di Giovanna Falco
A Lecce, nella chiesa di Santa Maria del Carmine in piazza Tancredi, è custodito l’altare di San Michele Arcangelo, realizzato nel 1736 da Mauro Manieri e le sue maestranze. È una delle opere più interessanti per la storia dell’arte leccese, perché il suo artefice l’ha progettata e realizzata nella sua totalità.
L’altare in pietra leccese è situato nella prima cappella a destra entrando nella chiesa. Sui due pilastri laterali che delimitano la nicchia, sono murate due epigrafi inneggianti a San Michele Arcangelo[1]. Vi si ascende da due gradini, sul piano di calpestio si apre una botola coperta da una pedana di legno. Il sarcofago bombato, decorato con volute, è delimitato da due busti di angelo.
La mensa si articola in tre gradi finemente intagliati. L’ancona convessa è contenuta tra due stipiti costituiti da brevi pilastri, scolpiti con decorazioni barocche, e sormontati da capitelli con foglie di acanto. Su questi poggiano le cariatidi scolpite a tutto tondo, raffiguranti a sinistra la Superbia e a destra l’Ambizione. Le due figure, incatenate, sono abbigliate con una semplice tunica, forgiata con panneggi molto movimentati, e indossano un copricapo che funge da appoggio ai capitelli sovrastanti. Questi ultimi presentano le stesse decorazioni dei capitelli delle paraste che racchiudono l’edicola ovale con San Michele Arcangelo: foglie di acanto sormontate da rosette. Alla base delle paraste, articolate verticalmente in tre gradi, due coppie di putti innalzano armature vuote, complete dei loro accessori e sormontate da croci.
L’edicola è racchiusa, alla base da tre testine di putti, due laterali e una centrale, in alto da due decorazioni angolari, formate da una rosetta contornata da foglie. Sui capitelli è posata una cornice mistilinea che funge da elemento di raccordo tra i due ordini dell’altare: al centro sono seduti due putti separati da due palme che s’incrociano. Il fastigio, più stretto e arretrato rispetto al settore sottostante, termina con una breve cornice mistilinea, composta da un elemento centrale curvo e sormontata da una testa di angelo. Al di sotto è ubicata un’edicola, cinta da una composita cornice che racchiude un dipinto raffigurante il Redentore. Ai lati dell’edicola sono presenti due sculture a tutto tondo raffiguranti angeli seduti e rivolti verso di essa. La composizione è delimitata da due volute, le cui estremità inferiori sono forgiate a guisa di busto di angelo. L’edicola centrale ospita la pala ovale con l’altorilievo di San Michele Arcangelo, racchiusa in una cornice lignea. Sotto la scritta“QUIS UT DEUS”, è ritratto il Santo con la spada sguainata, nell’atto di trafiggere il drago. Il manufatto è stato descritto nel Settecento come un’«effice di creta cotta e messa in argento che sembra di argento in pietra, opera degna del signor D. Mauro Manieri»[2]. Le analisi di laboratorio, eseguite durante il restauro dell’opera, hanno rilevato un «assemblaggio di vari materiali, dal sughero alla terracotta alla cartapesta»[3].
Per quanto le sculture siano scolpite con uno stile riconducibile al barocco romano e risalgono al 1736, l’apparato iconografico dell’altare si rifà a una concezione già riscontrata a Lecce nella facciata della basilica di Santa Croce, dove Marcello Fagiolo e Vincenzo Cazzato suppongono che le decorazioni alludano alla vittoria della Fede sugli infedeli [4]. Nell’altare del Carmine, la Superbia e l’Ambizione sono incatenate e spogliate delle armature simboleggianti il loro potere. Queste ultime sono state conquistate dall’Autorità celeste, rappresentata dai putti che le sostengono e dalla croce sovrastante. Così come nel Carmine le due statue sorreggono la sezione superiore dell’altare, destinata al Redentore e ai suoi messaggeri, in Santa Croce sui telamoni (allegoria degli infedeli) ricade tutto il peso della Fede, rappresentata negli ordini superiori della facciata. È la stessa foggia che si riscontra nelle due coppie di cariatidi, poste ai lati del portone di palazzo Marrese, in piazzetta Ignazio Falcomieri a Lecce. Nel Carmine, inoltre, si nota il forte contrasto tra la posizione scomposta delle figure inferiori e la serafica tranquillità degli angeli di fianco al Redentore. Un altro elemento già riscontrato nel Cinquecento a Lecce, in porta Napoli e sul Sedile, è l’armatura vuota, da interpretare come trofeo delle vittorie conseguite da Carlo V. Questo elemento ricompare in seguito su porta Rudiae, realizzata nel 1703 e attribuita da Michele Paone a Giuseppe Cino[5]. Nel Carmine potrebbe rappresentare la vittoria dell’Arcangelo Michele sulle debolezze umane. Il tema della vittoria è trascritto anche nel testo delle lapidi inneggianti al Santo, da cui si rilevano le varie facoltà attribuitegli nel Settecento, e, allo stesso tempo, il monito nei riguardi di chi non lo venerava, già rappresentato dalle due cariatidi incatenate.
L’apparato iconografico dell’altare denota una regia unitaria, che non tralascia nulla al caso. L’unico elemento di difficile lettura è rappresentato dai due putti con le palme incrociate, poiché non è dato sapere se alludano al culto di San Michele o al committente dell’altare. Dalle fonti consultate, infatti, non è stato possibile evincere se l’altare fu commissionato dai frati, da una famiglia nobile o da uno dei due pii sodalizi che avevano sede nella chiesa: l’Oratorio degli Artisti e la Confraternita del Carmine. Sono riconducibili al committente gli autori del testo delle epigrafi: «pantal: diac:» e «d: laurent: iust».
San Michele Arcangelo, è ritratto nell’atto di trafiggere il Male, rappresentato dal drago. E’ la stessa iconografia con cui usualmente è rappresentato il profeta Elia, raffigurato anche nell’altare di fronte a quello di San Michele nel Carmine. Qui l’ovale racchiude la pala dipinta da Gian Domenico Catalano tra Cinque e Seicento. A differenza dell’altorilievo attribuito a Manieri, Lucifero è ritratto con sembianze umane. Si potrebbe leggere nella decisione di ubicare i due altari di fianco all’entrata della chiesa, un monito ai fedeli contro le forze del Male, o, viceversa, per chiunque entri nel pio luogo, la protezione dei difensori della Cristianità dal Maligno. Potrebbe, altrimenti, indicare l’importanza del culto dei due Santi nella comunità carmelitana. La centralità della figura del profeta Elia nell’Ordine Carmelitano è nota[6], non è altrettanto facile comprendere la devozione dei padri nei riguardi di San Michele. Nello specifico, per la comunità carmelitana leccese, è giunta testimonianza di un’immagine dell’Arcangelo Michele di legno indorato, acquistata, nel 1614 a Napoli insieme con altre cinque statue, per adornare l’altare maggiore[7]. Nella chiesa del Carmine si trova un’altra immagine del Santo: è un dipinto riposto nell’edicola superiore del sesto altare intitolato a Sant’Anna, ubicato nel transetto a destra[8].
La venerazione per San Michele Arcangelo si diffuse in Italia a causa della lotta iconoclasta che ebbe luogo nell’Impero d’Oriente tra il VII e il IX secolo: molti religiosi si rifugiarono in Occidente e trasmisero la loro dottrina alla popolazione che li aveva accolti. Il culto di San Michele Arcangelo, inoltre, fu imposto nei domini bizantini durante l’impero di Niceforo Foca (964-969), tra questi era annoverata Otranto, la cui diocesi era alle dirette dipendenze della chiesa di Costantinopoli. Riguardo alla situazione leccese, non ci sono giunte testimonianze dirette che attestano la situazione dell’epoca. Le uniche tracce pervenuteci risalgono al 1300 e riguardano la consacrazione a San Michele Arcangelo della chiesa degli Agostiniani, già dedicata a Santa Maria di Costantinopoli[9]. Tra Cinque e Settecento, inoltre, furono realizzate svariate effigi dell’Arcangelo Michele, riscontrabili sia su edifici privati, sia all’interno e all’esterno di alcune chiese[10]. Sono attribuite a Mauro Manieri altre quattro sculture raffiguranti San Michele Arcangelo: sono ubicate sulla colonna angolare di palazzo Panzera in via degli Ammirati; nella mensola centrale del portale di palazzo Marrese in piazzetta Ignazio Falconieri, dove due coppie di cariatidi, abbigliate come quelle del Carmine, sono scolpite ai lati del portale; sul fastigio, a sinistra, della chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo degli Olivetani (1716) e nella nicchia a sinistra del portale della chiesa di Santa Maria della Provvidenza delle Alcantarine[11].
Il motivo per cui molte immagini di San Michele Arcangelo risalgono ai primi anni del Settecento e ben quattro, oltre a quella nel Carmine, sono state attribuite a Mauro Manieri, verosimilmente dipende dal fatto che nel 1688 il Santo fu proclamato protettore generale del Regno di Napoli.
L’altare di San Michele Arcangelo è il frutto della maturità acquisita da Mauro Manieri nel corso degli anni. Il suo ingegno derivò da un’approfondita preparazione classica. Il diciannovenne Mauro Manieri fu definito dall’abate e letterato Domenico De Angelis, un «giovane di elevatissimo ingegno, e di molte aspettazione nelle lettere latine»[12]. Nell’atto di matrimonio, celebrato a Nardò nel 1710 dal vescovo Antonio Sanfelice, è scritto: «Clericus Maurus Manieri Utriusque Juris Doctor Lyciensis»[13]. Ulteriori notizie si apprendono da Nicola Vacca: fu «censore, dottore e matematico»[14]. Ricoprì la carica di censore, infatti, per l’Accademia degli Spioni, cui si aggregò giovanissimo producendo tre componimenti poetici in latino[15]. Mauro Manieri fu membro anche dell’Accademia dei Trasformatori e della colonia leccese della napoletana Arcadia, presso la quale assunse il nome di Liralbo[16]. Completò la sua formazione un soggiorno a Roma, dove conobbe personalmente i capolavori dei grandi protagonisti del barocco, tracciandone gli schizzi, cui s’ispirò al momento della progettazione delle sue opere[17].
Quest’assunto è facilmente riscontrabile mettendo a confronto il San Michele Arcangelo del Carmine con l’angelo posto a sinistra della Cattedra di San Pietro nella Basilica Vaticana, realizzata tra il 1657 e il 1666 da Gian Lorenzo Bernini e i suoi aiuti[18]. L’angelo berniniano è ritratto in un atteggiamento di scarto: posato su una nuvola, reca in mano una palma. Nell’opera di Mauro Manieri gli attributi iconografici cambiano, ma si riscontrano la posizione simile delle gambe, così come la stessa impostazione dell’ala a sinistra di chi guarda. Mutano le torsioni della testa e del braccio destro e non compare il braccio sinistro nascosto dal mantello. Riguardo alla scelta dell’altorilievo, e non di un gruppo scultoreo a tutto tondo, è evidente l’ascendenza dalla tipologia delle pale d’altare tipiche della produzione di Alessandro Algardi, ripresa in seguito, oltre che dai grandi artisti romani, da scultori di tutta Italia.
Il San Michele Arcangelo nel Carmine di Lecce, può essere considerato la summa di tutto il sapere del grande architetto e scultore settecentesco. Ai suoi tempi, il «signor D. Mauro Manieri» era considerato «eccellentissimo nel modello e architettura»[19]. Il cronista Francesco Antonio Piccinni, lo definì «Mastro celebre singolare (in) tal mestiere di modellare»[20].
Oltre alle tante opere architettoniche, realizzate a Lecce e in molti centri pugliesi, a Mauro Manieri è stata attribuita una vasta produzione scultorea lapidea, in cartapesta e in terracotta[21], ma non è dato sapere se fu realizzata direttamente dall’artista o su suo disegno. Si nota, infatti, una differente resa plastica tra le statue in pietra e le altre, così com’è evidente ad esempio, confrontando, nella chiesa del Carmine, l’altorilievo del San Michele Arcangelo e la statua, abbigliata con la medesima foggia, posta a destra dell’altare del profeta Elia, entrambi attribuiti a lui e datati 1736, e, ancora, con gli angeli dell’altare maggiore.
Si è scritto tanto su Mauro Manieri e le sue opere, ma ci sarebbe tanto altro da rintracciare e studiare, come, ad esempio: il soggiorno a Roma, il rapporto delle sue opere con la cultura napoletana e romana, i committenti, i rapporti con gli esponenti della cultura dell’epoca, il ruolo che ricoprì nelle accademie leccesi. Sta di fatto che è stato una figura fondamentale per la storia dell’arte salentina. In lui s’incarna il passaggio dal vecchio al nuovo modo di “fare arte”: l’artista non è più solo esecutore materiale di un disegno altrui, ma lo concepisce, lo progetta e lo realizza.
BIBLIOGRAFIA
Cfr. G.C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634, (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979); A. FOSCARINI, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929; V. LIACI, Opera di un architetto leccese il Palazzo Imperiali di Manduria, «Gazzetta del Mezzogiorno» 28 marzo 1957; L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964; M. CALVESI – M. MANIERI ELIA, Personalità e strutture caratterizzanti il Barocco leccese, Roma 1966; M. Paone, La Chiesa della Vergine del Carmine in Lecce, Cutrofiano 1970; M. PAONE, La vita e le opere di Mauro Manieri, estr. dagli “Atti del Congresso Internazionale sul Barocco”, Lecce 1971; M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974; M. PAONE, Palazzi di Lecce, Galatina 1978; M. PAONE, Lecce, elegia del Barocco, Galatina 1979; G. OTRANTO – R. RAGUSO – M. D’AGOSTINO, S. Michele Arcangelo. Dal Gargano ai confini Apulo-lucani, Modugno 1990; J. MONTAGU, La scultura barocca romana. Un’industria dell’arte, Milano 1991; B. PELLEGRINO (a cura di), Storia di Lecce. Dagli Spagnoli all’Unità, Bari 1995; A. BIANCO, Arredi e paramenti sacri, in C. PICCOLO GIANNUZZI (a cura di), Fonti per il Barocco Leccese, Galatina 1995; A. CASSIANO – V. CAZZATO (a cura di), Santa Croce a Lecce. Storia e restauri, Galatina 1997; L. MIOTTO – A. CASSIANO – G. FALCO, San Michele Arcangelo nella chiesa del Carmine a Lecce, in «Kermes», 62, Firenze 2006, pp. 23-41; AA.VV., La scultura in cartapesta. Sansovino, Bernini e i Maestri leccesi tra tecnica e artificio, Milano 2008.
*La ricerca, realizzata analizzando le sole opere letterarie e il manufatto, è stata svolta in occasione della stesura delle Note storiche pubblicate in L. MIOTTO – A. CASSIANO – G. FALCO, San Michele Arcangelo nella chiesa del Carmine a Lecce, in «Kermes», 62, Firenze 2006, pp. 23-41: pp. 24-25. L’autrice l’ha espressamente rielaborata in occasione della pubblicazione in Spigolature Salentine.
[1]Nell’epigrafe a sinistra si legge: «D.O.M. / michael fidelum populorum / Excclesias exhilrat / romanorum custodit republicam; / christi amatem jmperatorê armat; / adversus barbaros; / christianos reddit victores, / eqs defendit, quibus fit inivria, / ab hominum calumniis / servos suos conservat; / ab inge^tibus maris fluctibus eos, / qui ipsum invocant, eripit, / fertilitates fructum terrÆ / suppeditat; consolatur pusillanimes / Ægrotos visitat; / fidejubet pro peccatoribus; / demonum impetus propulsat; / vitiorum flammas extinguit; / et nos inducit, / ut sanctitatem faciamus / pantal: diac: / mdccxxxvi». Nell’epigrafe a destra è scritto: «d.o.m. / agnoscant singuli / agnoscant omnes / s. michaelem arcangelum, / protectorem suum; / illum laudibus efferant, / frequentent precibus / votis amplectantur, / devotione inclinent, / et per emendationem vite, / lÆtificent, / non enim poterit / orantes despicere, / repellere confidentes, / declinare amantes, / quippe cum defendat humiles / pudicos diligat, / et innocentes, custodiat vitam / regat in via, Et perducat ad patriã / d: laurent: iust:».
[2] M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974, p. 88. È lo stralcio di un testo settecentesco consultato da Paone. Il manoscritto miscellaneo, composto nell’Ottocento, è conservato presso la biblioteca dell’Università degli Studi di Lecce ed è intitolato Le antichità salentine compilate in due parti. Rugge e Lecce. Parte I.
[3] A. CASSIANO, Cartapesta leccese, in AA.VV., La scultura in cartapesta. Sansovino, Bernini e i Maestri leccesi tra tecnica e artificio, Milano 2008, p. 117. I risultati dell’intervento di restauro, eseguiti dall’equipe di Lidiana Miotto, sono stati pubblicati in L. MIOTTO – A. CASSIANO – G. FALCO, op. cit..
[4] Cfr. A. CASSIANO – V. CAZZATO (a cura di), Santa Croce a Lecce. Storia e restauri, Galatina 1997.
[5] Cfr. M. PAONE, Lecce, elegia del Barocco, Galatina 1979.
[6] La congregazione si costituì nel XII secolo dall’unione degli eremiti del monte Carmelo in Palestina, che vivevano ispirandosi alla dottrina divulgata dal profeta Elia.
[7] Cfr. A. BIANCO, Arredi e paramenti sacri, in C. PICCOLO GIANNUZZI (a cura di), Fonti per il Barocco Leccese, Galatina 1995, pp. 191-231.
[8] Una statua dell’Arcangelo Michele compare anche sulla facciata della chiesa della Madre di Dio e San Nicola delle Carmelitane Scalze in Lecce (1631), il cui convento era alle dirette dipendenze di Santa Maria del Carmine.
[9] Giulio Cesare Infantino attribuisce l’atto a un evento miracoloso: un suono di tromba, ritenuto opera dell’Arcangelo, avrebbe fatto allontanare i fedeli raccolti in preghiera nella chiesa, prima che ne crollasse il tetto (Cfr. G.C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 102).
[10] Tra le prime, l’analisi stilistica riconduce al Seicento il bassorilievo posto su un mignano di un’abitazione in via Abramo Balmes. Riguardo ai luoghi sacri, oltre che nella chiesa di Sant’Angelo, furono eretti altari dedicati al Santo in Santa Croce, in Santa Irene e nella chiesa del Gesù. Tra Sei e Settecento, oltre che sulla facciata della chiesa delle Carmelitane Scalze, furono apposte statue del Santo sulla cuspide di Santa Maria degli Angeli (1620). Riguardo alla produzione scultorea all’interno delle chiese, si riscontrano esemplari sull’altare dedicato a San Michele nella chiesa degli Agostiniani e in quella di San Francesco della Scarpa. In quest’ultima la statua è nell’edicola superiore del primo altare a sinistra della chiesa recentemente restaurata. E’ più copiosa invece la produzione pittorica: oltre alle tele riposte negli altari intitolati al Santo, quadri che lo rappresentano sono: sull’altare del SS. Crocifisso in Santa Irene; sull’altare maggiore della chiesa di Santa Maria delle Grazie, opera di Oronzo Tiso; sull’arco trionfale della chiesa di Santa Chiara, all’interno della Chiesa Greca e nel dipinto della Vergine di Costantinopoli, l’arcangelo Michele e S. Caterina d’Alessandria di Gianserio Strafella, per l’altare della Vergine in Santa Maria degli Angeli.
[11] L’attribuzione delle statue sui palazzi privati è dovuta a Michele Paone (Cfr. M. PAONE, Palazzi di Lecce, Galatina 1978). La statua delle Alcantarine è riposta nella nicchia inferiore a sinistra del portale della chiesa commissionata a Manieri nel 1724 da Giuseppe Angrisani, portata a termine dopo la morte dell’architetto (Cfr. M: PAONE, La vita e le opere di Mauro Manieri, cit.); quella dei Santi Niccolò e Cataldo si trova in alto a sinistra del nuovo prospetto realizzato nel 1716, di cui Calvesi e Manieri Elia hanno proposto l’attribuzione allo stesso Manieri (Cfr. M. CALVESI – M. MANIERI ELIA, Architettura barocca a Lecce e in terra di Puglia, Milano-Roma 1970).
[12] M. PAONE, La vita e le opere di Mauro Manieri, estr. dagli “Atti del Congresso Internazionale sul Barocco”, Lecce 1971, pp. 7-8. La citazione è tratta dalla lettera del De Angelis al marchese Gio. Giuseppe Orsi
[13] Ivi, pag. 60.
[14] L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 385.
[15] Questo cenacolo culturale raccoglieva laici e religiosi, i cui interessi riguardavano la filosofia platonica, la geometria cartesiana, la storia municipale, le traduzioni classiche e la poesia. Alla stessa Accademia erano iscritti anche l’abate Domenico De Angelis (1675-1718), l’illustre letterato che ricoprì importanti cariche religiose a Roma e il poeta Pietro Belli, formatosi culturalmente a Roma e a Napoli, dove fu discepolo di Giambattista Vico. Il De Angelis fu protonotario apostolico, cappellano generale delle truppe pontificie, canonico della cattedrale di Lecce e vicario generale della diocesi gallipolina durante l’episcopato del vescovo Oronzo Filomarino (Cfr. G. RIZZO, La cultura letteraria: identità e valori, in B. PELLEGRINO (a cura di), Storia di Lecce. Dagli Spagnoli all’Unità, Bari 1995, pp. 711-829). L’Accademia fu fondata nel 1678 da alcuni eruditi, tra cui il padre di Mauro, Angiolo Manieri: «dottor fisico» e «padrone di una spezieria», «lettore pubblico di filosofia e professore di belle lettere» (Cfr. M. PAONE, La vita e le opere di Mauro Manieri, cit., pag. 7).
[16] Cfr. M. PAONE, La vita e le opere di Mauro Manieri, cit.
[17] Il 28 marzo 1957 la Gazzetta del Mezzogiorno pubblicò un articolo di Vincenzo Liaci, inerente a una fortuita scoperta: un epistolario di Mauro Manieri era stato adoperato per la realizzazione di una statua in cartapesta raffigurante S. Pasquale Baylon, conservata a Gallipoli. Le lettere attestano il soggiorno di Manieri a Roma (Cfr. V. LIACI, Opera di un architetto leccese il Palazzo Imperiali di Manduria, «Gazzetta del Mezzogiorno»28 marzo 1957).
[18] Il gruppo scultoreo, posto sull’abside della basilica romana, è una composizione di bronzo, marmi e stucco, realizzata per custodire la reliquia del trono ligneo di San Pietro.
[19] M. PAONE (a c. di), Lecce città chiesa, cit., pag. 87.
[20] M. PAONE, La vita e le opere di Mauro Manieri, cit., pag. 4.
[21] L’unica opera autografa è la lastra in rame, datata 1720, dov’è riprodotta la facciata del Seminario di Brindisi. Liaci asserisce che Manieri realizzò «molte altre statue disseminate nelle chiese salentine» (V. LIACI, op. cit., p. 37), ma non ne diede l’ubicazione, né pubblicò le fonti da cui aveva appreso la notizia e non specificò i materiali con cui furono realizzate.
Trovo molto interessante questo argomentato saggio sull’altare di S. Michele Arcangelo, straordinario manufatto barocco, uno dei “fiori all’occhiello” della chiesa del Carmine di Lecce.
Vorrei solo precisare alcuni dettagli: la tela cinque-seicentesca che si trova nel primo altare a sinistra entrando in chiesa e che è stata riadattata alla forma ovale della cornice settecentesca, raffigura il profeta Elia che ha abbattuto uno dei sacerdoti di Baal, secondo quanto scritto nell’Antico Testamento, libro primo dei Re, 18. Il parallelo che si viene a creare, data la posizione delle due opere, con Michele Arcangelo che abbatte Satana verosimilmente si svolge, sul piano simbolico, in riferimento alla vittoriosa lotta della Chiesa Cattolica contro il Protestantesimo, considerato a tutti gli effetti come un’eresia.
Difficilmente la tela può essere attribuita a Gian Domenico Catalano, date le profonde difformità di stile tra i dipinti noti del celebre gallipolino e questa tela, di un anonimo maestro, forse anch’egli salentino.
Per quanto riguarda la chiesa della Madre di dio e San Nicola, cioè la chiesa delle Teresiane Scalze, meraviglioso e quasi intatto scrigno d’arte seicentesca, essa, con il suo Convento di fanciulle nobili, nell’atto della fondazione fu effettivamente sottratta alla cura del vescovo, ma affidata a quella dei Padri Carmelitani Scalzi, dunque ai monaci di S. Teresa e non a quelli del Carmine.
Complimenti all’autrice per questo accurato intervento e per le particolareggiate descrizioni che conducono lo spettatore in un percorso dettagliato nella lettura di quest’opera che costituisce un felicissimo episodio di accostamento alla romanità barocca.
Evidenti, nell’opera sono le discrepanze stilistico-qualitative tra la scultura in cartapesta e quelle in pietra leccese, la prima caratterizzata da una morbidezza e da un movimento nei panneggi più fluido, concitato, accurato nella resa anatomica, le seconde più rigide, più approssimative nella resa dei dettagli, certamente d’effetto se considerate in una visione d’insieme.
Ancora complimenti per questo intervento!!!
Mi trovo daccordo con Valentina. L’ ovale raffigurante il profeta Elia è stato espunto dal corpus di opere del gallipolino Catalano, anche nella monografia curata da Galante.
Intervento accurato e competente.