di Giorgio Cretì
Antonio aveva ereditato un giardino sulla strada vecchia per andare a Poggiardo, un luogo intimo, hortus conclusus cintato da alti muri di pietre a secco. Lì, come aveva imparato da suo padre teneva il ben di Dio di frutti e tanta verdura che bastava per la sua famiglia e ne cresceva anche. E lì trascorreva molto del suo tempo quando non era impegnato come autista di piazza a portare i ragazzi a scuola o le donne al mercato; d’estate per la frescura e d’inverno perché era al riparo dai venti di tramontana o di scirocco che spesso soffiavano molto fastidiosi sia per gli uomini che per gli animali. Aveva una casetta di un solo vano ed un ricovero per l’asino e per la pecora.
Una pianta di mele cotogne portava certi frutti mai visti da quelle parti che facevano gola a quanti passavano e li vedevano appesi ai rami che superavano il muro di cinta. Antonio era stato attento a non far pendere l’albero sulla strada, per non indurre in tentazione, ma le mele cotogne venivano rubate sistematicamente ogni anno da qualcuno che si arrampicava a raccoglierle dall’esterno. Il fatto lo contrariava; se li volevano per metterli nel comò a profumare la biancheria, potevano chiederli perché lui glieli avrebbe dati volentieri, ce n’eran tanti, ma gli dava proprio fastidio che glieli rubassero mentre lui era a casa. Così quell’anno decise di scoprire il ladro e una mattina se n’andò al giardino prestissimo; per non essere visto fece il giro da lontano e attese sotto l’albero dietro il muro. Non passò molto che sentì passi lesti e leggeri di donna che si avvicinavano, poi qualcuno si arrampicò sul muro e iniziò a staccare dai rami i frutti più belli e più gialli, con naturalezza come fossero suoi. Allora Antonio riconobbe la donna e la chiamò per nome; quella non si scosse e continuò a raccogliere i frutti che riusciva a raggiungere. “Ehi, comare Palmira”, disse, “ma tu lo sai che quest’albero l’ha piantato mio padre e che le cotogne sono mie?”
“Lo so”, disse la donna affacciandosi dal muro, “lo so, è che quando passo e le guardo sento che mi chiamano”.
“Ah sì”, disse Antonio, “e tu fai finta di non sentire e tira dritta”.
La donna se n’ando con i pochi frutti raccolti, come se nulla fosse accaduto, ma Antonio decise di raccoglierli lui quelli rimasti e di portarli a casa per conservarli nella paglia.
Le nuvole basse spinte dal vento di scirocco quasi lambivano le cime degli alberi e incupivano la giornata. Comunque, alla fine d’ottobre spesso il tempo era così.
Di lì a poco venne a trovarlo Angelo Vito, il proprietario delle macchine da noleggio. Per qualche minuto parlarono del più e del meno poi Angelo Vito cambiò discorso. “Ascoltami bene compare”, disse, “c’è da compiere un’azione decisa e per compierla ci vuole la tua faccia”.
“Cala”, disse Antonio, “dobbiamo fare uno sbarco in Grecia?”
“No”, disse Angelo Vito, “no. Conosci Cosimino Fracilisco, no?”
“Sì che lo conosco, figurati…, e conosco anche tutta la sua famiglia, tredici o quattordici in tutto, se non mi sbaglio! Che cosa è successo?”
“Non è successo niente di particolare, solo che Cosimino ha deciso di portar via la fidanzata perché i suoi di lei non vogliono sentir parlare di matrimonio con lui”.
“E io cosa c’entro? Tu sei pazzo compare, quella ha quattro o cinque fratelli grandi e grossi che se ci acchiappano ci fanno a polpette”.
In pratica dovevano aiutare Cosimino a portar via la ragazza da casa, dovevano favorire una fuga d’amore che poi a cose fatte avrebbe messo a posto ogni cosa.
I giovani oggi si prendono e si lasciano senza nessuna conseguenza legale, ma allora le cose stavano diversamente e due che si volevano bene non sempre riuscivano a coronare il loro sogno; per cui ricorrevano alla fuga d’amore che era sempre un atto di forza nei confronti delle istituzioni e della tradizione dei matrimoni combinati all’insaputa di coloro che dovevano contrarli. Tutta la cultura romantica aveva avversato il matrimonio combinato ed esaltato la fuga d’amore come un atto eroico di ribellione, un’affermazione della libertà di scegliersi liberamente tra uomo e donna – oggi siamo andati molto più oltre e si va affermando sempre più il diritto di scegliersi liberamente tra uomini o tra donne –. Soprattutto nelle regioni meridionali il matrimonio riparatore era molto diffuso e lo stesso Gabriele D’Annunzio, smanioso di bruciare le tappe dell’amore, aveva fatto ricorso alla fuga d’amore.
Anche Cosimino e Pietrina, la sua fidanzata, avevano una gran voglia di bruciare le tappe ed erano decisi a fuggire assieme, perché cosa fatta capo ha. Non era mai successo che una ragazza compromessa non ottenesse il perdono della famiglia o, dove necessario la dispensa vescovile; inoltre, dato lo stato di povertà in cui versava la maggior parte della gente, era anche un problema economico: con la fuga si evitavano spese per cerimonie ufficiali che le famiglie non potevano permettersi. Questo, come s’è capito era il caso della famiglia di Cosimino.
“Allora?”, disse Angelo Vito, che pure, personalmente, aveva fatto ricorso alla fuga d’amore prima di sposare sua moglie, “è una cosa che devi fare tu, io sono troppo conosciuto dappertutto. Devi portarla via con la macchina”.
“Che Dio me la mandi buona!”, Antonio commentò.
“Domani mattina presto vieni a prenderti la macchina, Cosimino ti aspetta davanti al camposanto di Spongano”.
“Signorsì”, disse Antonio ridendo e scuotendo la testa, “vuoi qualche mela cotogna…”
“Ma no, ne abbiamo una pianta stracarica dietro casa”.
“Lo sai?, stamattina se le stava raccogliendo comare Palmira. Ha detto che quando passava i frutti la chiamavano e lei non poteva resistere”.
“Eh sì, si sente sempre chiamare dalla roba degli altri e perciò va sempre in giro con una sporta… finché qualcuno non le risponde con un bastone”.
Si fecero una bella risata, Angelo Vito andò via e Antonio tornò alle sue faccende: aveva strappato dal semenzaio un centinaio di cime di rapa e si apprestava a piantarle fra gli alberi ormai senza foglie.
All’alba Antonio si trovò puntuale davanti al cimitero di Spongano dove Cosimino lo stava aspettando sotto uno dei grandi cipressi che si distendeva con i suoi rami fuori dal muro di cinta; si fermò, lo fece salire e si avviarono verso i Paduli di Surano. Era lì che dovevano compiere il ratto.
“Hai atteso molto?”, Antonio chiese.
“Un po’”, Cosimino rispose, “non riuscivo a dormire e me ne sono venuto qui”.
“Non avevi paura dei morti?”
“Io ho solo paura dei vivi”.
Quando, superato Surano, giunsero alla discesa che porta verso Torrepaduli, Antonio lasciò da parte i convenevoli e venne al sodo della questione.
“Allora spiegami”, disse, “vediamo se riusciamo a rimediare un po’ di legnate”.
“Facciamo così”, disse Cosimino, “ora tu mi lasci qui e vai avanti, subito dopo la curva a destra c’è il fondo dove Pietrina sta raccogliendo olive con i genitori e due fratelli; osservi la situazione e, per non dare nell’occhio, arrivi fino a Supersano; al ritorno ti fermi e trovi una scusa per far capire a Pietrina che io sono nascosto qui”.
“Il dolce a te e l’amaro a me”, disse Antonio mentre fermava la macchina.
“Tu ce l’hai già il dolce”, disse Angelo Vito, “vi aspetto qui”.
Antonio avviò la Millecquattro prolungata studiata apposta per il trasporto pubblico; gruppi di donne assonnate e silenziose qua e là sotto gli ulivi secolari, da una parte e dall’altra della strada bianca, stavano con la schiena curva a terra e raccoglievano i piccoli frutti fatti cadere dal forte vento di Scirocco. Andò proprio fino a Supersano.
Al ritorno si fermò davanti al fondo dov’era Pietrina con sua famiglia, scese dalla macchina e con calma aprì il cofano fingendo di armeggiare sul motore; si tirò su ed iniziò ad imprecare ad alta voce andando per una attimo avandi e indietro sulla strada. Poi si avvicinò al muretto che delimitava la proprietà, vi salì sopra brontolando e facendo gesti verso il gruppo di persone che, lontane dalla strada sette o otto piante, raccoglievano ulive. Sollevò la schiena curva un uomo. Antonio allora saltò nel campo e si avviò verso di lui, anche quello gli mosse incontro.
“Scusatemi, ho l’acqua che bolle…”
“Butta la pasta”, disse l’altro interrompendolo per fare la battuta che gli venne spontanea, “che ti serve acqua?” aggiunse poi serio.
“Sì”, disse Antonio, “se potete darmi un po’ d’acqua per l’anima dei morti…”
“Sì, sì”, disse l’uomo ch’era una specie di gigante e doveva essere il fratello maggiore, “sì, Pietrina prendi l’ozzu(1)”.
“Grazie”, disse Antonio, “metto un po’ d’acqua nel radiatore e ve lo riporto subito”.
Quando le cose devono andare bene! Quando il destino sta dalla tua parte!
“No, no”, disse il gigante gentile, “lo porta lei così non devi tornare indietro, vai Pietrina”.
La ragazza obbedì subito e andò a prendere l’ozzu, che stava nell’incavo di un vecchio tronco un po’ più in là.
“Allora grazie mille”, disse Antonio mentre si allontanva con la ragazza dietro.
Quando arrivarono vicino alla strada, prima di scavalcare il muretto, Antonio senza fermarsi le chiese: “Sei la ragazza di Cosimino?”.
“Sì”, la ragazza rispose un po’ trafelata.
“Allora, mi ha mandato a prenderti. Adesso, mentre io faccio finta di versare l’acqua nel radiatore infilati dentro la macchina e accucciati”.
La ragazza obbedì nuovamente. Antonio fece colare un po’ d’acqua sul motore che aveva lasciato acceso, abbassò subito il cofano e si liberò dell’ozzu lanciandolo contro la pianta più vicina per fare in fretta. Entrò in macchina e prima ancora di chiudere la portiera si era avviato lasciandosi dietro una nuvola di polvere. Dal fondo cominciarono a correre verso la strada agitando le braccia ed imprecando, ma era troppo tardi.
Più avanti suonò due volte il clacson, Cosimino comparve subito sulla strada e salì in macchina anche lui. Scesero sotto le marine di Andrano e lì li lasciò fino a sera, quando venne a prenderli per portarli al buio a Spongano a casa della madre di lui, da dove più tardi un amico fidato li portò fino a Lecce in un posto dove nessuno poteva scoprirli. Lì rimasero una settimana, fino a quando, sbollita la rabbia e cadute le minacce, non furono perdonati da tutti e tornarono a Spongano dove a tempo debito, dopo le pubblicazioni di legge, si sporarono in grazia di Dio e così vissero ed ebbero figli. All’atto della riconciliazione e della festa in famiglia sia lei che lui chiesero perdono e promisero che non sarebbero più scappati, ch’era il sigillo solenne che ridava il buonumore a tutti.
Questi fatti avvenivano una quarantina d’anni fa. Lo scorso anno, me l’ha raccontato lui, Antonio che andò a far visita ad un morto, parente di sua moglie Vittoria. Dopo i funerali si fermò con gli altri parenti a mangiare qualcosa e il discorso andò a finire sull’osservazione di uno dei presenti che aveva ravvisato in lui l’autore del ratto di quarant’anni prima.
“Dimmi una cosa, Antonio” disse quello dell’osservazione, “tu hai mai fatto il noleggiatore?”
“Sì”, disse Antonio, “molti anni fa”.
“Ecco”, disse ancora quello, rivolto a tutti i presenti, “fu lui a portar via mia sorella sotto gli occhi di tutta la famiglia; adesso ci racconti tutta la storia per filo e per segno”, disse rivolto ad Antonio.
E Antonio dovette raccontare tutti i particolari della fuga, ad un uditorio molto attento; degli anziani nessuno se ne ricordava più, dei giovani nessuno sapeva nulla. Poi qualcuno trasse il telefonino dalla tasca della giacca e disse: ”Adesso facciamo una sorpresa anche a lei” e chiamò Pietrina che giunse quasi subito. Non appena entrata nella stanza, la donna riconobbe Antonio per via dei baffi ch’erano sempre enormi, anche se con gli anni avevano cambiato colore. Gli puntò l’indice contro e disse: “Sei tu?”
“Certo che sono io”, Antonio rispose, “ti ricordi di allora!”
“E come no”, esclamò lei con un sospiro e coprendosi la faccia con le mani aperte. Poi scoppiò a ridere e nel riso fu seguita da tutti i presenti.
(1) Ozzu. Nel Basso Salento, recipiente di terracotta non smaltata, a forma panciuta e a due anse, con collo stretto e allungato, strozzato e dilatato all’attaccatura superiore delle anse, poi strozzato di nuovo e dilatato; bagnato all’esterno ha capacità di trasudare e conservare l’acqua fresca all’interno; contiene tre, quattro litri; le misure più grandi, che prendono il nome di ozzelle o ozze, erano smaltate e servivano a conservare il vino. A Lecce l’ozzu si chiama mbile.
(“il Rosone”, Anno XXIII, n. 2, 2000)
Non solo le favole hanno un lieto fine, questa volta lo ha anche la vita, quella semplice dei contadini. Nei paesi del nostro sud non c’erano solo i sudditi della rassegnazione, ma per fortuna anche i coraggiosi, i “Cuor di Leone” casalinghi e non meno ammirevoli di quelli blasonati. Così la letteratura ha reso omaggio a questi piccoli eroi sconosciuti attraverso Giorgio Cretì, ha impastato parole cariche di suspance a render merito a un’avventura, a un batticuore, a un ruggito forte contro le convenzioni.
Cosimino e Pietrina rischiano insieme ai loro complici e tutti insieme vengono premiati dalla Buona Sorte diventando nel tempo una leggenda da raccontare, la prova tangibile che “…l’amore con l’amore si paga…”.