di Lucio Causo
Rocco Serra era tornato in Italia per votare e vi aveva trovato la morte. Questa la drammatica vicenda di un emigrato salentino, il cui cadavere venne rinvenuto sui binari della ferrovia per Lecce, ad una diecina di chilometri dalla stazione. La macabra scoperta era stata fatta dal personale ferroviario, in transito nella zona.
A conclusione delle indagini, i Carabinieri dissero che il poveretto, dopo aver votato, si era messo in viaggio per riprendere il lavoro a Berna. Forse aveva aperto per errore uno degli sportelli del vagone nel quale viaggiava ed era precipitato nel vuoto battendo la testa sui “cozzi” che affioravano lungo la ferrovia. Era morto sul colpo.
Al momento della scoperta, Rocco indossava un paio di pantaloni a righe blu e una maglietta rossa. Nel suo portafoglio, oltre al passaporto, furono trovati due biglietti da centomila lire, sessanta franchi ed alcune monete. Dal documento di riconoscimento i Carabinieri erano giunti all’identità dello sfortunato emigrato. La notizia fu presto comunicata a parenti ed amici ed in paese non si parlò d’altro.
Rocco non aveva neppure 17 anni quando emigrò in Svizzera per trovare un lavoro più redditizio. Il padre era malato e non poteva lavorare in campagna, con gli altri contadini del paese.
Il giovane periodicamente lavorava sulla terra di don Antonio Catanese, portando a casa poche migliaia di lire, appena sufficienti per comprare il pane e la farina e per sopravvivere in seno alla famiglia. Non essendo contento di quello che guadagnava, decise di partire con lo zio Vito per lavorare all’estero.
Dopo sette anni trascorsi in Svizzera, si sposò con una giovane di origine tedesca che lavorava nella ristorazione. Non erano ancora passati due anni dal matrimonio quando la moglie rimase incinta. La nascita di Erika, una bimba che si rivelò molto aggressiva e scontrosa, non allietò il già difficile ménage famigliare. Dopo tanti sacrifici e tanta sopportazione, prevalsero le incomprensioni ed i rancori: Erika, all’età di diciotto anni, abbandonò la casa paterna ed andò a vivere con un tedesco separato dalla moglie.
Rocco, col lavoro di giardiniere che svolgeva nelle ville e nei parchi, fuori città, aveva messo da parte un piccolo gruzzolo ed era intenzionato a rientrare definitivamente in Italia, anche da solo, perché la moglie non voleva lasciare la città dov’era nata e cresciuta e dove lavorava da molti anni. E poi in un borgo non lontano da Berna viveva la figlia con i nipotini che andava a trovare ogni fine settimana e durante le vacanze.
Rocco, ogni tanto, nel periodo delle ferie, tornava in Italia per fare i bagni al mare con parenti ed amici. Era sempre triste e non amava parlare del suo lavoro e della sua famiglia, né voleva ricordare i tempi della sua infanzia. Nessuno conosceva la moglie e la figlia, neppure in fotografia. Rocco non ne parlava e se qualcuno chiedeva notizie cambiava discorso. Però guardava ammirato le donne del paese e i ragazzini che giocavano felici nella piazzetta, in campagna e al mare.
La partenza per lui era un momento difficile; soffriva molto quando doveva allontanarsi dalla sua terra e dai suoi compaesani per tornare in Svizzera. La mattina presto si recava alla stazione da solo perché non voleva farsi accompagnare dai parenti; saliva in silenzio sul piccolo treno locale che lo avrebbe portato in città; poi, dalla stazione di Lecce, sarebbe partito di filato verso il nord, per tornare in quel paese straniero che non aveva mai amato.
Durante la breve permanenza in casa della sorella più piccola, Rocco aveva sottoscritto un compromesso per l’acquisto di un pezzo di terra nella zona del mare. Poveretto, chissà quanto l’aveva desiderato, ma, ormai, non gli serviva più!
CUORE d’EMIGRANTE
“Tu che lasciasti il sole
e le case imbiancate di calcina
e l’idioma avito
masticato sulle braccia materne;
tu che affrontasti oceani ignoti
e lingue ancora più oscure,
da schiacciare tra i denti
memori di dolcezze abbandonate.
Tu cuore d’emigrante
con la tua segreta pena
da impastare nel lievito dei giorni,
tu che cantavi i melanconici stornelli,
li sciuri sciuri e zagare lontane
ti visitano in sogno
col roseo colorito delle donne,
orfane dei tuoi baci,
sedotte e abbandonate,
senza coltivare la speranza
d’essere un giorno
di te madri ed amanti .
Tu che nel vago limbo di parole
sussurri il tuo lamento
cercando come alleggerire la pena
di questo esilio coatto
accolto come giudizio inappellabile,
al quale, tuo malgrado,
i polsi porgesti
come d’ agnello muto.
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Che dire? Tra pagine storiche di emigrazione e poesia di commento e sostegno, rimango in religioso silenzio a contemplare la drammaticità che nella letteratura ha creato bellezza e liricità superba.
L’abbandono della propria terra per costrizione è un sopruso, è una violenza inaudita che i governi compiono sui propri cittadini mascherandola da fatalità sociale, da crisi collettiva che esige oboli inevitabili.
Dalla breve e intensa biografia del nostro caro Rocco Serra, l’autore fa emergere come la priorità della sopravvivenza propria e della famiglia imposta tra le righe dallo Stato sul vivere sereno e armonioso nella terra d’origine, è una bestemmia che si ripercuote di generazione in generazione, lasciando un’ombra nera nel cuore di tutti.
Rocco spera di fare fortuna in Svizzera, Rocco lascia per sempre la sua fortuna alle spalle, nel suo Salento. I due biglietti da centomila lire e i franchi ritrovati nel portafogli di un cadavere triste, sono un testamento morale per tutti noi: sbaglia chi crede d’imbonire il cuore con il pane perchè quello non obbedisce ad altra legge che non sia la sua, perchè quello non accetta di vivere in altro posto se non in quello che l’ha partorito.