di Armando Polito e Marcello Gaballo
La foto, gentilmente messa a nostra disposizione dall’amico Cosimo Napoli, fondatore del gruppo di Facebook ” Neviano – Abbazia di San Nicola di Macugno – Ecomuseo delle serre” , costituisce un prezioso documento non solo sotto l’aspetto storico ma anche sotto quello artistico e del costume.
Cominciando dal primo, la didascalia ci fornisce dati preziosi sulla cronologia e sul soggetto: Grande Laboratorio di fichi secchi diretto dal proprietario Sig. Rocco Miccoli Neviano (Lecce) Ottobre 1911 Fot. Cosimo Greco – Nardò.
Non tutti sapranno e pochi potrebbero pure immaginarlo che fino agli anni ’50 dello scorso secolo il fico1 ha rappresentato un prodotto di spicco nell’economia del Salento. Chi oggi ha più di sessant’anni e da piccolo ha avuto l’opportunità di trasferirsi con la famiglia per la villeggiatura in una casa di campagna (casìnu2) avrà un ricordo, per quanto vago, della raccolta giornaliera dei fichi, operata di solito dagli uomini, mentre alle donne era per lo più riservato il compito di spaccarli e di collocarli sui graticci (cannìzzi3) perché seccassero. Al tramonto del sole, poi, i cannìzzi venivano di solito trasferiti in un locale coperto o, comunque, protetti dall’umidità della notte. Il giorno successivo, dopo che i fichi erano stati rivoltati, venivano riesposti al sole e quest’operazione si ripeteva finché il processo di essiccazione non era completato, il che richiedeva che trascorresse un tempo variabile in funzione delle condizioni atmosferiche, ma, comunque, non inferiore ad una decina di giorni. Quando tutto il prodotto era perfettamente essiccato i fichi venivano lavati e riesposti al sole ad asciugare; dopo di che avveniva un’operazione di scelta: i migliori, di solito quelli di pezzatura maggiore, venivano richiusi con all’interno una mandorla e pezzettini di scorza di limone e sistemati verticalmente uno a stretto contatto con l’altro in grandi teglie rettangolari a bordi bassi (stanàti4); gli altri, per così dire di seconda qualità, trovavano la stessa collocazione ma in ordine più sparso e casuale; i più scadenti anche da un punto di vista estetico venivano messi da parte e venduti di solito allo stesso compratore che ogni anno si presentava sul finir dell’estate a ritirarli. I fichi usciti dal forno venivano poi sistemati in strati successivi nelle capàse5 interponendo foglie di alloro e spolverando in superficie un pizzico di cannella con la duplice funzione di aromatizzare il prodotto e preservarlo dall’azione dei batteri. Il compratore portava via, naturalmente per un prezzo più basso, oltre ai fichi superstiti all’approvvigionamento familiare, anche quelli prima avvizziti e poi seccati direttamente sulla pianta, che, (siccatièddhi6), caduti per terra, venivano raccolti dai ragazzini, felici di ricavare un gruzzoletto che oggi non sarebbe sufficiente nemmeno per una ricarica del cellulare…
Nella foto l’anonimo compratore ha già consegnato al Grande Laboratorio i fichi secchi che si avviano al confezionamento finale. Sotto i nostri occhi c’è una vera e propria catena di montaggio ante litteram in cui spicca in posizione centrale un grande piano di lavoro costituito da un tavolo a bordi rialzati presso il quale tre donne, sedute, sembrano intente a chiudere i fichi,alcuni dei quali appaiono già sistemati nello stanàtu visibile sul bordo meridionale del tavolo. Alle loro spalle un uomo con i baffi tipici dell’epoca è stato colto nell’atto di versare sul tavolo dalla canèscia7 i fichi da chiudere. Sullo sfondo due altre donne, in piedi, sembrano alle prese con dei fichi collocati in due stanàti e non destinati, probabilmente, ad essere chiusi. Altri stanàti vuoti sono poggiati contro il bordo occidentale del tavolo, mentre un altro è appeso al muro a sinistra, alle spalle di un uomo con i soliti baffi e con un’abbigliamento che lascia intendere che si tratti proprio del proprietario dell’azienda. Accanto a lui, sedute e lontane dal tavolo, cinque donne e due bambini che, probabilmente, facevano parte del suo nucleo familiare, anche se è impossibile stabilire i rapporti di parentela. Anche i personaggi ai piedi del tavolo, due uomini e due bambini, si direbbe che appartengano allo stesso nucleo familiare che rappresenterebbe, perciò, tre generazioni. Sull’estrema sinistra una bambina e una donna che sta sistemando i fichi nella canèscia di dimensioni più ridotte sembrano far parte del personale operaio; subito dopo, invece, la matrona seduta, col suo abbigliamento e, soprattutto, con la destra posata sulla canescia ci appare come la padrona, cioè la moglie del titolare.
Sulla destra, in posizione simmetrica, due altre operaie sedute hanno quasi finito di sistemare i fichi nelle rispettive canèscie, in una delle quali si vedono penzolare strisce di tela di rivestimento atte a garantire, insieme con le feritoie tipiche del contenitore, un’adeguata traspirazione impedendo la formazione di muffe (altro che additivi e conservanti…); l’altra canèscia, invece, si presenta chiusa, pronta a partire per la sua destinazione. Sull’estrema destra, poi, quasi estraneo alla sacralità del momento e quasi intimorito e nello stesso tempo attratto dalla presenza del fotografo, un ragazzo dall’abbigliamento molto casual.
L’abbigliamento molto curato (a parte quello del ragazzo che finisce per sembrare, pur nel suo atteggiamento enigmatico il più naturale di tutti) fa supporre una preparazione meticolosa in attesa del grande evento, cioè l’arrivo del fotografo per una ripresa che ha tutti i crismi di un’immagine pubblicitaria che, per essere efficace, non ha bisogno delle stranezze, delle allusioni e dei messaggi più o meno subliminali che contraddistinguono le analoghe immagini odierne: ne vien fuori un quadro fedele di un’impresa in cui il calore umano, la partecipazione e il reciproco rispetto dei ruoli erano i valori fondamentali. Oltre all’abbigliamnto anche le acconciature costituiscono una preziosa testimonianza del costume dell’epoca.
La mano del grande fotografo, poi, si nota, oltre che nella sapienza compositiva8 che facilita la lettura dell’immagine, anche nella cura del dettaglio, sicché non disturbano minimamente, anzi fanno parte integrante del “paesaggio” gli arbusti presenti in primo piano ai margini estremi. Qui, probabilmente per motivi di illuminazione, il processo produttivo viene “simulato” in esterni giacché è legittimo presumere che esso si svolgesse normalmente in locali chiusi, forse quelli retrostanti, come si intuirebbe dalla presenza quasi al centro del muro di una porta.
Questa foto ci ha restituito, sia pur vagamente, qualcosa dell’umanità di Rocco Miccoli, dei suoi familiari e dei suoi operai, nonchè di quella, non disgiunta dal talento professionale, di Cosimo Greco, il più noto fotografo neretino, del quale esistono ancora oggi molte foto (ne segue una) che ben figurerebbero nell’archivio Alinari.
Tutte le persone qui rappresentate sono certamente passate a miglior vita. La nostra speranza è che qualche lettore riconosca nella foto qualcosa di già visto e sia in grado, attraverso altre testimonianze fotografiche o ricordi tramandati dai genitori (e a questi, a suo tempo, dai nonni) di fornire notizie sui personaggi il cui nome ci è stato tramandato e, perché no, su qualcuno rimasto finora anonimo, per fortuna solo anagraficamente parlando.
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1 Dal latino ficu(m) di origine preindoeuropea, parallelo al greco sykon. La voce è stata molto prolifica: basta pensare a: fica [dal latino tardo fica(m), tenendo conto che già la voce greca prima citata poteva significare anche vulva], fegato [da un latino *fìcatum, variante del classico ficàtum, tratto dalla locuzione iècur ficàtum (in greco epar sykotòn)=fegato di animale ingrassato con i fichi], sicofante [sinonimo di delatore, dal latino sycophànta, a sua volta dal greco sykofàntes, composto di sykon=fico e fàino=mostro (nell’antica Grecia, il privato cittadino che, di propria iniziativa, denunciava alle autorità l’autore di un reato, all’inizio solo il contrabbando di fichi)], il neretino saccufàe (indica il rigogolo, un uccello ghiotto, più degli altri, di fichi) dal greco sykofàgos, composto da sykon=fico e faghèo=mangio.
2 Diminutivo maschile di casa; poi assunse il significato di casa di tolleranza e da questo quello di confusione.
3 In italiano canniccio, dal latino cannìcium=fatto di canne.
4 Deformazione di stagnàto (la voce regionale settentrionale stagnàta indica un recipiente di latta).
5 Per l’etimo vedi il post Capasòne è il capofamiglia, capàsa la mamma, capasièddhu il figlio del 3 settembre u. s.
6 Se esistesse, la voce italiana sarebbe seccatelli.
7 È il corrispondente femminile dell’italiano canestro, dal latino canìstrum, a sua volta dal greco kànastron, probabilmente da kanna=canna.
8 Oltretutto è uno dei pochi esempi di foto di gruppo, dal momento che in quegli anni le foto ritraevano solo gruppi familiari o singoli.
Bellissimo articolo e favolosa foto.
Complimenti!!!!!
“l’Armandu ole cu se ‘mmurtala…. e lu bellu ete ca nci riesce sempre!”
Grazie Armando di questa deliziosa presentazione anche per immagini!
Marcello, perché non hai messo il tuo nome prima del mio? Ti saresti beccato tu un pizzico di immortalità… Comunque, ringrazio anche a tuo nome.
Questo articolo ci riporta indietro nel tempo, e invita, con curiosità, a riproporre la sacra quotidiatità di un passato e a non dimenticare coloro che hanno lasciato nel nostro cuore il vero significato che si legge guardando questa foto del 1911: un calore umano, la partecipazione e il reciproco rispetto dei ruoli e l’accattivante desiderio di gustare infine, dopo tanta collaborazione il “gustoso frutto”
… Quasi una seduta assembleare di soci di una grossa multinazionale di oggi!
I fichi scarti e quelli raccolti da terra venivano comunque acquistati fino agli anni ’70 per farne ingredienti nei liquori
Mi sembra che i fichi di “risulta” venissero venduti a chi poi ne faceva alcool.
È, anzi, era così.