San Francesco nella pittura di Giotto
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Mi è sempre piaciuto immaginare S. Francesco d’Assisi e Giotto come due buoni amici che, tenendosi per mano, si avviano lungo le parallele di un messaggio destinato, più che a trasfigurare, a puntualizzare la parabola umana.
Se si parla di Giotto, infatti, scappa fuori subito S. Francesco e chi, viceversa, si muove alla ricerca di S. Francesco, si trova prima o poi faccia a faccia con Giotto.
Tutto questo, perché il francescanesimo ha trovato nella dimensione artistica di Giotto l’espressione più esatta e il pittore, assimilando la realtà del messaggio francescano, è pervenuto ad una fusione dell’umano con il divino; punto d’arrivo che per molti altri artisti è rimasto semplice stadio di ricerca.
Ci si trova immersi in uguale atmosfera, sia che si ascolti il “Cantico delle creature”, sia che, nella Basilica di Assisi, si assimili la narrazione pittorica di Giotto. Uguale limpidezza di ritmo, analoga chiarità di visione ci vincolano alla scoperta della verità, una verità che, mentre esprime il mistico, sottolinea l’umano, quasi a richiamare alle fonti prime di ogni evoluzione esistenziale.
S. Francesco è certo il Santo più rivoluzionario della storia della Chiesa, nel senso che il suo messaggio, esploso in un periodo di particolare crisi, sovverte, direi meglio mina alle basi l’edificio di una società che aveva costruito l’egoismo e la lotta sull’acquiescenza dei deboli e la malvagità dei forti. Una rivoluzione totalmente nuova, sia nello spirito come nei mezzi: distruggere edificando, lottare instaurando la pace, condannare perdonando. Praticamente, S. Francesco scavalcando le posizioni morali del suo tempo, richiamando ad una vita più vera, intesa nel migliore significato e, pur proiettandosi nel futuro, attinge ogni suo gesto dal passato, cioè torna alle origini dell’amore, uniformandosi pienamente al modello primo: Cristo. E la sua rivoluzione si compie nella calma, quasi nel silenzio, nella fedeltà di una missione ch’è poi umiltà di operato e semplicità di verbo.
E’ da ritenersi che Giotto abbia studiato a fondo S. Francesco, riuscendo ad assorbirne lo spirito compiutamente. Non si sa quale influsso abbia avuto il francescanesimo nella sua vita di uomo, giacché – a parte la leggenda fiorita attorno alla sua figura di guardiano di pecore – poco, quasi niente, si sa del suo travaglio umano; ma per quanto riguarda la sua vita di artista, non è azzardato ritenerlo un “impegnato francescano”. Anche lui, sia pure a suo modo e in un campo tutto diverso, attua la sua rivoluzione; anche lui, per cercare nuovi approdi, si volge al passato, creando in una semplicità di linee che ricorda l’istintiva purezza dei primitivi.
Scavalca la staticità dell’arte bizantina e inaugura un periodo di pittura viva, umana, senza esaltazioni drammatiche o esasperazioni scenografiche. L’uomo lo scopre nella semplicità degli atteggiamenti e, sempre dalla semplicità, riesce a cavare il concetto della santità.
Ci offre così la visione di un S. Francesco spiccatamente umano, un S. Francesco che non suggerisce una distaccata venerazione, ma incita alla confidenza, al rapporto diretto.
E anche quando la figura del Santo campeggia in successione di esplicazioni miracolose, nessuna frattura viene a stabilirsi fra il naturale e il soprannaturale: la figura del Poverello d’Assisi non si trasforma, non si complica e lo stesso accrescimento di alone mistico e di tensione lirica, risultano diagonali convergenti di una verità di essenza.
Giotto è l’artista che più a fondo ha cercato di rendere una dimensione religiosa che fosse, prima di tutto certezza di possesso. E a questa sua ricerca, meglio ancora convinzione, è giunto proprio perché ha camminato sulla scia francescana.
Unitamente a S. Francesco, Giotto non ha visto la fede come un termine astratto da cercare nel bagliore di rapide folgorazioni, ma come una naturale presenza, un qualcosa che è dentro l’uomo, prima ancora di manifestarsi attorno all’uomo. Non è perciò ricorso all’impalcatura di costruite visioni, né ha cercato di forzare gli accenti.
Come in S. Francesco l’opera di rinnovamento morale improvvisamente scopre una sua poetica, un lirismo intenso e profondo, per via di quel contatto diretto con la natura, riportata alla purezza primordiale della creazione, la pittura di Giotto, pur rimanendo distesa ed essenzialmente vincolata alla realtà, spesso sconfina nel simbolo, in virtù di una forza metafisica inconsciamente rimasta alle basi del dialogo.
Ho detto all’inizio che S. Francesco e Giotto li ho sempre immaginati come due buoni amici avviati sullo stesso itinerario, ma – a ripensarci – è più giusto immaginarli al megafono di una stessa verità, una verità che giorno dietro giorno, o meglio secolo dietro secolo, si è fatta sempre più scottante: la necessità che l’uomo ritrovi la sua essenza, la sua parte migliore. S. Francesco continua a lanciare il suo messaggio, chiamando fratello il sole e dialogando con gli uccelli, dando un’anima al vento e una mansuetudine al lupo. Giotto traduce in linee e colori il grande messaggio, con la purezza di chi crede senza richiedere prove.
E per noi, alle soglie del duemila, persi fra corse astrali e disintegrazioni atomiche, per noi che ci scopriamo sempre più macchine (1969!!!)* e ci avviamo a diventare robot, è un messaggio quanto mai necessario, un appello quanto mai urgente.
* La nota in parentesi è aggiunta da Nino Pensabene
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Questo articolo è tratto da “Il Santo dei Voli”, Anno XXIII, N. 7, luglio 1969, periodo in cui, grazie alla direzione di P. Eugenio Galignano, la rivista del santuario “San Giuseppe da Copertino” si era culturalmente arricchita, cioè al suo carattere prettamente religioso e devozionale aveva – pur conservando i principi di fondo – aggiunto quel tenore tematico-espressivo che le consentiva di affiancarsi alle riviste culturali dell’epoca. Noi (io e Giulietta), che in quel tempo operavamo a Roma, dirigendo “La Prora” e pubblicando sui giornali e sulle riviste artistico-letterarie più in auge dell’Italia intera, non ci sorprendemmo affatto quando P. Galignano ci invitò a collaborare; intendo dire che quanto eravamo in grado di offrire non ci sembrò potesse essere non pertinente alla linea programmatica della rivista. Certo, nonostante tutto, ricordo che per questo articolo Giulietta si pose il problema del linguaggio, di non dargli cioè un carattere eccessivamente critico – come il tema “Arte” invogliava- e mantenerlo invece in una semplicità espressiva dolcemente fruibile anche da una categoria di lettori “non addetti ai lavori”, quale poteva trovarsi fra i devoti di un santo.
Successivamente, P. Eugenio – che saluto con immutata stima – è stato chiamato all’alta carica di Presidente Internazionale della Milizia dell’Immacolata, fondata nel 1917 da San Massimiliano Kolbe. (N. P.)