di Armando Polito
Dopo decenni di tecnologia sfrenata a supporto, col formidabile aiuto della pubblicità e dei suoi tentacoli sovente occulti, della creazione di bisogni, in gran parte inutili, da soddisfare unicamente per vanità individuale e collettiva dei consumatori e per sete di profitto dei produttori in un equivoco scambio di sovvenzioni, agevolazioni, incentivi statali e posti di lavoro (così pure io sarei stato imprenditore…), la crisi sta ridimensionando il nostro modo di concepire la vita e di sfruttare rapacemente le risorse di un pianeta sempre più in affanno per nostra colpa esclusiva. Mi vien da ridere quando sento affermare che l’effetto serra è dovuto in misura notevole ai gas di scarico non delle automobili ma delle mucche, come se l’allevamento intensivo lo avesse inventato qualche toro in preda ad istinti sessuali abnormi da soddisfare in breve tempo con un numero cospicuo di esemplari di sesso opposto…
Indietro non si torna; sarà così, ma lo speleologo, quando s’imbatte in un cunicolo che diventa sempre più stretto non è che continua imperterrito ad andare avanti finchè non vi resta incastrato: torna indietro. Ogni abitante del pianeta, nessuno escluso, si trova in questa condizione, aggravata dal fatto che la sua rinunzia ad andare avanti non serve a nulla, se anche tutti i suoi compagni di avventura su questa terra non prendono la stessa decisione.
Intanto stiamo a disquisire con sottili distinguo tra responsabilità individuale e collettiva, tra condizionamenti patenti e occulti, tra diritti e doveri, tutti legati al nostro più o meno misero (in più di un caso faraonico…) orticello.
L’idea di tornare indietro appare al mondo, agli stati, ai singoli individui come una dichiarazione di resa, peggio, di sconfitta. Non c’è da meravigliarsi se quella sacrosanta voglia sulla strada della conoscenza che, dicono, ci distingue dagli altri animali ha finito nel corso dei secoli per avventurarsi su sentieri pericolosi e per identificarsi nel nostro tempo sostanzialmente col successo e col profitto ad ogni costo.
Tutto ciò, ed è l’aspetto più grave, ha finito per creare nuove categorie morali, in primis la furbizia, la disonestà e l’ammanicamento, che hanno soppiantato le obsolete sacrificio, onestà, correttezza, merito. Il danno è duplice: il cretino o l’intelligente disonesto (in una parola, il furbo) che occupa un posto di comando non solo è un parassita che bara ma è anche responsabile del degrado morale di chi per ignoranza, stupidità, opportunismo o bisogno sta al suo gioco.
Se non avessi la certezza che nessuno degli spigolatori (me compreso… ma in questo caso non debbo essere io a dirlo) appartiene alle due categorie di individui appena descritte non starei a parlare oggi di una pratica antica continuata per buona parte del secolo scorso: lu rispìcu. Quali parole dovrei usare, infatti, per farmi capire da chi è abituato a nutrirsi, per lo più senza spendere un euro…, solo del cuore della forma quando le sue auguste papille gustative decidono di abbandonarsi all’ebbrezza del tale o tal altro formaggio, naturalmente firmato? E al quale la frutta vien servita già pulita, il che equivale a buttarne via almeno la metà? Ad essere sincero con simili personaggi non scambierei nemmeno una parola sul tempo che fa… ma sarei felice, giacché la prospettiva delle manette è piuttosto remota, almeno di vederli rovistare nella spazzatura a conclusione della loro onorevole carriera o darsi, come gli altri (pure per parecchi onesti sarà difficile cambiare le proprie abitudini…), al rispìcu.
Rispìcu è deverbale da rispicàre, a sua volta composto dal prefisso ri– esprimente ripetizione e da spicàre che nel dialetto neretino, usato da solo, ha ereditato il significato del latino classico spicàre=dare forma di spiga, il cui passivo (spicàri) significa prendere la forma della spiga (in epoca medioevale significherà, sempre riferito alla spiga, essere battuto): la voce dialettale ha assunto poi anche il significato metaforico di crescere, riferito a persona. In rispicàre, però, spicàre ha assunto il significato di raccogliere le spighe, sicché alla lettera rispicàre significa raccogliere le spighe per la seconda volta. Rispìcu, perciò, corrisponde all’italiano spigolatura, formato sempre dalla stessa base, il latino spica=spiga.
Saremo costretti, per sopravvivere, a tornare al rispìcu? La domanda vale miliardi di bond (naturalmente tedeschi…).
articolo bello, “educativo” e illuminante… come sempre! Tornare al ruspicu non sarebbe una brutta idea economica che non peserebbe eccessivamente su coloro che hanno improntato la loro vita, sin dall’inizio, ad essere più formica che cicala o che hanno ben sopportato periodi di magra. Inversamente per gli altri…