di Giorgio Cretì
Quante genti erano passate per quelle contrade aride, seccate dal sole eppure opulente in certe stagioni. Genti che prima erano venute dal mare esuli dalle loro ricche e civili città e lì avevano trasportato i loro usi, i loro costumi, le loro divinità, la loro cultura e le loro colture.
Poi erano venute altre genti ed il più forte aveva sempre avuto ragione del più debole. Così i Romani avevano vinto i Messapi ed i Goti i Romani. Così quelle aride contrade, che schiudevano le porte del mare, erano state colonie dei Bizantini, dei Longobardi, dei Saraceni, dei Normanni, degli Aragonesi, degli Spagnoli, degli Austriaci e dei Savoia.
Ma Rosario queste cose non le sapeva, anche se in lui c’era la somma di tutte quelle genti; al massimo aveva sentito raccontare qualche leggenda che si riferiva alle scorrerie dei pirati o qualche fatto che aveva per protagonista il brigante Serafino che si nascondeva nei fitti boschi del Belvedere e la cui cappa serviva ad aprire qualsiasi porta.
Eppure di segni ce n’erano a testimonianza di tanta storia. Lì, giù verso Malepasso, alta sul mare c’era una torre di quelle fatte costruire da Carlo V che era collegata a vista con altre più o meno dirute, sempre alte sul mare, verso Tramontana e verso Scirocco e poi c’erano le masserie Grande e Piccola, retaggio dell’organizzazione agricola che aveva introdotto le colture intensive dei cereali per maggior comodità di prelievo fiscale. C’erano altri segni nei monumenti e nei manufatti di ogni tipo e le parole che egli usava tutti i giorni per comunicare erano un misto di greco e di latino, con qualche elemento di francese, di spagnolo e di arabo.
Ma egli queste cose non le sapeva. Aveva sempre saputo, però, ed era importantissimo, che per campare bisognava lavorare la terra, anche quella scomoda tra i sassi delle marine, chiunque avesse comandato, da vicino o da lontano. Egli poi, era stato contadino per discendenza e, per necessità, anche pescatore: i soli frutti della terra non gli erano bastati per sfamare la sua numerosa famiglia ed aveva dovuto ricorrere anche al mare. Di giorno aveva lavorato nei campi e di notte aveva pescato, salvo che non ci fosse stata luna in cielo o burrasca in mare. La prima luce del giorno lo aveva sempre trovato all’opera, soprattutto d’estate, sempre lì in campagna, ché in paese ci andava solo per la messa della domenica. Per tanti anni aveva tenuto una lettiera sotto un grande fico, che gli elargiva tanta ombra, soprattutto nelle ore meridiane di sole cocente. Il fico era vicino alla casetta di pietre e irmici(9) che serviva più per ricoverare le cose che le persone. Lì, in quella sua piccola proprietà, c’erano sempre state anche grosse piante di ulivo; ma l’ulivo, pure di grandissima utilità, non è mai stato un grande riparo dal sole; la sua chioma è rada e non può proteggere né dal caldo del giorno né dalla rugiada della notte. Presto di mattina, quando non c’era foschia e soprattutto quando soffiava vento di Levante, tra gli ulivi egli scorgeva la nitida catena delle montagne del Durmitor, che stava oltre un mare tanto angusto da sembrare appena un canale. Poi, man mano che la luce aumentava, la visione si offuscava fino a scomparire completamente per lasciare il posto alla netta linea dell’orizzonte. Allora il mare sembrava non avere fine e c’era da aspettarsi burrasca, perché, come diceva il proverbio, “montagne chiare, scirocco in mare”.
Così era stato per anni ed anni o così a lui sembrava adesso che nessuno dei figli dipendeva più da lui perché aveva una propria famiglia, lì in paese o altrove dove aveva eletto nuova dimora. Ora che era invecchiato, Rosario si era spogliato volentieri di ogni diritto di tutela ed, in un certo senso, egli stesso dipendeva dai figli, i quali, ad un certo punto gli avevano vietato di scendere giù per la scogliera, con o senza le reti, perché andare laggiù per lui era diventato molto pericoloso. A pescare, perciò, non c’era più andato, un po’ perché veramente, se ne era reso conto, arrampicarsi non era più cosa per lui ed anche perché voleva avere rispetto per i figli, che, comunque, l’uno o l’altro, o una nuora o un genero, andavano sempre a fargli visita e gli assicuravano ogni giorno un piatto di minestra .
Ma i nipoti erano i suoi più assidui visitatori e spesso avevano anche la funzione di messaggeri. Lo veneravano e non gli mancavano mai di rispetto, sia perché egli non gliene dava motivo, sia, e soprattutto, perché era regola che i giovani rispettassero sempre gli anziani.
Da quando era entrato nella categoria dei vecchi si era dato a costruire ceste; un mestiere che richiedeva perizia e tempo e lui possedeva l’una e disponeva di grande abbondanza dell’altro. Le ceste erano recipienti a tronco di cono rovesciato, molto in uso allora per il trasporto del pane appena sfornato o dei cereali di qualsiasi tipo, molto leggere e comode da portare in spalla.
Per questo i figli, il mese delle messi, mettevano da parte la paglia migliore, i culmi del grano più alto e robusto, e gliela accatastavano nella casa.
Con quella paglia ben nettata, privata da ogni residuo di foglia o di spiga, egli si preparava tanti mazzetti e intorno a questi, attorceva ben serrati i giunchi che i figli gli comperavano quando di mercoledì si recavano al mercato di Poggiardo. Poi iniziava ad unirli in mazzetti, a cucirli, uno all’altro, ed alla fine otteneva quelle ceste a due manici, che, ben conservate duravano molti anni. Non vendeva nulla, ma, uno alla volta, accontentava i figli, ciascuno per i propri bisogni. Questo era un lavoro che faceva specialmente durante le ore calde del giorno: nelle ore fresche del mattino faceva altro. Sarchiava l’erba dalle colture, innaffiava con l’acqua della cisterna, anche se gliel’avevano vietato, i pochi ortaggi che teneva più per abitudine che per necessità e per avere qualcosa, come cucummarazzi o patate dolci, da dare ai nipoti, puliva le siepi vive, lungo i muri di cinta o lungo il sentiero d’accesso al fondo. Con una falce dentata da mietitore nella mano destra ed una forcella ricavata da un qualsiasi ramo nella sinistra, tagliava rovi, pruni, salsapariglia, rose selvatiche e raccoglieva tutto in mucchi per poi legarli in sarcine. Perché queste fossero trasportabli a spalla senza pungere, stendeva in terra uno strato pulicare secche su cui metteva i rami spinosi, poi posava altre pulicare, oppure fracilische o fumuli, schiacciava ben bene il tutto con i piedi scalzi e callosi e legava. I figli, quando avevano tempo, ammucchiavano quelle sarcine nella casa per quando sarebbero servite da portare al forno del paese per la provvista di pane.
Ma negli ultimi tempi, pur conservando la sua perizia, Rosario non lavorava più assiduamente come prima. A volte i nipoti andavano lì e lo trovavano appisolato, disteso sulla sua lettiera con il berretto calato sugli occhi. Gli giravano un po’ attorno e lo osservavano; a volte, ma senza successo, tentavano di fargli il solletico sotto le piante dei piedi, poi andavano a scavare tra le pietre ed il timo per cercare chiocciole in letargo che poi arrostivano con un focherello che accendevano all’ombra dietro la casa dove erano sopravvissute alcune zivirnie, sfuggite alla falce di tataranne o ai loro giochi.
Spesso Rosario stava lì disteso e vagava con il pensiero al suo lungo passato e quando sentiva arrivare qualcuno nemmeno si muoveva. Ma se dormiva, il suo era una specie di dormiveglia sereno, durante il quale scorreva fatti, cose, persone che lui lasciava passare impassibile, come fosse spettatore estraneo di se stesso. Non tutto ciò che evocava, però, aveva contorni netti. Certe figure, spesso le più lontane, erano tanto nitide da sembrare presenti, reali, ma, forse per una selezione naturale di comodidità operata dalla sua mente, non ripercorreva mai momenti difficili o patimenti sofferti. Si rivedeva, per esempio, solo al buio, una notte giù sotto la marina, lì dove una piccola insenatura gli aveva permesso di tendere una corda da uno scoglio ad un altro e che egli non rimuoveva mai. A quella corda aveva legato, quella notte, la sua rete e per mezzo di una carrucola l’aveva tesa e poi calata in mare, là dove aveva osservato il lucciichìo e sentito il tramestìo delle sarde che sembravano impazzite. Non c’erano altri rumori, se non quello dello sbattere monotono dell’acqua contro la base erosa della roccia. Quella notte aveva salpato una rete pesantissimma ed il paniere di canne e vinchi di ulivo che aveva portato con sé si era dimostrato piccolo per contenere tutto il pesce che aveva pescato; tanto che molto ne aveva ributtato in mare. Poi era risalito con la rete in spalla e con il paniere pieno di grazia di Dio appeso ad un braccio, su per quegli spuntoni di pietra che conosceva a memoria: felice per il successo personale, ma soprattutto pnesando alla quantità di buon cibo che portava a casa.
Quando sognava o ricordava queste cose, il viso gli si illuminava e, a volte, i nipoti lo vedevano sorridere nel sonno e poi lo raccontavano in casa come un fatto curioso. Non sognava mai di quelle notti in cui era sceso con la rete ed era risalito senza un pesce, imprecando e bestemmiando, ed era andato direttamente a zappare. Eppure erano state tante.
Altre volte si appisolava mentre stava lavorando e lo trovavano seduto sopra un pisotulu, un pezzo di tronco d’albero usato a mo’ di sgabello, riverso sulla cesta che stava costruendo, magari con in mano un giunco o il verdulu.
Ed era la stessa cosa: sognava. E se gli dicevano che era meglio si mettesse a dormire coricato, negava di aver dormito. In effetti, per lui, non c’era una netta linea che separava il sonno dalla veglia .
Tra le immagini che la sua memoria più spesso gli proponeva, c’era quella di sua moglie Assunta che si faceva aiutare a sciogliere e pettinare i suoi lunghi capelli, come era uso tra le donne, raccogliendo quelli che rimanevano attaccati al pettine per scambiarli con l’ambulante che barattava aghi, spilli ed altre cose che a lei servivano e non poteva comprare. Aveva, Assunta, il viso scarno ed emaciato. Oppure lo stesso volto egli vedera un po’ più tondo e rilassato, mentre ella era intenta ad allattare un bambino. Mai gli passava per la mente la donna che aveva patito gravidanze, fatiche e privazioni e che in ultimo era rimasta a letto per più di un anno, prima di morire consumata dalla malattia. Vedeva pure il suo viso cereo di morta, limpido nella rassegnazione cristiana che tutto è scritto nel libro della Provvidenza ed allora un sentimento di dolce tristezza lo pervadeva provocandogli facili lacrime.
Altre donne vedeva, come, per esempio, Concetta di Minervino che era stata la sua prima vera fiamma e con la quale aveva avuto una esperienza d’amore sotto un cespuglio di ristincu. Era stata lei a blandirlo con occhiate languide, fino a quando un giorno si erano trovati soli fra i campi e si erano appartati. Ma di Concetta non ricordava il volto: solo la prorompente vitalità giovanile ed il debordante seno bianco, liscio come seta.
Un volto, però, gli era presente nitidissimo: quello di Maria. Ovale con grosse labbra avide e occhi grandi e neri che guardavano sempre altrove. Aveva capelli nerissimi raccolti in una grossa treccia. Con Maria si era trovato per caso vicino un giorno che pioveva e, assieme ad altra gente che lavorava nei campi vicini, si era messo al riparo dentro una casupola. Si erano trovati seduti per terra a contatto ed egli aveva avvertito subito il respiro di lei che aumentava di ritmo. Le si era accostato di più e lei non si era mossa, mentre aveva continuato a parlare con lui e con gli altri, evitando, comunque, di girarsi con lo sguardo dalla parte di lui. Questo si era verificato altre volte durante quell’inverno, ma fuori da quelle circostanze, Maria non si era mai fatta incontrare. Allora, Rosario, ne aveva sofferto molto, ma poi aveva dimenticato tutto. Ora, però, l’immagine di Maria era lì ed anche i suoi occhi, grandi ed inesplicabili, guardavano dalla sua parte, dritto in quelli li di lui, che ora li vedeva castani. E a questo punto egli aveva una smorfia di rammarico, ma solo questo e non ricordava gli improperi che un tempo le aveva segretamente mandato. Non pensava mai al futuro, Rosario, perché l’incognito non lo interessava; aveva tanta storia che gli faceva compagnia e quella gli bastava.
Un mercoledì aveva incaricato suo figlio Ntoni, che andava al mercato, di portargli un fascio di giunchi e quando Ntoni ed il figlio Rosario furono tornati da Poggiardo lo trovarono come tante altre volte ripiegato sulla cesta che stava costruendo. Solo che quella volta non si svegliò.
(1) Tatarànne, nonno. Fr. grand pére, Ingl. grand father.
(2) Bosco di Belvedere. Vasta e compatta area boschiva del Basso Salento, scomparsa alla fine del XIX secolo. Fu frazionata ed assegnata ai vari comuni vicini per ricavarne terre coltivate.
(3) Sarcina, fascina. Dal latino sarcina, con significato di peso, fardello, etc.
(4) La pulicara, sia verde che secca, è un’erba molto maleodorante che in lingua italiana è detta enula cespita. I botanici, poi, la chiamano Inula graveolens e rendono meglio l’idea.
(5) Cucummarazzi, i frutti di alcuni meloni che si usa ancora mangiare acerbi, sia crudi che cotti.
(6) Fracilisca, specie di Ferula nana (Ferula communis L.).
(7) Fumulu, Iperico (Hypericum perforatum). Specie perenne molto legnosa che cresce selvatica, tipica di certi terreni aridi. L´Iperico nel Medio Evo veniva usato per curare tagli e abrasioni, mentre i Romani e i Greci lo apprezzavano per la sua reputazione di saper tenere lontani gli spiriti maligni. Da noi (il fumulu) era solo capace di nfumulare, far ammalare, le pecore o le capre che brucavano qualche spiga rimasta fra le stoppie e, invece, era ottimo come combustibile per il forno. [L’iperico ha il potere di rendere l’epidermide degli animali che se ne sono cibati molto sensibile alla luce solare; le parti depigmentate del corpo, se esposte al sole sono soggette a forte pruriito]
(8) Zivìrnia, Corinoli o Macerone. Specie commestibile fin dall’antichità, poi sostituita completamente dal sedano. I Greci la chiamavano smirnìon (che ha sapore di mirra) e così la riporta anche Plinio (Smyrnium olusatrum L.).
(9)Vinchiu, pollone, succhione.
(10) Irmici, coppi a forma di ½ tronco di cono. Da latino imber, per pioggia, acqua.
(11) Verdulu, trivello, succhiello.
(12) Ristincu, Lentisco. Arboscello tipico delle macchie e dei luoghi sterili dell’areale circummediterraneo (Pistacia lentiscus L.).
Rosario sarà stato uno degli ultimi pescatori a praticare l’èrgata, un tipo di pesca da terra in una di quella dozzina di posti che furono le pescherie feudali. Era la pesca prima dell’arrivo delle prime vere e proprie barche da pesca quando ci si ingegnava a pescare da terra con tutte le astuzie possibili. Quella nota a tutti è la pesca con la canna o a mano con filo, amo e galleggiante dallo scoglio, ma ne esistevano altre più professionali.
Su al nord, lungo la costa garganica o molisana, si usava il trabucco per imprigionare il pesce in un enorme coppo a leva montato su una palafitta. Nel nostro adriatico con la costa alta e molte correnti di fondo le tecniche erano altre.
La più nota era la “caloma” un palamito (consu) calato da terra sfruttando le correnti marine provocate dalle sorgenti di acqua dolce. il primo capo trascinato al largo trasportava una corda con alcuni ami, l’estremo finale legato allo scoglio nell’attesa dell’abbocco. Erano possibili solo dei minimi accorgimenti sulla boa artigianale che sospendeva il primo capo che andava al largo, per indirizzarne la direzione. Sulla boa una bandierina per segnalarne la posizione.
Quella di Rosario prende il nome di èrgata (dal latino argano). Era necessario una carrucola e un argano per stendere la rete che andava a chiudere una delle caratteristiche insenature con la costa alta del basso Adriatico salentino. Nella Contea di Castro erano almeno 13, le ultime a essere usate erano Zinzulusa, Romanelli, Giustino, Acquaviva. Era un po’ come stendere i panni tra un balcone ed un altro nelle strette viuzze di Napoli. Una volta posizionata nella mezzeria del seno la rete la si affondava e la si rialzava alla bisogna. Erano tutte pescherie feudali, con l’obbligo di pagarne i diritti nell’uso. Spesso affidate a famiglie. Piano piano perserò importanza, finendo che i diritti si paavano solo per i giorni di Venerdì e di Quaresima quando il pesce era più richiesto sulle tavole.
In verità esisteva anche un altro tipo di pesca da terra, una specie di coppo volante per catturare pesci per usare come esca nei palamiti e nelle calome. Si svolgeva a pochi metri dalla costa stendendo una rete orizzontale sul fondo e obbligando lo sciame di pesci a passarci sopra spaventandoli in modo opportuno lanciando pietre in acqua.
Girano voci che alcuni avessero addestrate le taccole (ciole) per pescare il pesce volando in alto e riportando la preda a terra. Di questa pesca non ho certezza.