di Armando Polito
Lascio immediatamente la parola a chi, ad onta del tempo trascorso (35 anni) dall’uscita dell’edizione italiana del suo Dizionario dei dialetti salentini, rimane imprenscindibile punto di partenza, riferimento e quasi sempre di ritorno per chi, soprattutto dilettante come me, si cimenta in questo difficile campo.
Volume I, pag. 193: “currìu…, imbronciato, stizzito, risentito… [corrisponde all’italiano corrivo=disposto a correre, facile a credere]; vedi cursu”.
A pag. 194 dello stesso volume: “stare cursu=stare imbronciato …[italiano corso=sofferto”]; vedi currìu”.
A pag. 941 del terzo volume: “cùrrere: m’aggiu cursu=mi sono offeso; stannu cursi=si trovano in cattivi rapporti; vedi currùtu, currìu”.
Intanto va detto che il neretino non usa cursu ma currùtu, participio passato di currìre usato sempre riflessivamente (sembra un dettaglio di poco conto, ma, per quanto dirò dopo, potrebbe avere la sua importanza) in espressioni del tipo cu tte m’aggiu currùtu (=con te mi sono offeso). Il Rohlfs registra a pag. 193 del volume I currùtu (ma non come voce raccolta sul campo, la qualifica come aggettivo e non propone alcuna etimologia) col significato di crucciato e currìre solo come variante di cùrrere (anch’essa non raccolta sul campo e col significato di correre, stillare, gemere). I rinvii tra cùrrere, currutu, cursu e curriu nonché la corrispondenza con corrivo fanno pensare che il Rohlfs colleghi tutte queste voci all’idea del correre.
Di corrivo riporto, come di consueto, dal Dizionario Treccani on line definizione ed etimo: “che corre o scorre, avventato nel fare qualcosa, troppo facilmente disposto, facile a cedere, tollerante, condiscendente, di persona che non ha sufficiente controllo dei propri atti; derivato di correre, ma la formazione dell’aggettivo non è ben chiara”.
La mancanza di chiarezza di cui si parla (e che è nota comune a tutti i vocabolari) è dovuta, anzi sarebbe dovuta al fatto che di solito gli aggettivi in –ivo utilizzano il tema del participio passato e non del presente o dell’infinito del verbo da cui derivano: per esempio: fattivo da fatto, lenitivo da lenito, etc. etc.
Va detto tuttavia che, se questa formazione statisticamente è dominante, non mancano esempi di asggettivi in –ivo derivanti dal tema del presente e non del participio passato, per esempio: sorgivo da sorgere e non da sorto; nulla vieta perciò di pensare che corrivo si sia formato da correre e che dal participio passato dello stesso verbo sia derivato, come in effetti è, corsivo. Alla luce di quanto appena detto currìu potrebbe derivare, perciò, da corrivo (con normalissima sincope di –v-).
Se sul piano strettamente fonetico l’etimo del Rohlfs va benissimo, secondo me suscita qualche perplessità, invece, su quello semantico. Anche se partiamo dall’idea base di correre e immaginiamo che colui che si è offeso con un altro è come se avesse premuto il piede sull’acceleratore dell’interruzione del rapporto, non si riesce a capire l’uso riflessivo di currùtu se non attribuendo al verbo un valore fattitivo (per cui cu tte m’àggiu currùtu equivarrebbe a con te ho fatto correre me e non con te ho corso me). Basterebbe, invece, una semplice ellissi per stare cursu [stare (come dopo aver) corso].
E se la nostra voce non avesse nulla a che fare con correre? Lo pensa Bruno Migliorini che in Lingua nostra, Sansoni, Firenze, 1985, pag. 14, partendo dalle voci napoletane correre e correrse attestate nel Basile e in altri autori col significato di indispettirsi così continua: “La chiave di questo correre è la medesima di corrivo e corrivare. Il punto di partenza è una forma corla metatetica di còl(l)era con assimilazione del nesso –rl– in –rr-attraverso le forme *corlare o *corlire, *corlivo, *corlivare…La forma verbare correre, oltre che napoletana, è anche sic. currìrisi=sdegnarsi, letteralmente incollerirsi e salentino currere (-rse)=offendersi (Voc. dei dial. salent. III, 941) col participio passato currutu=crucciato, letteralmente colleruto per incollerito e poi anche cursu=imbronciato(v. I, pagg. 193-194), che è anche siciliano e napoletano (curzo). Il Rohlfs fa riferimento all’italiano corso=sofferto, ma le altre forme rinviano a una storia diversa. La trafila dei passaggi è chiaramente ricostruibile nelle forme siciliane còrlera, *corlerìrsi, *currirìrsi e poi, con retrazione dell’accento, currìrirsi”.
Al di là della costellazione di asterischi cui il Migliorini è stato costretto a ricorrere per provare la sua tesi, debbo dire che in tutti i dizionari siciliani da me consultati non c’è traccia nemmeno delle voci date come non ricostruite: còrlera e currìrirsi. Anzi, quanto ho trovato sembrerebbe dare ragione al Rohlfs:
1) Vocabolario siciliano etimologico di Michele Pasqualino, Reale stamperia, Palermo, 1785, pag. 399:
Currìrisi, dicesi di colui che non sopporta le ingiurie dette per ischerzo o giuoco. (E’ l’unica voce che si avvicina al currìrirsi del Migliorini, che, in virtù della sua trafila, è stato costretto a conservare –r-, non potendo giustificare la sua caduta).
2) Dizionario siciliano-italiano di Giuseppe Biundi, Pedone Lauriel, Palermo, 1857, pag. 115:
Currivàrisi, crucciarsi, sdegnarsi.
Currìvu, cruccio, dispetto.
Currìvu, corrivo, volubile.
3) Nuovo vocabolario siciliano italiano di Antonino Traina, Pedone Lauriel, Palermo, 1868, pagg. 283-284:
Currìrisi,sdegnarsi, soffrir contro stomaco ogni piccola puntura, e mostrarlo nel volto: corrucciarsi, imbronciarsi.
Currivàri, suscitar cruccio, sdegno, dispetto.
Currìvu, dolore, dispiacere di torto ricevuto.
Currìvu, presto a credere o a fare, offeso, adontato, oltraggiato.
Cursu, il correre.
Cursu, da currìrisi: corrucciato, imbronciato.
Ad ogni modo, si tratti di collera e non di correre, posso concludere indegnamente dicendo che era predestinato il moto di rabbia che, comunque, si prova quando un problema rimane insoluto. Collera, infatti, è dal latino chòleram=bile, colera, a sua volta dal greco cholèra, da cholè=bile.
Ma, travasi di bile e rischi di infezione a parte, una cosa è certa: mai, chi ancora mi segue si rassegni!, mi farò currìu con l’etimologia… Alla prossima!