di Armando Polito
L’apirenia, cioè la mancata formazione dei semi, è un fenomeno fisiologico, per esempio, nel banano; lo è anche nelle uve tipiche di certi vitigni (per esempio, l’uva sultanina), mentre è un’anomalia nei vitigni le cui uve sono normalmente fornite di semi, in quanto compromette il regolare accrescimento dell’acino.
Nella consumazione della frutta il seme obiettivamente costituisce un fastidio, probabilmente più della stessa buccia, che può essere eliminata più facilmente. Si poteva tollerare nei nostri schizzinosi tempi del tutto, subito e comodamente che un seme si permettesse di continuare a disturbare il nostro pasto? E poi: possiamo comportarci come l’uomo delle caverne che molto probabilmente nel mangiare un frutto ne eliminava i semi sputandoli a destra e a manca?
In attesa che l’ingegneria genetica ci consenta di cogliere frutti già digeriti, ecco, allora, il successo e la diffusione di sempre nuove varietà apireniche.
Sarebbe scorretto non dire, però, che tutto cominciò tanto tempo fa, un tempo molto più antico di quello cui pure risale la testimonianza di un agronomo di 1600 anni fa, Palladio Rutilio Tauro Emiliano (Opus de agricultura, III, 29, Teubner, Lipsia, 1898, pagg. 111-112):
De uva sine seminibus. Est pulchra species uvae, quae granis interioribus caret. Hinc efficitur ut summa iucunditate sine impedimento sorberi possit velut unum omnium corpus uvarum. Fit autem Graecis auctoribus hac ratione per artem succedente natura. Sarmentum, quod obruendum est, quantum latebit in terra, tantum findere debebimus et medulla omni sublata ac diligenter exculpta membra iterum divisae partis adunare et vinculo constricta deponere. Vinculum tamen papyro adserunt esse faciendum et sic in umida terra esse ponendum. Diligentius quidam sarmentum revinctum, quantum excisum est, intra squillae bulbum demergunt, cuius beneficio adserunt sata omnia comprehendere posse facilius. Alii tempore, quo vites putant, sarmentum frugiferum putatae vitis in ipsa vite, quam possunt de alto sublata medulla excavant non divisum et calamo adfixo alligant, ne possit inverti. Tunc opon cyrenaicon, quod Graeci sic appellant, in excavata parte suffundunt ex aqua prius ad sapae pinguedinem resolutum et hoc transactis octonis diebus semper renovant, donec vitis germina novella procedant. Et in granatis malis fieri hoc posse firmatur a Graecis et in cerasis. Opus est experiri.
L’uva senza semi. È bella quella specie di uva che è priva di semi. Da qui avviene che con sommo piacere senza impedimento il suo succo possa essere sorbito come sola essenza del frutto. Secondo gli autori greci avviene in questo modo, mentre la natura subentra attraverso l’artificio. Nel tralcio che dev’essere piantato dobbiamo fare uno spacco lungo quanto la parte che sarà interrata e, tolto e scavato tutto il midollo accuratamente, accostare i bordi e, dopo averli stretti con dei legacci, interrarlo. Affermano che il legaccio dev’essere fatto di papiro e che il tralcio debba essere così posto nella terra umida. Certi, legato accuratamente il tralcio per quanto è stato tagliato, lo conficcano in un bulbo di scilla che secondo loro favorirebbe in tutti gli innesti l’attecchimento. Altri nel tempo in cui potano le viti scavano il più possibile un tralcio a frutto della vite sulla stessa pianta, senza reciderlo, dopo averne tolto il midollo e lo fissano ad una canna perché non si pieghi. A questo punto versano nella parte scavata quello che i greci chiamano succo cirenaico preventivamente mescolato con acqua fino ad assumere la densità di mosto cotto e ripetono l’operazione ogni otto giorni finché non spuntano i nuovi germogli. I Greci affermano che lo stessa cosa può essere fatta per i melograni e per i ciliegi. Bisogna provare.
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