di Paolo Rausa
Un pomeriggio infuocato salentino di quasi metà luglio non era il momento più indicato per incontrarsi con un artista. Mi aveva colpito un suo quadro in acrilico che riproduceva la piazza di un paesino accanto al suo, Diso, con alcuni elementi innovativi: le piccole costruzioni addossate le une alle altre, poste a ridosso della chiesetta e intorno ad una colonna votiva, una strada o viottolo, alcune figure umane, molto piccole, che animavano la rappresentazione, colori pastosi e il cielo che sovrastava limpido e sereno, insomma un paesaggio andino in pieno Salento!
Il giorno dopo ero a trovarlo nel suo studio a Ortelle, ricavato da una cantina, arieggiata e rinfrescata naturalmente, dove è racchiuso il suo mondo. In altri tempi mi avrebbe accolto con un epiteto, “liccaviddhranze” (leccabilance) e io avrei avuto gioco facile a ribattere “nijatu” (annebbiato), ma ora ad una certa età ci sembrava ridicolo conservare quelle espressioni. Invece abbiamo subito scoperto una esperienza comune di docenti nelle periferie degradate della metropoli milanese, un’esperienza che ha lasciato un’impronta sconvolgente nell’animo di Carlo.
E’ rimasto per circa 20 anni a Milano, ma si è occupato poi di altre attività. La sua figura mi ha subito ricordato un personaggio del cinema americano, il beffardo Jak Nicholson. Carlo è nipote d’arte ed egli stesso ha frequentato gli studi dell’Accademia delle Belle Arti e dell’Artistico prima. Tutti elementi biografici che troviamo stilizzati, dipinti e ripresi nelle sue opere artistiche. Innanzitutto nei ritratti di personaggi significativi del paese, caratteristici ma marginali: barboni, mendicanti o pulitori di strade.
I volti di Dunatu Capone, senza fissa dimora se non una stalla, di Peppe Zainu, di Mescia Cosima Triaga e di Santu Lanzilau rappresentano delle figure irripetibili, a cui l’artista ha dato un’anima e li ha appesi come se attraversati dalla sua matita, loro che sono sempre stati negletti dalla società, ora finalmente possono dare bella mostra di sé e recuperare, attraverso la loro rappresentazione, la dignità perduta.
L’amore per il passato è testimoniata dalle raccolte di foto d’epoca che Carlo Casciaro conserva gelosamente nel suo archivio improvvisato e apparentemente disordinato. Le immagini dei paesaggi salentini, del mare che ammalia e della campagna che ristora testimoniano l’attaccamento alla sua terra.
Il passaggio dalla ritrattistica su cartone con matita ai dipinti in acrilico assume il significato di recupero della memoria e di omaggio reso ai piccoli centri storici, fatti di un’architettura semplice, ma vissuta, tipica della cultura abitativa rurale. Le piazze, le strade, i viottoli si animano dalla presenza di personaggi noti, familiari o indistinti, ma l’elemento umano non è mai soverchiante, è discreto, un atteggiamento che rivela il suo approccio, il suo accostamento a queste forme di vita e di sapere contadini. Non che manchino le installazioni realizzate con tecniche informatiche d’avanguardia, ma le opere realizzate si collocano preferibilmente in contesti strutturali tipici delle costruzioni a volte. Un’applicazione che Carlo Casciaro trasferisce sulle magliette che egli imprime, oltre che per vivere, soprattutto per lasciare un segno indelebile e affettuoso delle sue performances artistiche.
Complimenti per l’articolo e soprattutto per l’artista. Mi piace che Casciaro si ispiri alla gente comune così come Paolo Rausa si è ispirato a Casciaro che è parte di quella gente. Se passo da Ortelle andrò a trovarlo. Cordiali Saluti. Ezio Sanapo
Ritratti delle nostre storie di uomini e di paesaggi nell’incanto della semplicità che dona dignità all’anonimato dei volti nostri, quelli più puri.