RELIGIONE E MAGIA NELLA CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO
ORIGINE E DISCENDENZA DEI
CARMATI TI SANTU PAULU
Necessaria precisazione linguistica per evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Negli Atti degli Apostoli, in riferimento al viaggio di S. Paolo da Gerusalemme a Roma, dopo la descrizione della tempesta nelle acque di Creta e il successivo naufragio, si legge:
“Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: certamente costui è un assassino, se anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio”.
Su questa succinta nota degli Atti, la fantasia popolare ci aveva ricamato sopra, e stando all’ampliata versione assunta come testo tradizionale, S. Paolo non aveva scosso il braccio e fatto cadere la vipera nel fuoco, bensì l’aveva afferrata delicatamente con due dita e dopo averla compassionevolmente rimproverata chiamandola “fìgghia spinturàta ti lu piccàtu” (“figlia sventurata del peccato”) le aveva ingiunto di fare il giro dell’isola, chiamando a raccolta tutte le vipere e facendole convenire in massa accanto al fuoco. Torcendosi in spire precipitose la vipera si era allontanata, per poi riapparire pochi minuti dopo seguita da centinaia e centinaia di vipere che si erano fermate a pochi metri dal santo sibilando la loro minacciosa presenza.
Issùte ti lu ‘nfiérnu parìanu
e llu ‘nfiérnu purtànu intra lla occa
mpéssime an core loru si ticìanu:
ilénu tinìmu, uai a ccinca nni tocca!
Uscite dall’inferno sembravano / e l’inferno portavano nella bocca / cattive in cuor loro si dicevano: / veleno teniamo, guai a chi ci tocca!
Ma S. Paolo era ben più potente di loro. Fra gli urli di terrore dei suoi compagni di naufragio si era avvicinato sin quasi a toccarle, e tracciando un segno di croce aveva loro imposto, nel nome di Dio, di avvicinarsi al rogo e sputare nelle fiamme il dente velenoso.
Miràculu ti Ddiu istu e ttuccàtu
la zzoca ti lu male s’ìa spizzàta,
lu tiàulu si nn’ìa sciùtu scunfunnàtu,
la facce ti li sierpi ja cangiàta.
No cchjùi ssassìne cu ll’uécchi ti la morte,
ma criatùre ti Ddiu senza piccàtu,
criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte,
mmansùte comu àunu ‘mpena natu.
Miracolo di Dio visto e toccato / la corda del male s’era spezzata, / il diavolo se n’era andato confuso, / la faccia delle serpi era cambiata: // non più assassine con gli occhi della morte, / ma creature di Dio senza peccato, / creature incantate per una buona sorte, / ammansite come agnello appena nato.
Fatte appunto docili come agnelli, le vipere avevano obbedito: dopo avere strisciato in tondo ai piedi di S. Paolo per rendergli omaggio, a una a una si erano avvicinate al fuoco sputando denti e veleno. Commosso da tanta obbedienza, il santo le aveva benedette, e a simbolo delle stabilita alleanza
La tìpara cchiù rrossa ja zziccàta
tuttu cundùtu si l’ìa mpisa an cuéddhru
tànnule ssiéttu, bbona ncummitàta
la cota amm’occa, sistimàta a nniéddhru.
E cquannu poi pi’ mmare s’ìa ‘mbarcàtu
si ll’ìa purtàta a rretu, ca sapìa
quiddhru ca nn’ìa ffare, ja pinzàtu
pi cquale ràzzia ranne lli sirvìa.
La vipera più grossa aveva acchiappato / tutto compiaciuto se l’era appesa al collo / dandogli assetto, buona accomodata / la coda in bocca, sistemata ad anello. // E quando poi per mare si era imbarcato / se l’era portata dietro, perché sapeva / quello che ne doveva fare, aveva pensato / per quale grazia grande gli serviva.
Con la vipera attorcigliata al collo, S. Paolo era arrivato a Galatina, suscitando l’immediata ostilità degli abitanti, atterriti dalla poco rassicurante presenza della serpe. Pur essendo gente ospitale, pronta a fraternizzare con i forestieri, nessuno gli aveva rivolto la parola, anzi al suo passaggio se ne erano discostati precipitosamente, e tutte le volte che aveva fatto mossa di avvicinarsi a un uscio, questo gli era stato sbattuto sul muso.
Dopo aver percorso tutto il paese chiedendo invano la carità di un alloggio, sul calare della notte si era ritrovato in periferia, dove fra il diradarsi delle case s’incuneava il verde della campagna. Adocchiato un orto pieno di alberi, vi si era inoltrato, andandosi a rannicchiare sotta’a nn’àrvilu ti mbrufìcu (sotto un albero di caprifico) il cui fitto fogliame prometteva bbuénu ‘mbràcchiu a lla muttùra (buon riparo all’umido della notte).
A poca distanza dall’albero sorgeva una casa, nella cui muraglia s’inseriva un pozzo a due bocche: una prospiciente il caprifico per chi voleva attingere dall’esterno, e l’altra all’interno della casa per l’uso familiare. Sicché quando S. Paolo allo scoccare della mezzanotte si era messo a salmodiare, la sua voce, passando dalla bocca esterna del pozzo a quella interna, aveva svegliato gli abitanti, che allarmati erano corsi a spalancare l’uscio. Nel vedere con quanta fede quell’uomo pregava, si erano pentiti di non avere accolto la sua domanda di ospitalità e, superando ogni diffidenza e paura per la presenza della vipera, lo avevano voluto loro ospite per tutto il tempo che si era trattenuto a Galatina.
Grato per tanta carità, il santo aveva pensato di disobbligarsi, e poiché ranne era la ràzzia ca tinìa (grande era la grazia che teneva), prima di ripartire aveva operato tre miracoli. Per prima cosa aveva accarezzato i rami del caprifico, che da quel momento, alla produzione di profichi fòrniti, buoni solo per la caprificazione, aveva aggiunto una successiva maturazione di frutti commestibili; prodigio che, a quanto si raccontava, si era protratto per secoli e che, una volta seccato l’albero galatinese ed estinta la ‘progenie’ dei suoi polloni, sporadicamente e limitatamente a uno o due frutti per albero, e non del tutto commestibili, si riproponeva nelle campagne salentine. Un fenomeno botanico normalissimo, ma che naturalmente veniva attribuito alla benevolenza di S. Paolo, anzi a un rinnovarsi del miracolo, sicché il contadino che all’alba avvistava fra i rami di un caprifico un frutto edulo si sentiva in dovere di farsi il segno della croce e comunicare ai confinanti del campo: “Sta notte Santu Pàulu è bbinùtu acquai cu ppassìa e ss’à ffirmàtu sott’a llu mbrufìcu!” (“Questa notte S. Paolo è venuto qui a passeggiare e si è fermato sotto il caprifico!”).
Del secondo prodigio era stata protagonista la vipera: il santo, dopo averle raccomandato di moltiplicarsi, l’aveva buttata nel pozzo, dove, miracolo dei miracoli, anziché annegare si era trasformata in biscia acquatica. Da quel momento l’acqua del pozzo aveva assunto virtù particolari e chi, essendo morso da bestie velenose – serpi, tarantole, scorpioni – ne beveva nnu ursùlu curmu (un boccale colmo) vomitava subito il veleno ottenendo la guarigione. Dulcis in fundo, il santo aveva riunito tutti i componenti maschi della famiglia e “ll’ìa carmàti a nno ppatìre ilénu e a zzziccàre siérpi, sia iddhri ca lli fili ti li fili ti li fili”, cioè li aveva incantati trasmettendo loro il dono di essere invulnerabili al veleno e di potere catturare i serpenti, sia loro che i figli dei figli dei figli.
Nasceva così la definizione “Carmàti ti Santu Pàulu”, che, pur se a volte sostituita da quella più sommaria di “Sampaulàri”, si intendeva la più ufficialeo quanto meno la più rivendicata dagli interessati, in quanto chiariva l’origine dei loro poteri. Se all’appellativo carmàti, che già di per sé li attestava iniziati magicamente, si aggiungeva il fatto che a trasmettere tali virtù soprannaturali era stato S. Paolo, la loro quotazione – è il caso di dirlo – saliva alle stelle, tenendo anche conto della misura quasi ontologica che il popolo dava alla parola carmàre, la cui valenza oggettiva era però sempre in stretto rapporto con la figura di chi carmàva, o per meglio dire con le qualità spirituali che questi possedeva.
E qui ci sia consentito di sottolineare che ci stiamo riferendo a una significazione inerente l’antico dialetto e la cui derivazione è da ricercare nell’altrettanto arcaico termine dialettale “carma” (carme), valevole qui per incanto, parola magica, influsso attuante una dotazione spirituale. Precisazione necessaria ora che il dialetto non ha più cittadinanza nel vissuto linguistico e ha perso la sua originaria identità. Anche là dove affiora è ormai memoria incerta, spesso e volentieri imbastardito sia nella costruzione che nella resa fonica; soprattutto nella significazione, giacché si tratta di una lingua nata e sviluppata per esprimere un contesto di vita a noi ora completamento estraneo: venendo meno la misura oggettiva di quel particolare codice di comportamenti, peraltro determinati da un complesso patrimonio psicologico, anche l’atto verbale risulta sradicato e quindi difficile a reperire nella sua accezione effettiva.
Fin troppo abituati alla sintesi, non riusciamo a possedere il dialetto nella sua peculiarità di sfumature, e ciò porta a una frettolosa omologazione di termini, spesso espunti da un’arbitraria traduzione dall’italiano.
In seguito allo spopolamento delle campagne, in margine a un processo di urbanizzazione vissuto come rottura dello stato di subalternità e quindi non esente da uno spirito di globale rinnegazione del passato, soprattutto a causa di un condizionamento mentale determinato dai mass media, il dialetto si è trovato, direttamente o indirettamente, sotto processo, quasi che dal suo perdurare dipendesse la scomoda patina di retrività e ignoranza. E poiché non si poteva di colpo cancellarlo, in quanto non si era ancora padroni dell’idioma nazionale, si è cercato via via di modificarlo, di ingentilirlo, col risultato di creare una parlata che è misero compromesso tra la storpiatura dell’italiano e la falsazione del dialetto. Imbastardimento che, come già detto, ha oltretutto implicato una falsazione di significati, in quanto le parole più arcaiche, ritenute per questo più rozze, sono state del tutto cancellate e alle altre, oltre alla plasmatura ammodernatrice, si è insistito a dare significazioni in linea con il nuovo contesto di vita nonché con i termini italiani che si è creduto ne fossero gli equivalenti.
Ciò è accaduto appunto con il vocabolo “carma”, completamente abbandonato per ciò che concerneva la sua originaria significazione e arbitrariamente riassunto come equivalente dialettale dell’italiano “calma”. Sicché oggi carmàtu lo si fa bellamente derivare dal verbo calmare, chiamato ad assolvere indifferenziatamente a tutti gli stati o le proposte di acquetamento, e dimenticando così che anticamente il vocabolo dialettale non veniva svilito in semplice convenzione onnivalente, ma posto nel discorso in misura di appropriazione circostanziale. Ne conseguiva una nomenclatura lessicale caratterizzata da un largo uso di sinonimi, a ognuno dei quali si dava una valenza specifica, ossia un’applicazione differenziata: per comunicare che un dolore di denti o reumatico in genere si era calmato si usava dire “Lu tulòre m’à llintàtu” (“Il dolore mi si è allentato”); ma se lo stato dolorifico riguardava la sfera digestiva si passava a una diversa formulazione: “Lu ngruppu s’à ssuétu” (“L’ingorgo si è sciolto”). Il calmarsi di un accesso febbrile veniva focalizzato con “La frèe m’à scisa” (“La febbre è scesa”), ma se a calmarsi era il vento si diceva “Lu jentu è ccalàtu” (“Il vento è calato”). E continuando in questa minuta frastagliatura di appropriazioni, la bonaccia era “mare cuietàtu” (“mare acquetato”), un giorno senza alito di vento “sciurnàta sota” (“giornata immobile”) e il calmarsi del freddo “aria ndurcinàta” (“aria addolcita”).
Oggi, nel processo evolutivo di cui dicevamo, si è dato un colpo di spugna alla molteplicità delle aggettivazioni, e nel seguire la lingua italiana, in “calmare” si è trovata la scorciatoia per addivenire a una polivalente significazione: se carmàtu si dice in rapporto al dolore, carmàtu vale anche per il vento, e carmàta è la febbre, carma la giornata e carmu il mare. E ciò avviene anche in sede di dialogo evocativo, poiché rivolgendosi a una persona agitata non le si dice più come anticamente “Cuiétate, cuiétate” (“Acquietati, acquietati”) o se l’agitazione era esclusivamente spirituale “No tti mbilinàre” (“Non ti avvelenare”), ma si adopera un generico “Statte carma, statte carma” (“Statti calma, statti calma”). “Statte carmu” (“Statti calmo”) lo si dice anche al ragazzino irrequieto al posto del tradizionale “Statte sotu” (“Statti immobile”), raccomandazione che là dove nasceva preventiva, cioè in vista di una visita da compiere o di una permanenza in chiesa, veniva sostituita da un altrettanto tassativo “Sisci mansu” (“Sii mansueto”). Allo stesso modo, per mettere in evidenza la posatezza di un ragazzo che aveva superato l’aggressività dell’età puberale o un periodo di nervosismo in genere, non si diceva “S’à ccarmàtu” (“Si è calmato”) ma “S’à mmansùtu “ (“Si è ammansito”).
La contrapposizione tra mmansùtu e carmàtu, o più esattamente la sostanziale diversità di significato che anticamente si dava ai due vocaboli, la ritroviamo evidenziata nello stesso testo poetico riguardante la leggenda di S. Paolo, dove, proprio in uno degli stralci che abbiamo riportato, si puntualizza il processo di trasformazione delle vipere, scandito nella successione di due tempi, o per meglio dire chiarito nel suo andare dalla causa all’effetto. L’intervento del santo, in prima istanza, punta a rendere le vipere “criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte”, ossia le incanta, le strega, e poiché ciò avviene “pi’ nna bbona sorte” è chiaro che non si intende alludere a un fenomeno transitorio, a una temporanea sospensione della naturale aggressività delle serpi, ma a una totale trasformazione valevole per tutta la vita e perciò implicante l’azione di un influsso magico, tanto potente da riuscire a svellerle dal loro primiero stato di “figghe spinturàte ti lu piccàtu”.
La successiva connotazione, che ci presenta vipere mmansùte comu àunu ‘mpena natu”, non può perciò essere intesa come elemento rafforzativo del precedente concetto – il che renderebbe equivalenti i vocaboli carmàte-mmansùte -, bensì come consequenziale effetto di un processo in sé e per sé già concluso e che non viene maggiorato ma solo confermato dal comportamento. Pur nella concatenazione verbale, che a prima vista sembra unificare la formulazione del pensiero, la separazione dei due campi è netta, e quello che è ragguaglio fisico, o materiale che dir si voglia, subentra ma non si confonde col preavvenuto influsso spirituale.
Ci rendiamo conto che parlare di influsso spirituale in rapporto a delle serpi è semplicemente assurdo, ma propria o impropria che sia la definizione, riteniamo sia l’unica adatta a esprimere fedelmente la specificità che il popolo dava al vocabolo carmàre. E per convincersene basta riaffidarsi a quell’insuperabile chiave di lettura che è il referente antropologico, ossia osservare a quale dinamica di applicazioni il vocabolo sottostava nell’azione verbale del quotidiano.
L’occasione più emergente e più vincolata all’uso era la cresima, un sacramento al quale il popolo attribuiva grande importanza, tanto da giungere a reclamarne l’amministrazione subito dopo il battesimo, soprattutto quando le condizioni fisiche del neonato non lasciavano troppo sperare nella sua sopravvivenza.
In quel tempo, l’alto indice di mortalità infantile era realtà scottante, e ciò determinava non solo un’estrema sollecitudine da parte della Chiesa nell’amministrare i sacramenti, ma anche un senso di scrupolosa responsabilità nei genitori, che ritenevano loro stretto dovere provvedere tempestivamente e nella misura più larga possibile alla sorte eterna dei figli.
Il conferimento del battesimo si poneva come l’atto più urgente da compiere, e perciò quasi mai procrastinato oltre gli otto giorni dalla nascita; ma pur se vissuto con senso liberatorio, in quanto ipso facto assicurava la salvezza, questo non acquetava del tutto l’ansia di arricchire al massimo l’anima del figlio. l’aldilà beatifico, il popolo lo concepiva in una misura oseremmo dire dantesca, immaginando un paradiso sistemato a piani, la cui raggiungibilità veniva determinata dalle credenziali che l’anima poteva esibire al suo arrivo. Per gli infanti, queste si concretizzavano, oltre che nella loro innocenza, nel numero dei sacramenti ricevuti: ne conseguiva che un neonato semplicemente battezzato non avrebbe mai goduto quanto uno attisciàtu e ccrisimàtu.
A questo accaparramento di esclusivo ordine spirituale riguardante l’aldilà, faceva riscontro un’altrettanta premura di ordine temporale, sempre collegata al desiderio di un arricchimento interiore del cresimando ma che trasbordava dalle linee portanti della fede – più che altro si discostava da quelle che erano le intenzionalità ecclesiali nel conferire il sacramento.
Mentre la Chiesa basava il rituale sull’invocazione dello Spirito Santo e affidava l’opera trasformatrice unicamente all’azione della grazia santificante, il popolo dava molta importanza anche all’imposizione delle mani da parte dei padrini, visti non come li voleva la Chiesa in veste di garanti della fede, ma come ministranti chiamati a dispensare virtù a stretto appannaggio terreno. Se la mano consacrata del vescovo propiziava le benedizioni divine richiamando grazie “pi’ ricchjmiéntu ti l’ànima e ccutimiéntu ti l’eternitàte” (“per arricchimento dell’anima e godimento nell’eternità”), la mano del padrino catalizzava doni “pi’ ndutazziòne ti sta ita ti munnu a ddonca l’ànima camina cu lli piéti ti lu cuérpu, e ti la furtùna no nni pote fare a mmenu” (“per dotazione di questa vita nel mondo, dove l’anima cammina con i piedi del corpo, e della fortuna non può farne a meno”).
Religione e magia, come sempre, andavano a braccetto: all’esuberanza di fede, riscontrata nel desiderio dei sacramenti per il completamento dell’essere cristiani e in virtù di un interesse escatologico, si innestava l’inconfessato riemergere di pregnanze arcaiche, che sia pure in termini sfumati si ritrovavano in parallelismo con il rituale della cresima, imperniata sull’imposizione delle mani, gesto che per se stesso riportava ad ancestrali riti di iniziazione o trasmissione di poteri. Di qui la premura di scegliere come padrino o madrina di cresima una persona ricca di doti spirituali, virtù che proprio attraverso l’imposizione delle mani avrebbe trasmesso al figlioccio (o figlioccia), riplasmandolo a sua somiglianza.
Era ferma convinzione che per il cresimato, subito dopo il rito, iniziasse una fase di trasformazione caratteriale che lo avrebbe portato gradatamente a diventare la controfigura del padrino e quindi ad assorbirne anche la intùra, ossia ad avere un destino uguale al suo. Non a caso nella scelta del padrino ci si orientava prevalentemente verso una persona anziana: al senso di maggiore affidabilità o di più ampia panoramica circa la correttezza di vita nonché la fortuna che aveva avuto, si aggiungeva, fattore non trascurabile, la cospicuità degli anni, attestante il dono della buona salute. E ciò valeva soprattutto quando si trattava di cresimare un neonato in pericolo di vita, anzi in quel caso più che un anziano si cercava una persona addirittura vecchia, e alla quale non ci si peritava dal chiedere esplicitamente “Ncòddhrane puru l’anni ti ssignurìa”, ossia “Trasmettigli anche la tua longevità”. Postulazione che se per caso veniva seguita da un reale miglioramento fisico del neonato malato, assurgeva a incontrovertibile testimonianza dell’avvenuto assorbimento, immettendo i genitori in una sfera di assoluta tranquillità circa l’avvenire del figlio. Tanto è vero che a chi si rallegrava con loro per l’avvenuta guarigione usavano rispondere con sicurezza: “Nùnnusa éte écchiu e ll’à ccarmàtu an curmu”.
Si noti come anziché dire “l’ha cresimato” si preferisce dire “l’à ccarmàtu”, il che non va semplicisticamente inteso come banale sostituzione di termine, bensì come voluto scavalco della causa in favore dell’effetto, reso ancora più emergente dalla precisazione “an curmu” che dà misura quasi visiva dell’avvenuto travaso. Interpretazione che ritroviamo confermata dalla frase che si pronunciava allorquando si invitava qualcuno a far da nunnu (padrino) e che, nel riporto di ambedue i termini, annulla ogni sospetto di sostituzione puramente linguistica, attestando che crisimàre stava come azione o rito da compiere e carmàre come risultato da ottenere: “Aggiu ffare crisimàre fìgghiuma e ci nni ll’ài a ppiacìre nci tinìa mutu cu mmi ll’aggi a ccarmàre ssignurìa” (“Devo fare cresimare mio figlio, e se lo hai a piacere ci terrei molto che l’abbia a dotarlo vossignoria”).
Del resto non meno illuminanti risultano altre frasi di più ordinaria occasione, giacché era nell’uso comune sfruttare l’incontro di una persona anziana o particolarmente saggia per presentarle il bambino e, al contrario di quando si incontrava un sacerdote dal quale si pretendeva una semplice benedizione, chiedere specificatamente: “Mpòggiane la manu an capu ssignurìa ca sinti bbiunnàtu ti Ddiu e ccàrmamilu a ccore chinu” (“Poggiagli la mano sulla testa vossignoria che sei abbondato da Dio e trasformalo con tutto il cuore”). Né da tanta petizione venivano esentati li signùri (i signori), ai quali più esplicitamente si chiedeva: “Sulamente ssignurìa mi lu puéti carmàre pi’ nna bbona furtùna” (“solamente vossignoria lo puoi incantare per una buona fortuna”).
Varianti che danno ulteriore conferma all’intendimento della ‘trasmissione’, e che potremmo proporre e analizzare in tante altre sfumature se ormai non fosse del tutto superfluo. Il nostro discorso è nato all’unico scopo di fornire una precisazione ed evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.
GIULIETTA LIVRAGHI VERDESCA ZAIN, “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento (pagg. 27 – 36)
con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994
Pezzo magistrale, come tutti quelli estratti dall’opera di Giulietta e Nino!