di Gianni Ferraris
Aspettando il concerto ci sediamo al bar. Fans arrivano alla spicciolata, si accorgono del registratore e aspettano quieti in disparte, per non disturbare.
Ha l’aria timida Mino, dice parole contate ma decise. E’ un ragazzo quaranticinquenne che ti guarda dritto negli occhi e ti racconta il suo essere, appunto, “cavaddhru malecarne”, la canzone che apre il suo album, il cavallo che non riconosce autorità al suo padrone, non vuole briglie né carri da trainare, piuttosto pretende di decidere da solo la strada da fare. E lui, il padrone, tenta invano di ammansirlo in ogni modo, carota e bastone.
E in fondo è anche “lu cane” dell’altra sua canzone, il randagio che sta bene come sta, anche se la libertà è costosa, spesso dura, non tutti sono disponibili a pagarne i prezzi, è quella cosa “… che a volte ti fa desiderare una ciotola piena, anche a costo di essere legato ad una catena e di dover leccare la mano al tuo padrone. Libertà è anche un colpo di tosse e una zecca in testa” mi dice Mino parlando del perfido, apparente benessere che ti rende schiavo. Libertà “è un boccone bollente… e un’immensa casa per chi casa non ha, tutta la piazza della città” così il suo testo.
Per capire le parole delle sue canzoni mi sono fatto aiutare a tradurre, ahimè non pratico il dialetto salentino, non mi venne in mente solo De Andrè, soprattutto George Brassens. Anche lui cantò “Je suis un voyou” [Sono un ragazzaccio]. Simile la vena anarchica, simile sguardo sul mondo.
E di Brassens, mi conferma Mino, ci sono echi nei suoi testi, come di cantautori nobili italiani, De Andrè, Paolo Conte, quelli che cantano il loro mondo prendendolo, se serve, contropelo, piuttosto che con la raffinata poetica di altri colleghi.
Parliamo con lui di questo suo primo album: “Scarcagnizzu”.
“Ma è poi vero che sei un anarchico?”
“L’anarchia, come diceva De Andrè, come la nomini non c’è più. Limitiamoci a lasciarla intendere”
“Appartieni al mondo, però nelle tue canzoni ci sono radici profonde come quelle dell’ulivo, cos’è il Salento?”
“Il Salento è uno stato d’animo, è lento lento lento, ma inizia a muoversi. Deve continuare a muoversi. Senza esagerare però, non deve perdere la sua magia”.
“Ma il tamburello cosa c’entra?” (Nella sua canzone Salento c’è un verso che dice “e llu tamburieddhru nu ccentra nnu cazzu…” n.d.r.)
“Il tamburello è rimasto per troppi anni il simbolo del Salento, occorre andare oltre. Questa è terra duce e mmara nello stesso tempo. E’ Emigrazione, vino, olio. Sono le feste patronali e le emozioni”.
“Scarcagnizzu- vento dal basso – si chiama il tuo primo CD, ma che diavoleria di titolo è?”
“E’ così chiamato un vento estivo che arriva improvviso, quando meno te lo aspetti spazza via quel che trova. Porta per aria immondizia e fiori. Alza le gonne delle signore. Impudico, inatteso, sfrontato e irridente”.
“Una canzone che a molti miei amici è molto piaciuta nel tuo album è “Arbulu te ulie” (albero di olive), nostalgia, ricordi, storia”
“Forse piace perché il Salento è quell’albero. Se gli olivi secolari avessero voce racconterebbero storie buone e brutte, storie d’amore e di ingiustizie, quelle dei padroni che sfruttavano i mezzadri. L’ho scritto pensando a mio padre, lavorava la terra d’altri ed ha sofferto angherie dei padroni del campo che si credevano signori dell’universo”.
“Tutto è cultura pure se cambia la temperatura, dici in una canzone”
“Va di moda etichettare tutto quanto, divertimento, marketing con la parola cultura”.
“E la pizzica?”
“Anche la pizzica è Salento, conservare memoria del passato è vitale e giusto, però forse occorre dire cose nuove. Il problema è quando la pizzica diventa moda. Il senso del tamburello che non c’entra nulla è proprio questo.”
“Parlami della festa patronale dei paesi, quella che canti facendo fotografie di quel che accade durante la processione, maggioranza e opposizione seguono la Madonna felici e contenti ”
“La processione è la parte religiosa, dietrola Madonnasfilano tutti quanti, anche i futuri candidati, sorridenti e tronfi che mostrano la loro religiosità spesso pelosa e ipocrita pur di mettersi in mostra. Vestiamoci bene e dimostriamo che “Simu lazzaroni, simu mbruiuni però tutti credenti”. Poi c’è l’aspetto laico delle bancarelle e delle giostre”.
“La malota e lu salanitru, altri animali”
“Lo scarafaggio e il geco, sono due animali bruttini, viscidi, a molti fanno ribrezzo, però non fanno male a nessuno, proprio come molte persone che vengono tenute lontane per il loro aspetto, o la loro appartenenza etnica, ma sono innocue. Giudicare il mondo dall’apparenza porta ad aberrazioni.”
“Racconti favole?”
“Mi piace farlo”
“La canzone Lu moribundu è un’altra metafora?”
“Macchè, sono ricordi di infanzia di vita paesana, c’è l’agonizzante e il paese intero che corre a portare solidarietà, sono flash di vita vissuta. Nella mia canzone ho enfatizzato. Il vecchietto non muore, siede improvvisamente sul letto e manda al diavolo tutti quelli che aspettano da giorni la sua dipartita”-
“Vanne alla Svizzera parla dei salentini che emigrano e quando tornano sono diversi, In un’intervista sostenevi che migranti si nasce.”
“E’ una canzone controversa, spesso fraintesa. Non è una satira sugli emigranti, anzi. Canto anche stavolta situazioni che ho vissuto. Quando l’emigrante tornava al sud per le ferie e si sentiva in dovere, spesso, di ostentare il benessere ottenuto. Una sorta di riscatto, per troppi anni aveva vissuto malissimo al sud, altrettanto male in Svizzera, però quando arrivava spesso faceva i discorsi tipici dell’arricchito, comprarsi la casetta al mare, addirittura prendersela con gli extra comunitari che stanno in Salento. Si innescava, meglio si ostentava, un razzismo alla rovescia. Succede che chi ha subito l’emigrazione sembra faticare a comprendere chi come lui emigra.”
“Progetti?”
“Scrivere, cantare. Far diventare un vero lavoro quello che era un passatempo, scrivo canzoni da quando avevo 17 anni. Da autodidatta.”
“Mi dicono che hai scritto anche una divina commedia”
“Nell’84 cercai di descrivere personaggi reali del mio paese incontrandoli nell’al di là. Non avevano più freni nel parlare, ormai erano andati e potevano liberamente raccontare sé stessi, il paese e il mondo. Situazioni che i miei compaesani saprebbero individuare benissimo”.
“Sei stato al Tenco Ascolta a Bari”
“Si, martedi scorso, un modo per uscire dai confini e farsi ascoltare”.
Scarcagnizzu, un album da ascoltare. Accompagnato da Emanulele Coluccia, sax soprano e percussioni, Valerio Daniele, chitarra acustica, Dario Muci, voce, Mino passa dallo swing al country, accompagna l’ascoltatore in atmosfere musicali piacevoli. Nelle parole si legge tristezza, rabbia e una dolce nostalgia. Per dirla con Mauro Marino “…Ama cantare largo, mischiando gli animali alle persone che tutt’uno sono…”. Stupenda scoperta dei “ragazzi” del Fondo Verri che hanno creduto, giustamente, in Mino. Ultima cosa e grande pregio, non c’è traccia di pizzica e di taranta nel disco.
Mino De Santis – Scarcagnizzu – Vento dal basso.
Edizione: Associazione Culturale Fondo Verri €. 10
Il cd è distribuito dal Fondo Verri, via Santa Maria Del Paradiso – Lecce
Tel: 0832 304522 327 3246985
LU CAVADDHRU MALECARNE
(testo e musica di Cosimo De Santis)
Camina te sbicu
Calpesta la strada
Con passo ribelle
Criniera scijata
La facce ncazzata
Di chi all’ultimo fiato
Nu cede alli corpi
Te lu scurisciatu.
“Tu sinti nu ciucciu,
nu ssi nu cavaddhru,
si tostu e puntusu
ma ieu mancu su beddhru
e ci nu cangi capu
nu tte llei sti difetti,
li morti te mammata
te fazzu a pezzetti “
E scocca e riscocca
La frusta sul dorso,
« Te quai nu me movu
Mancu pè llu cazzu
Nu ssuntu nu ciucciu
Ca tira e ca raja
E non svendo me stesso
Pè nna mangiata te paja”
“Ha no!? Chi t’à mmortu
nun b’oi cu tte moi ?
E mmo fazzu cu biti
le mazzate ca proi
e tira squajatu
tira stu trainu
ca lu mese ci trase
ghete santu Martinu.”
“Nu ttiru nu mollu
e mme poti scannare
ma ieu su malecarne
nu mme poti tumare
ieu caminu ci oiu
cu mme fazzu nu giru
ma te poti sgolare
lu trainu nu tiru.”
“Li morti ca teni
Na cu sbocchi lu sangu
Tie si nnatu cu tiri
E ieu cu tte mmantegnu
E camina animale
Che se fai il tuo dovere
Te lu cantu lu cantu
Te lu trainiere. »
« Te qquai nu mme movu
mancu cu lla banda
la mia volontà
è quella che conta
e ghe inutile ccerchi
cu mme piji cu llu bonu
io son malecarne
son quello che sono.”
“Ah poveru minchia
ci rriane alla staddhra
facia cu tte ngroppi
la meiu cavaddhra
ddra bella sciumenta
bianca e immacolata
ca alla fera te quannu
me l’aggiu ccattata.”
“Ieu su malecarne
Nu mme piace ffaticu
Ma fra lle sciumente
Suntu propriu nu mitu
E ddra bella sciumenta
Bianca e immacolata
Ci ho tte ticu lu ggiustu
Già me l’aggiu passata”
Cullu hai e cu llu hoi
Topu tante mazzate
Rriara alla staddhra,
misera tò sciurnate
ma pè lli malecarni si sa
ca la vita ghe breve
mò nda naddhru alla via
ca cu tira nun bole.
Complimenti!
Ieri aggiu mangiatu carne te cavallu!
E’ già un piacere leggere le interviste di Gianni, se poi l’intervistato è Mino…siamo a cavaddhu!!! Grazie ;)
Beh, il disco è da comprare a prescindere, per alcuni motiv: perchè è bello, perchè Mino è nu bonacciu, ma ha uno sguardo ironico di quelli che mandano a cagare il mondo storto e perchè costa poco. Non copiatelo, compratelo.
‘Cultura’ termine abusato? Questa, per esempio, è cultura.
Il cavallino delle strofe riportate è la messa in opera divertente dell’animo pesante del lavoratore ribelle, esasperato e talvolta incoscientemente presuntuoso. Mezzadri col sogno di poter finalmente decidere se fare o non fare, se seguire, tornare o perfino andare…contro corrente.
Sembra uno spettacolo tragi-comico enfatizzato ancor più dall’uso ruspante e colorito del dialetto salentino.Botta e risposta sottoforma di stornelli popolari dal sapore antico e moderno insieme.Bellissime scene in versi, magari ancor meglio in musica! Mino De Santis è un menestrello dei nostri giorni, custode di tradizioni, fatti e ricordi che hanno un sapore dolce-amaro, come lui stesso dice, ma condito di realtà e senso critico. Un invito all’ascolto e alla riflessione da non sottovalutare.
molto divertente ed originale traspare tutta la salentinità dell’autore e riporta con la mente a qualche tempo fà, quando per le vie dei paesi la mattina presto e la sera tardi si vedevano lunghe processioni di carri trainati da asini cavalli o muli e lu trainieri che vivevea in simbiosi con la bestia con cui parlava sciorinando un linguaggio molto colorito che l’autore ha ben descritto. Scenografie d’altri tempi che a volte rimpiangiamo sommersi e soffocati da questa modernità che ci stà logorando sopratutto nell’animo. Ancora complimenti all’autore ed un augurio di sempre maggiori successi.Lorenzo Martina