuol dire che hai gli occhi profondi, da ma­ga. Si vede che hai fatto colpo subito”.

“Come ha fatto a vedermi quello sfrontato? Bene. Vuol dire che mi vedrà ancora e meglio”.

Ed il discorso fu troncato lì, perché scesecro da basso per prender la consueta bibita preparata con succo di cetrangole(10) e tenuta in fresco nella ghiac­ciaia. Donna Titina era gongolante, ma la baronessa scuoteva il capo dubbiosa.

A piedi, Biagio ed il casiniere, andarono a fa­re un giro noll’oliveto vicino, che era stato lambi­to dal fuoco appiccato alle stoppie e qualche ramo era rimasto bruciacchiato;  quando tornarono, le ombre si erano allungate e la vita intorno al palazzotto si era ridestata. Due contadini traevano ac­qua da una cisterna e la trasportavano con le menze(11) nell’orto dove innaffiavano peperoni, me­lanzane e patate dolci. Una vecchia filava lino e faceva rullare la punta del fuso sul lastricato, con grande divertimento di un gattino nero. Un contadino anziano sistemava alcune sedie di vimini all’ombra di un grande leccio. Lentamente, anche il casiniere si mise in movimento.

Biagio andò alla stalla per dare un’occhiata al cavallo.

Quando tornò, il barone ed il marchese, im­peccabili nei loro abiti lineari alla moda e con il lo­ro Homburg in testa, passeggiavano in un viottolo sotto una pergola di uva minnivacca(12) che co­minciava a prendere colore. Stavano discutendo animatamente.

“Voi, quaggiù, diceva il marchese, non sentite i grandi problemi. Quaggiù tutto è rimasto come prima e l’economia chiusa non vi obbliga ad investire capitali per la conversione delle col­ture” e, poiché gli piacevano le citazioni, aggiunse: “Ingentia rura laudo, sed parva colo(13), caro mio”.

“Anche noi abbiamo i nostri problemi”, disse il barone, non ultimo quello di reperire la manodopera, che negli ultimi anni è diventata molto cara”.

“E’ stato sconvolto tutto un mondo che era in piedi sin dall’antichità”, il marchese diceva, “e con la concorrenza straniera poi ci siamo dovuti adat­tare ad un nuovo tipo di economia, nostro malgra­do. Sono state stravolte le destinazioni naturali delle terre..”.

“Su questo avrei qualcosa da dire…”, lo inter­ruppe il barone.

“Io non vedo tutte queste nuove strade che so­no state costruite. Perché, prima non si trasporta­va la roba?”.

“Io, invece”, ribatteè il barone, “credo che siano state una grande cosa e, personalmente ritengo che sia molto meglio muoversi in calesse che a dorso di cavallo o di mulo. Purtroppo”, continuò, “rimane la piaga delle contrade litorali, che nella nostra provincia sono state lasciate in completo abbandono, con più di scimila ettari di paludi e ol­tre cinquantamila di terreno incolto; duecentocinquantamila abitanti, quasi la metà della popo­lazione della provincia, sono soggetti alle febbri malariche. Abbiamo sempre fatto le nostre la­gnanze, per questo, con il passato governo ed ora continuiamo a farle con quello nazionale. E che cosa succede? Nulla. Ora, poi, sanno solo fare crociate e spedizioni contro i briganti; con il risul­talo che quei disperati sono tutti nascosti nei bo­schi del Belvedere(*), dove non può avvicinarsi più nessuno. Ben vengano le strade e speriamo che poi arrivino anche le bonifiche”.

“Questo è vero”…, stava dicendo il marche­se, quando i due si trovarono davanti Biagio, che stava aspettando di parlare con il barone.

“Buonascra a lorsignori”, Biagio disse rima­nendo dov’era.

“Caro Biagio”, disse il barone con tono con­fidenziale. Quindi si fece raccontare tutte le novità che non erano, per la verità, rilevanti.

Intanto l’aria si era lievemente rinfrescata e sullo spiazzo c’era vocìo di bambini, quelli ben vestiti e quelli con indosso solo stracci, che gioca­vano assieme. Una governante aveva il suo da fa­re per tenerli un po’ in armonia.

fiore di cappero (ph Giorgio Cretì)

Biagio stava andando a sellare il cavallo per partire, quando le due signore gli sbarrarono il passo.

“Buonasera donna Mariuccia”, egli disse, con un sorriso appena abbozzato alla baronessa. Poi, rivolgendosi a donna Titina e guardandola fisso negli occhi: “Buonasera a signorìa”, disse.

“Buonasera Biagio”, rispose la baronessa con tono espansivo.

La marchesa non rispose al saluto, ma sosten­ne lo sguardo di lui.

“Sei tu il grande cavallerizzo che disturba la gente che dorme?”, gli chiese.

“Mi chiamano Biagio Sannimaru(14), servu de signorìa”, rispose continuando a fissarla.

“Ho sentito dire che sei un faccellavatu”, dis­se lei senza scomporsi.

“Sempre ai comandi de signuria”, rispose lui senza battere ciglio.

“Andiamo Titina”, disse la baronessa pren­dendo per un braccio la sua compagna.

“Buonasera Biagio”, disse, quindi, con lo stesso tono di prima.

La marchesa non lo salutò, ma mentre si vol­tava gli abbozzò un sorriso misto di sfida e complicità.

Biagio vide le due donne allontanarsi, con i lo­ro cappellini sobriamente infiorati, fasciate nei lo­ro corpetti aderenti e le loro lunghe gonne a stra­scico. Donna Titina, sicuramente, non indossava il busto, ma la sua piccola figura era ugualmente snella ed elegante.

Uscì dal cancello al passo e, al passo, percor­se anche il viale dei pini. Poi spinse il cavallo al galoppo, incitandolo solo con la voce, e si dires­se al bracchiu delle Tamerici. Lì si fermò senza scendere di sella e rimase a fissare il paesaggio verso il casino. Imbruniva velocemente.

Aveva captato il messaggio della marchesa, ma sapeva anche che lui non poteva prendere inizia­tive. Certo, come donna, la marchesa era altro che quelle delle masserie, appesantite troppo presto dalla fatica e dalle figliate! Donna Titina era di carnagione florida, un po’ velata di roseo e di bru­no, gli occhi fermi che parlavano senza muover­si. Aveva una linea che lasciava sfacciatamente immaginare che cosa celava sotto gli abiti. I suoi capelli, dai riflessi ramati, lo avevano subito esta­siato e soggiogato.

Biagio non fece nessun proposito perché, an­che se la donna nelle vicende amorose doveva es­sere passiva, tra lui e donna Titina esisteva l’invalicabile salto delle differenti classi sociali di ap­partenenza. Egli doveva attendere, lasciando che i ruoli si invertissero, e l’unica sua iniziativa, da quel giorno, fu la visita quotidiana al bracchiu sulla duna, dove si soffermava un po’ più del so­lito ed esplorava con lo sguardo la campagna ver­so il casino, la macchia e la lunga spiaggia.

Ed un giorno, a pomeriggio inoltrato, proprio lungo il bagnasciuga, un cavallo con in groppa una figura femminile, galoppava a spron battuto fra gli spruzzi. Egli non si mosse e li seguì con lo sguardo, finché non scomparvero dietro un picco­lo promontorio. Rimase per un pezzo fissando im­passibile la spiaggia, poi se ne andò, quando dal­la parte del mare erano calate lunghissime ombre scure.

Al tramonto del giorno successivo, tornò al bracchiu e trovò sulla sabbia le orme di un caval­lo che vi aveva sostato per un certo tempo e sotto i cannicci le impronte di stivaletti. Non lo pressa­va l’ansia, ma la passione che era costretto a repri­mere sì. Decise di passare lì la notte e, dopo aver dato un po’ d’avena al cavallo, trasse dalla bisac­cia qualcosa da mangiare. La luna era prossima al­la cuntidecima(15) e si specchiava sul mare calmo, i suoi riflessi vibravano alle leggere increspature della brezza serale. Una quiete da idillio.

Si distese supino sulla lettiera e, ad occhi aper­ti, cercò di immaginare come e quando la marche­sa si sarebbe mostrata. Forse sarebbe venuta al­l’alba, perciò decise di dormire. E dormì, come al solito, un sonno sereno e leggero.

Fu svegliato dal rumore di un cavallo al galop­po lungo la spiaggia, mentre il sole era ancora sot­to l’orizzonte. Si alzò sui gomiti e scrutò lo spazio verso il mare, ma non vide nulla e nessuno. Tese a lungo l’orecchio, ma tutto era silenzio. Pensò di avere sognato e si sdraiò nuovamente sul paglie­riccio, ma rimase con l’orecchio teso a captare qualsiasi segno che non fosse quello degli uccelli e dello sciabordìo delle onde sulla spiaggia lontana.

Restò un po’ così. Senza pensare a nulla, con la mente vuota, e non se ne rendeva conto, ma tor­nò subito in sé quando gli parve di udire il rumo­re di un cavallo zoppicante che risaliva piano la duna e si avvicinava attraverso la macchia. Si al­zò in piedi e anche il suo cavallo teneva la testa voltata verso la fonte del rumore. Uscì da sotto i cannicci, mentre, all’orizzonte senza nuvole, il sole stava per emergere dall’acqua che sembrava ribollire. D’istinto stava per montare in sella e precipitarsi giù, ma non si mosse: ebbe il presen­timento che fosse giunta l’ora.

Da lì a qualche istante una figura femminile a cavallo sorse dai cespugli, mentre il sole, come una palla di fuoco, enorme, schizzava fuori dal ma­re, i suoi raggi già violenti. Donna Titina, seduta in sella alla maniera amazzone, con i capelli sciol­ti sulla spalle, gli si presentò davanti, bellissima, e fermò il cavallo ad un metro di distanza da lui, che la contemplava immobile dal basso verso l’alto.

Caru faccellavatu”, salutò.

“Bongiornu a signuria”, rispose lui.

Rimasero qualche attimo ciascuno nella pro­pria posizione, finché la marchesa non parlò ancora.

“Allora?,  faccellavatu, disse, “perché non mi aiuti a scendere”.

“Come comandi signurìa”, egli disse tenden­do verso l’alto le sue braccia robuste.

A quel punto, la marchesa esitò un istante, poi protese il suo corpo in avanti, abbandonandosi, e si fece afferrare per la vita. Come in una figura di danza, Biagio la librò nell’aria in atto di offrirla al sole e lei, mentre scivolava giù leggera, con il se­no gli sfiorò la faccia ed il petto nudo, finché egli non le fece toccare terra dolcemente.

Biagio, allora, lasciò la presa e, fatto un passo indietro, con tono distaccato, le chiese, che cosa era successo al cavallo.

Donna Titina, prima aspirò a pieni polmoni l’aria del mattino, con le braccia levate verso il cielo ed il torace proteso verso di lui, poi disse che improvvisamente il cavallo aveva preso a zoppicare.

Biagio, in quel momento, avrebbe voluto ag­guantarla, ma attese ancora. Si chinò verso la zampa del cavallo, gliela sollevò ed estrassc uno sterpo che, si era conficcato tra il ferro e l’unghia. Il cavallo nitrì e si allontanò al trotto per alcuni metri, come per verificare le sue condizioni, poi allungò il collo verso terra e raccolse un filo d’er­ba secca.

Biagio tornò in piedi e per un attimo seguì l’animale con lo sguardo, poi si voltò verso la mar­chesa, che era rimasta ferma e, con le pupille lu­centi, raggiante quanto l’aurora in atto, lo fissava.

“Vieni, occhi de masciàra”, le disse prenden­dola per la vita e sollevandola da terra più in alto che potè. Le fece fare un giro completo al di sopra della sua testa, poi la adagiò sulla lettiera e le sue mani scivolarono rapide fino al corpetto, di cui slacciò freneticamente tutti i bottoni.

Sotto, non solo ella non aveva il busto, ma nemmeno il sottovita e subito il suo seno bianco come il latte, adornato di lievi lentiggini, si liberò fresco e palpitante all’aria salmastra e ai baci. Non era un seno giovanissimo, ma ancora mol­to compatto, con i capezzoli turgidi ed eretti per la tensione erotica accumulata. A quel punto non ci fu ritegno, ne per lui né per lei e la passione col­tivata da una parte e repressa dall’altra ebbe sfo­go, una prima volta in modo quasi bestiale. .

Poi, rilassati i loro corpi, rimasero lì, in balia della brezza ch’era ancora fresca e solo allora fu­rono in grado di accarezzarsi con dolcezza.

“Lo sai, disse lei baciandolo sul petto, che po­trei farti mandar via… per invasione di caccia riservata?”.

“Sì, egli disse, lo so, come so anche che non è questo che vuoi”.

“Non è questo che voglio. Proprio”, ella dis­se coprendogli il volto con i suoi capelli.

Rimasero lì a volersi e a prendersi, fino a quando il sole fu alto ed ella, mentre si rivestiva aiutata da lui, ancora lo accarezzava languidamente.

“Lo sai, ella aggiunse, che oggi parto?”

“Lo so”, rispose allacciandole le camiciole(16) dietro la schiena.

“E lo sai che io qui non torno più?”, gli disse infine.

“So anche questo”, rispose lui baciandola un’ultima volta dietro la nuca.

“Ne ero sicura”, ella concluse avvicinandosi al suo cavallo.

Biagio l’aiutò a montare in sella e la seguì con lo sguardo mentre si allontanava e scompariva lentamente nella macchia.

Non avvertì sofferenza per il distacco anche se sapeva che non l’avrebbe più rivista; anzi que­sta certezza lo rendeva felice, perché solo il dub­bio lascia la bocca amara.

(1) Brufìcu, caprifico;  fico selvatico con frutti non commestibili, usato per l’impollinazione di certi fioroni  (caprificazione)

(2) Muttura, rugiada condensata sulla piante; diversa dal serenu che è quella condensala nell’aria e che cade come pioggerellina.

(3)  I dolici, i cosiddetti fagioli con l’occhio (Dolichos catiang), erano detti pasuli piccinni ed erano l’unica varietà di fagiolo consumata verde.

(4)  Bracchiu, dal latino ombraculo, cioè luogo ombrato e, più genericamente, nel dialetto, copertura rustica.

(5) Mposimatu, da posima, amido, ottenuto dalla semola del frumento, per separazione dal glutine, per mezzo della “lavatura”.

(6) Pòppitu, attributo tipico degli abitanti del Basso Saleno. Da apud uppidum, cioè fuori dalle mura, paesano.

(7) Faccillavatu, persona molto sfrontata. “Calzoni alti, erano detti i signori perché, a differenza di quelli dei paesani, i loro calzoni avevano la vita mollo alla. Dato il carattere, donna Titina può poi permettersi il gioco di parole.

(8) Barbaspilatu, persona con burba rada.

(9) Masciàra, strega, incantatrice.

(10) Maranciu rizzu, arancio amaro (melangolo, cetrangolo). ARANCIO AMARO (o forte) – Albero delle Rutacee (Citrus aurantium) con frutto simile a quello dell’arancio dolce; la differenza sta nella polpa che, nell’arancia amara è agra, amarognola e astringente. E’ il melangolo, al Sud sopravvive marangola, della cucina rinascimentale. Dal succo si ricavano marmellate particolari e bibite rinfrescanti.

(11)  Menza, recipiente con un solo manico in terracotta o di zinco, usalo per il traspone di acqua o vino. Quello di zinco era a forma di due tronchi di cono, uniti per la base maggiore.

(12) Minnivacca, di forma allungata come le mammelle della mucca.

(13)  Ingentia rura laudo, sed parva colo, Loda i grandi campi, ma coltiva il piccolo.

(14) Sannimaru, aspro di zanne.

(15)  Cuntidecima, luna piena. Da quintam decimam diem, giorno quindicesimo dal principio del novilunio.

(16) Camiciòle, fibbie posteriori del corpetto.

(*) Bosco di Belvedere. Vasta e compatta area bo­schiva del Basso Salento, scomparsa alla fine del XIX se­colo. Fu frazionata ed assegnata ai vari co­muni vicini per ricavarne terre coltivate.

(pubblicato su “il Rosone” – Anno XI n. 6, 1988)

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2 Commenti a Faccellavatu

  1. Aveva proprio ragione Carver: un buon racconto vale quanto una dozzina di cattivi romanzi. E questo ne vale almeno il doppio.

  2. Potrei scrivere dei miei calzoni bucati, dell’aria salubre dei campi, della rivolta degli oppressi, del sublime e del brutale, ma niente sarebbe se non avessi la poesia negli occhi e la loquacità del cuore di Giorgio Cretì. Un pezzo da 90, si dice solitamente per indicare un fuoriclasse. Qualunque sia l’argomento fortunato scelto dalla sua penna, il lettore lo vive sfiorando la terra come il cavallo arabo montato da Biagio, destriero dal tramestio selvaggio immune da graffi e cadute.Lo scrittore accompagna, lo scrittore trasforma l’indescrivibile della passione in ovvietà della parola di classe, quella che ti fa sentire l’eco di un trotto sul selciato lanciarsi al galoppo sulla sabbia con lo stesso ritmo delle emozioni di un uomo.Leggo i mille pensieri sussurrati dallo sguardo scintillante di una dama, novella Circe, inspiro il compiuto che si sfuma all’orizzonte, libero dagli angusti spigoli della fine di un racconto che si congeda dal mondo.

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