di Giorgio Cretì
In illo tempore, e anche dopo, la gente lavorava una giornata intera per due chili e mezzo di farina, appena per dare da mangiare ad una piccola famiglia; oppure, se aveva di che sfamarsi e possedeva qualche gallina, per dieci chili di crusca. Un salario in moneta non era previsto.
Così quando era stata tagliata la roccia per allargare la strada di San Vito, così quando era stata alzata la piazza del paese.
Prima la chiesa di San Giorgio era ad un livello più alto di quello della piazza, come tutte le chiese, e per entrarvi si salivano tre gradini di pietra di Cursi consunti dall’uso secolare. Quei gradini Buonafede Martano saliva di corsa con lo stendardo di San Giorgio che teneva inclinato fino a farlo passare dalla porta e innalzava subito dentro la chiesa, con la forza dei muscoli delle braccia. Uno stendardo che aveva l’asta lunga sei metri e che nessun altro era capace di portare in processione con il drappo spiegato al vento. C’era stato, invero, un altro più forte di lui, un certo Giorgio detto Cocculo, che riusciva a sollevare lo stendardo da terra da solo, addirittura con uno sgabello legato alla punta dell’asta, ed era entrato nella leggenda.
La piazza era stata riempita con pietre trasportate da specchie(1) di Cazzafarri, Vignaudhia e delle Urle, con traìne(2), per giorni e giorni.
Di fronte alla chiesa, addossate al magazzino(3) dei Rizzelli, erano ammucchiate alcune vecchie costruzioni e lì c’era stato l’ufficio postale, nonché un’aula per la scuola. C’era stata anche la bottega di mastro Raffaele Ncoppe, vinaio, e poi quella di mastro Umberto che aggiustava biciclette.
Ora noi conosciamo la piazza così com’è, squadrata e con un marciapiede in mezzo, ma era molto diversa una volta. A fianco delle vecchie case, vicino al cortile di Toitoi, c’era una cisterna con un ampio puteale in unico blocco di pietra, che spesso serviva da scivolo ai ragazzi.
Era una cisterna posseduta in comunione da cui più famiglie attingevano acqua; trasformata poi in pozzo perdente, ora raccoglie le acque del tombino sotto il mercato coperto. La comunità possedeva una serie di pozzi a limmiccu(4), scavati nella roccia, che trattenevano l’acqua di stillicidio, tutti raggruppati fuori dal paese; con magnifici e monumentali parapetti granitici sui quali c’erano i segni delle catene e delle corde che avevano tirato su i secchi pieni di acqua fresca per secoli di estati torride. Anche questi pozzi non esistono più perché amministratori animati da spirito innovatore li chiusero abbattendo i maestosi puteali e spianarono la zona. Reverenti verso gli antichi che li avevano scavati, ricordiamo i nomi del pozzo di Bonsignore e di San Giorgio, che erano i più profondi e difficilmente si asciugavano, e pensiamo a tanta storia cancellata impunemente a colpi di piccone.
A fianco della chiesa, dalla parte della sagrestia, c’era una cisterna che era circondata da un giardinetto di oleandri. Da essa veniva attinta l’acqua da benedire il sabato santo ed anche di questa non c’è più nessun segno. Il giardinetto è stato piastrellato e gli oleandri sono stati sostituiti da cipressi ai quali poi è stato dato un aspetto innaturale con il capitozzamento delle cime. Durante i lavori di piastrellamento, nei primi anni di amministrazione di don Pippi Guglielmo, si usava ancora remunerare i lavoratori in natura e la gente andava ugualmente a lavorare perché erano ancora anni di fame nera. Capomastro per la posa dell’impiantito era Giorgio Buffo e manovali Buonafede Martano, Uccio Maggio ed un ragazzo. Quest’ultimo aveva più fame di tutti. Ne aveva tanta che a guardarlo in bocca gli si vedeva la punta dei piedi, e lavorava quasi fisso presso una famiglia o l’altra per il solo pasto giornaliero che, in genere, consisteva di una frisella(5) da bagnare nell’acqua.
Il massetto per il fondo, come era pratica tradizionale, veniva preparato con detriti di tufo e calce che erano impastati con l’acqua sul posto.
La calce viva era stata curata, era stata spenta, in una fossa nella cantina del municipio, dove ora è installata la caldaia dell’impianto di riscaldamento e da lì veniva trasportata a spalla con i secchi da muratore sulla piazza.
Si scaricava una trainata di tufo, poi veniva aggiunta la calce necessaria e l’acqua e si pigiava il tutto a piedi nudi, come pigiare l’uva.
Ora, andando su e giù dalla cantina, il ragazzo, che era molto giovane, aveva adocchiato in un angolo certi sacchi di juta che stimolavano la sua curiosità. E scendi e sali e sali e scendi, alla fine si decise di farli notare ad Uccio.
“Io sono curioso di sapere che cosa c’è là dentro”, disse.
“E guardiamo”, disse Uccio poggiando in terra il secchio.
Il ragazzo, che era anche molto robusto, si avvicinò ai sacchi, ne prese uno per sollevarlo e portarlo verso la luce, ma il sacco era impregnato di umidità e non resse: il fondo marcio si staccò ed in terra si sparsero zolle di maccheroni ammuffiti.
“Sangue di Giuda”, disse il ragazzo, “e qua?”
“E qua?”, ripetè Uccio.
Si guardarono in faccia come per chiedersi vicendevole consenso. Tutti e due avevano pensato la stessa cosa. Presero la pala e riempirono i secchi di quelle zolle verdastre.
Quando giunsero sulla piazza e vuotarono i maccheroni nell’impasto Buonafede fece un salto indietro e smise di pigiare.
“Che cos’è?”, chiese.
“Pigia lì. Pigia lì”, dissero tutt’e due entrando anche loro a pestare.
“Siete impazziti?”, disse Buonafede.
Dovette per forza accorgersene anche mastro Giorgio che, mollato un mattone che aveva in mano, saltò loro addosso e li riempì di improperi.
“Che cosa avete combinato? Volete forse andare in galera?”.
“Ma che galera e galera, disse Uccio, non vedi…..!”
“Dai, dai, disse mastro Giorgio, pestate in fretta che mettiamo tutto sotto. Qui rischiamo di finire tutti in carcere. Tutti e quattro”.
Fecero in fretta l’impasto e lo stesero. Mastro Giorgio posò i mattoni e coprì i maccheroni che giacciono ancora lì.
Il ragazzo, se d’istinto, alla scoperta dei maccheroni, aveva pensato di metterli nell’impasto, ora che era tornato alla cantina cominciava a guardarli con minore ostilità e facendo, al contrario, una rapida riflessione, si figurava tanta grazia di Dio messa in pentola e cotta per essere mangiata.
“Non sono buoni nemmeno per le galline”, gli disse Uccio che aveva capito.
Presero la calce e la portarono sulla piazza, ma, mentre camminavano sotto il peso dei secchi, il ragazzo pensava ad un grande piatto fumante, profumato di pomodoro. Sua madre si sarebbe procurata la legna, a costo di rubarla, e lui sarebbe andato in giro dai vicini con un barattolo vuoto per elemosinare un filo d’olio.
“Senti”, disse mentre ritornavano alla cantina, “io me ne porto a casa un mezzo culacchio di sacco. Se sono buoni per le galline, glieli do, se no li butto”.
“Speriamo che non ci veda nessuno”, commentò Uccio.
Quando smisero di lavorare, infatti, il ragazzo prese il suo fondo di sacco e se lo portò a casa.
Il giorno dopo non si presentò al lavoro. Era rimasto a casa a mangiare, finalmente una volta, quanto gli era riuscito di mettere nello stomaco.
(1) Specchie, mucchi di sassi, in questo caso, di bonifica dei terreni coltivati.
(2) Traìne, carri agricoli.
(3) Magazzino, luogo di raccolta del tabacco essiccato; la concessione ai Rizzelli (Ortelle) fu revocata in periodo fascista perché l’avvocato Enrico non volle prendere la tessera del partito.
(4) Limmiccu, stillicidio.
(5) Frisella, pane secco a lunga conservazione.
Le foto sono di Giorgio Cretì.
(“il Rosone” – Anno IX n. 1, 1986)
Cosa dire se non un elogio al compaesano Giorgio Creti,alcuni suoi personaggi li ricordo ancora e questo mi investe nei suoi racconti, specchi fedeli di realtà scomparse ma sempre importanti per il suo valore antropologico e storiografico riguardo la piccola comunità salentina.