Il timo
di Armando Polito
Nome dialettale: tumu
nome italiano: timo
nome scientifico: Thymus capitatus Hofmgg. et L. K.
famiglia: Labiatae
Cominciando dalla fine, Labiatae è voce del latino tardo e significa provviste di labbra, dal classico làbium=labbro; La seconda parte del nome scientifico (capitatus) in latino significa capocchiuto (con riferimento ai fiori a capolino). Il nome dialettale, quello italiano e il primo componente dello scientifico sono tutti dal latino thymus o thymum, a loro volta volta dal greco thumos o thumon. La radice originaria è stata molto prolifica, se, come vogliono alcuni filologi, essa è stata la madre, in greco, di molte altre voci connesse tra di loro da una fitta rete di passaggi concettuali: thuo1=sacrificare, thuon=tuia, offerta sacrificale, incenso, thuos=offerta sacrificale fumante, sacrificio, suffumigio, thuìa=cedro, tuia, mortaio, thusìa=sacrificio, vittima, thumiào=bruciare, fare un sacrificio, thuo2 e thuìo=infuriare, smaniare, thuno=infuriare, thumòo=infuriare, thumòs=forza vitale, coraggio, ira; da quest’ultima voce, poi, il latino fumus=fumo. La variante greca thùmos oltre che significare, come il precedente thumos, la pianta, è sinonimo anche di escrescenza e, in particolare, designa anche il timo (organo); quest’ultimo significato sarà derivato più probabilmente come specializzazione di quello generico di escrescenza, nonostante sia innegabile la somiglianza dell’organo con l’omonima pianta1. Tutto ciò rende probabile che anche i latini tumère=esser gonfio e tumor=gonfiore (da cui l’italiano tumore) siano figli, nonostante l’assenza dell’aspirazione iniziale (presente, invece, in fumus), della stessa radice.
Sarebbe già sufficiente quanto fin qui detto quanto meno per ipotizzare un ruolo di primo piano per la nostra pianta tale da riassumere in sé funzioni sacrali, mediche, gastronomiche.
E le testimonianze antiche sembrerebbero confermare le risultanze etimologiche. Che il timo non fosse estraneo al processo di imbalsamazione presso gli Egizi ci autorizza a pensarlo la più esauriente e dettagliata testimonianza che abbiamo su tale processo, quela di Erodoto (V° secolo a. C.), che nel capitolo 70 del libro II delle Storie così dice2: “…svuotata ben bene la cavità addominale e lavatala con vino di palma, l’asciugavano con suffumigi2…”. Traduco con suffumigi la voce greca thumìama (dal thumiào prima riportato), che nello stesso Erodoto in altri passi della stessa opera assume il significato particolare di incenso e quello generico di profumo che brucia. Può darsi pure che il cadavere fosse suffumigato con un coktail di aromi, ma è molto probabile, comunque, che tra questi ci fosse pure, magari con un ruolo secondario, il timo. Mi chiedo se con i potenti mezzi di analisi oggi a disposizione qualche studioso non abbia già tentato di trovare tracce delle sostanze utilizzate per i suffumigi di cui parla Erodoto: con la convergenza del dato etimologico, di quello storico e di quello archeologico il cerchio si chiuderebbe.
Meno ambigue le notizie che sul nostro arbusto ci hanno lasciato autori successivi.
Plinio (I° secolo d. C.): “Cominciano a fiorire il timo e l’uva, alimento principale delle arnie3”; “Il miele non diventa bianco dove c’è il timo, ma è stimato adattissimo agli occhi e alle ferite4”; “Altrettante [sono le specie] del timo, il bianco e il nero. Fiorisce intorno ai solstiz; allora anche le api lo colgono per preparare il miele; quando esso fiorisce abbondantemente gli apicultori sperano in un buon guadagno. Teme la pioggia perché gli fa perdere il fiore. Il seme del timo non può essere raccolto, a differenza di quello dell’origano per quanto questo sia minuto. Ma che importa che la natura l’abbia nascosto? Si sa che è nello stesso fiore e che nasce seminandolo. Che cosa non tentarono gli uomini? In tutto il mondo si ritiene che il miele dell’Attica sia il migliore; dunque dall’Attica fu portato il timo e, come si sa, seminato col suo fiore. ma c’è un’altra difficoltà naturale, che il timo dell’Attica non sopravvive se non in vicinanza del mare. Questa era l’opinione antica su ogni specie di timo e che per questo non nasceva in Arcadia, così come si credeva che l’olivo potesse nascere se non entro 300 stadi dal mare. Sappiamo ora che nella provincia narbonese ci sono ora pure campi sassosi pieni di mirto, con questa sola rendita dal momento che da regioni lontane vengono migliaia di capi di bestiame per pascersi di timo5”; “In verità ai giardini e alle ghirlande di fiori si addicono soprattutto gli alverari e le api, cosa di principale profitto, quando va bene. Perciò per loro bisogna semire il timo…6”; “Bisogna che il timo sia raccolto in fiore e seccato all’ombra. Due sono le specie: il bianco, con la radice legnosa, che nasce sui colli e che è il preferito; l’altro più scuro e dal fiore nero. Si crede che entrambi giovino molto alla chiarezza della vista e come cibo e come medicina, lo stesso per la tosse che dura da parecchio tempo; che in elettuario con aceto e sale facilita le escrezioni, con miele impedisce il rapprendersi del sangue, attenua i catarri della gola applicato come cataplasmo con senape, come pure i disturbi dello stomaco e dell’intestino. Tuttavia bisogna fare uso modico di questi medicamenti perché sono riscaldanti, per quanto stabilizzino l’intestino. Se esso presenta ulcere bisogna aggiungerela dose di un denario in un sestario di aceto e miele, allo stesso modo se c’è doloreal fianco o tra le scapole o al torace. Curano i visceri con aceto e miele, pozione che viene somministrata anche nel caso di alienazione mentale e a chi soffre di bile. Viene somministrata pure agli epilettici che l’odore del timo risveglia dall’attacco. Dicono pure che è necessario che essi dormano sun un morbido giaciglio di timo. Giova anche a chi soffre di ortopnea e a chi respira affannosamente, nel caso di ritardo mestrualeo di aborto, bollito finché non si riduce ad un terzo e pure agli uomini contro la flatulenza con miele e aceto e se si ha il ventre o i testicoli gonfi o se lo richieda il dolore della vescica.Applicato ad empiastro col vino elimina i gonfiori e le pressioni, allo stesso modo con aceto il callo e le verruche. Sull’anca si applica con vino, nelle malattie articolari e nelle lussazioni con una pezza di lana cosparsa di olio, nelle ustioni con grasso di maiale. Nelle malattie delle articolazioni somministrano pure una pozione del peso di tre oboli in tre ciati di aceto e miele,in caso di nausea pesto con sale7”.
Columella (I° secolo . C.): “Ci sono quelli che farebbero cagliare col latte il timo pestato e filtrato con un setaccio8”; “Lo stesso territorio [scelto per l’apicultura] sia ricco di arbusti di bassa taglia, soprattutto di timo e di origano…9”; “In verità tra tutte le erbe che ho presentato e che per esigenze di tempo ho trascurato (incalcolabile, infatti, era il loro numero) è il timo quella che conferisce al miele un sapore particolare…10; ”Il timo, l’origano d’oltremare e il serpillo, come ho già detto nel primo libro, sono piantati con cura più dagli apicultori che dagli ortolani. Ma noi riteniamo che non debbano mancare anche negli orti per condimento (infatti sono adattissimi per certi cibi). Vogliono un terreno nè grasso nè concimato ma esposto al sole, tanto che nascono spontaneamente per lo più in territori marittimi su un terreno poverissimo. Sono piantati verso l’equinozio di primavera per seme o per piantine. È meglio tuttavia disporre le nuove piantine di timo. Quando sono state inserite nel terreno lavorato per farle attecchire più rapidamente bisogna pestare un ceppo di timo secco e dopo averlo ridotto così in polvere il giorno prima trattarlo con acqua e quando questa abbia assorbito il suo succo va versata sulle piantine interrate finché non le faccia correttamente aderire alla terra11”; “Prepara così il formaggio col latte acido: prendi una pentola nuova e forane il fondo; poi ottura la cavità che hai fatto con un pezzo di ramo e riempi il vaso di latte di pecora quanto più fresco possibile e gettacci dentro fascetti di verdi condimenti di origano, menta, cipolla, coriandro. LascIa riposare queste erbe nel latte in modo tale che le essenze vengano fuori. Dopo cinque giorni estrai il rametto concui avevi otturato il buco e fai uscire il siero; quando poi comincerà ad uscire il latte con lo stesso rametto ottura il buco e trascorsi tre giorni lascia uscire il siero, così come è stato detto prima, estrai e getta via fascetti di erbe messi a condimento, poi spruzza sul latte un pò di timo secco e di origano d’oltremare e quanto basta di porro tagliato a fette e rimescola; trascorsi due giorni fa’ scolare di nuovo il siero, ottura il buco, aggiungi quanto basta di sale e mescola. Copri con un coperchio e sigilla. Non aprire la pentola se non quando vorrai utilizzarne il contenuto. Parecchi mescolano col latte dolce foglie fresche di lepidio e dopo tre giorni lasciano scolare il siero, come abbiamo detto prima, poi aggiungono la santoreggia verde raccolta, poi anche semi secchi di coriandro, di aneto, di timo e di sedano pestati bene tutti insieme e mescolano con sale ben cotto passato al setaccio. Fanno il resto della preparazione come sopra12”. “Seccala [la cipolla] prima al sole, poi, dopo averla raffreddata all’ombra, messo sotto uno strato di timo o di origano d’oltremare, collocale in un vaso di creta e, versatavi la concia composta da tre parti di aceto e una di salamoia, mettici sopra un mazzetto di origano d’oltremare, in modo che la cipolla vada a fondo; quando essa si sarà imbevuta della concia, ripristina il suo livello nel vaso13.
La sinfonia degli aromi e dei sapori, anche se a qualcuno la ricetta di questa autentica bomba farà storcere il naso, vive nello stesso autore il suo momento più alto nella preparazione di quello che può essere considerato il simbolo della dieta mediterranea di un tempo, il morètum: “Metti in un mortaio santoreggia, menta, ruta, coriandro, sedano, porro coltivato o, se non ce l’hai, una cipolla verde, foglie di lattuga, foglie di ruchetta, timo verde o nepetella, poi anche puleggio verde e formaggio fresco e salato. Pesta tutto insieme e mescola con un pò di aceto pepato; quando avrai messo questo preparato in un piatto versaci dell’olio13”.
La presenza del timo come aromatizzante nella cucina romana antica (che a una prima lettura potrà sembrare poco raffinata) è confermata da Apicio che lo include in un numero notevolissimo di ricette, di cui qui, per brevità, qui non riporto nemmeno i riferimenti bibliografici.
La scienza, poi, ha confermato nel tempo tutte le proprietà (dalle antisettiche alle tonificanti, dalle vermifughe alle diuretiche, dalle antinfiammatorie alle espettoranti) che già gli antichi avevano scoperto in questo arbusto.
E oggi, quando nelle nostre grigliate estive spennelliamo con nonchalance l’arrosto con un rametto di timo imbevuto di olio e limone (o aceto), riflettiamo un attimo: stiamo compiendo un gesto antico (passato dal valore iniziale che forse era quello sacrale ad uno terapeutico e gastronomico) non ancora completamente cancellato dal nostro patrimonio genetico (da quello culturale, forse, sì…); per questo quel gesto, pur automatico, distratto e inconsapevole, ha la tenerezza, ma anche la sensualità, di una carezza…
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1Interessante, a tal proposito, per quanto limitata al colore, l’opinione di Celso (I° secolo d. C.), De medicina, V, 14b: “At thumion nominatur, quod super corpus quasi verrucula eminet, ad cutem tenue, supra latius, subdurum et in summo perasperum. Idque summum colorem floris thymi repraesentat, unde ei nomen est, ibique facile finditur et cruentatur; nonnumquam aliquantum sanguinis fundit, fere circa magnitudinem fabae Aegyptiae est, raro maius, interdum perexiguum. Modo unum autem, modo plura nascuntur, vel in palmis vel inferioribus pedum partibus. Pessima tamen in obscenis sunt maximeque ibi sanguinem fundunt” (E thùmion viene chiamato ciò che sporge sul corpo come una piccola verruca, sottile ai bordi, sopra più esteso, alquanto duro e scabro alla sommità. Esso qui presenta il colore del fiore del timo, da cui il suo nome e facilmente si spacca e sanguina, spesso abbondantemente; ha quasi la grandezza di una fava egizia, raramente è più grande, talora molto piccolo. Inoltre ora ne nasce uno solo, ora parecchi o sulle palme o sulle parti inferiori dei piedi. I più fastidiosi tuttavia si trovano sul sedere e soprattutto lì sanguinano).
2 Erodoto ci ha tramandato tre processi di imbalsamazione, in ordine decrescente di complessità e costo; qui si prende in considerazione il primo.
3 Naturalis historia, XI, 34: “Thymum et uva florere incipiunt, praecipua cellarum materia”.
4 Op. cit., XI, 38-39 :”Album mel non fit ubi thymum est, sed oculis et ulceribus aptissimum existimatur”.
5 Op. cit., XXI, 21-31: “Totidem et thymi, candidum ac nigricans. Floret autem circa solstitia; tum et apes decerpunt, ut augurium mellis sit; proventum enim sperant apiarii large florescente eo. Laeditur imbribus amittitque florem. Semen thymi non potest deprehendi, cum origani, perquam minutum, non tamen fallat. Sed quid interest occultasse id naturam? In flore ipso intellegitur satoque eo nascitur. Quid non temptavere homines? Mellis Attici in toto orbe summa laus existimatur; ergo translatum est ex Attica thymum et vix flore, uti docemur, satum. Sed alia ratio naturae obstitit, non durante Attico thymo nisi in adflatu maris. Erat quidem haec opinio antiqua in omni thymo, ideoque non nasci in Arcadia, cum oleam non putarent gigni nisi intra CCC stadia a mari. Thymo quidem nunc etiam lapideos campos in provincia Narbonensi refertos scimus, hoc paene solo reditu, e longinquis regionibus pecudum milibus convenientibus, ut thymo vescantur”.
6 Op. cit., XXI, 41:” Verum hortis coronamentis maxime alvaria et apes conveniunt, res praecipui quaestus conpendiique, cum favet. Harum ergo causa oportet serere thymum…”
7 Op. cit., XXI, 89: “Thymum colligi oportet in flore et in umbra siccari. Duo autem sunt genera eius: candidum, radice lignosa, in collibus nascens, quod et praefertur; alterum nigrius florisque nigri. Utraque oculorum claritati multum conferre existimantur et in cibo et in medicamentis; item diutinae tussi; in ecligmate faciles excreationes facere cum aceto et sale, sanguinem concrescere non pati e melle, longas faucium destillationes extra inlita cum sinapi extenuare, item stomachi et ventris vitia. Modice his tamen utendum est, quoniam excalfaciunt; quamvis sistunt alvum; quae si exulcerata sit, denarii pondus in sextarium aceti et mellis addi oportet, item si lateris dolor sit, aut inter scapulas aut in thorace. Praecordiis medentur ex aceto cum melle, quae potio datur et in alienatione mentis ac melancholicis. Datur et comitialibus, quos correptos olfactus excitat thymi. Aiunt et dormire eos oportere in molli thymo. Prodest et orthopnoicis et anhelatoribus mulierumque mensibus retardatis vel si emortui sint in utero partus, decoctum in aqua ad tertias, et viris vero contra inflationes cum melle et aceto et si venter turgeat testesve aut si vesicae dolor exigat. E vino tumores et impetus inpositum tollit, item cum aceto callum et verrucas. Coxendicibus inponitur cum vino, articulariis morbis et luxatis tritum ac lanae inspersum ex oleo, ambustis cum adipe suillo. Dant et potionem in articulariis morbis trium obolorum pondere in tribus cyathis aceti et mellis, in fastidio tritum cum sale”.
8 De re rustica, VII, 8, 7: “Sunt qui thymum contritum cribroque colatum cum lacte cogant”. Un’azienda casearia locale (http://bellimento.spaces.live.com) ha creato la Mediterranea (nella foto in basso con il relativo attestato conseguito in una prestigiosa manifestazione, anche se con partecipazione fuori concorso, con la seguente motivazione : “…per aver mantenuto intatto il prestigio della marzotica attraverso i pericoli della globalizzazione”), una ricotta alle erbe [variante della classica marzòtica in cui l’unica erba utilizzata è la sciugghiàrina (loglio, Lolium perenne L.)] in cui il timo la fa da padrone. Suggerisco ai titolari di provare ad inserire le erbe pure nel processo di cagliatura, questa volta per la produzione del formaggio, secondo le istruzioni di Columella. Chissà che non venga fuori un Mediterraneo super! Io mi offro a fungere da cavia per il primo assaggio…
9 Op. cit., IX, 4, 2: “Eademque regio fecunda sit fruticis exigui, et maxime thymi aut origani, tum etiam thymbrae vel nostratis cunilae, quam satureiam rustici vocant”.
10 Op. cit., IX, IV, 6: “Verum ex cunctis quae proposui quaeque omisi temporum compendia sequens (nam inexputabilis erat numerus) saporis praecipui mella reddit thymum”.
11 Op. cit., XI, 3, 39-40: “Thymum et transmarina cunela et serpyllum, sicut priore libro iam rettuli, magis alvaria curantibus quam holitoribus studiose conseruntur. Sed nos ea condimentorum causa (nam sunt quibusdam esculentis aptissima) non alienum putamus etiam in hortis habere. Locum neque pinguem neque stercoratum, sed apricum desiderant, ut quae macerrimo solo per se maritimis plerumque regionibus nascantur. Eae res et semine et plantis circa aequinoctium vernum seruntur. Melius tamen est thymi novellas plantas disponere. Quae cum subacto solo depressae fuerint, ne tarde comprehendant, aridi thymi fruticem contundi oportet atque ita pinsito illo pridie, quam volueris uti, aquam medicare; quae cum sucum eius perceperit, depositis fruticibus infunditur, donec eos recte confirmet”
12 Op. cit., XII, 8, 1-3: ”Oxygalam sic facito: ollam novam sumito eamque iuxta fundum terebrato; deinde cavum, quem feceris, surculo obturato et lacte ovillo quam recentissimo vas repleto eoque adicito viridium condimentorum fasciculos origani, mentae, cepae, coriandri. Has herbas ita in lacte demittito, ut ligamina earum exstent. Post diem quintum surculum, quo cavum opturaveras, eximito et serum emittito; cum deinde lac coeperit manare, eodem surculo cavum obturato, intermissoque triduo, ita ut supra dictum est, serum emittito et fasciculos condimentorum exemptos abicito, deinde exiguum aridi thymi et cunelae aridae super lac destringito concisique sectivi porri quantum videbitur adicito et permisceto; mox intermisso biduo rursus emittito serum cavumque obturato et salis triti quantum satis erit adicito et misceto. Operculo deinde inposito oblinito. Non antea aperueris ollam, quam usus exegerit. Nonnulli recentia folia lepidii cum dulci lacte in olla miscent et post diem tertium, quemadmodum praecepimus, serum emittunt, deinde compertam satureiam viridem, tum etiam arida semina coriandri atque anethi et thymi et apii in unum bene trita adiciunt, salemque bene coctum cribratum permiscent. Cetera eadem, quae supra, faciunt”.
13 Op. cit., XII, 10, 3: “Hanc prius in sole siccato, deinde sub umbra refrigeratam, substrato thymo vel cunela, componito in fidelia et infuso iure, quod sit aceti trium partium et unius muriae, fasciculum cunelae superponito, ita ut cepa deprimatur; quae cum ius combiberit, simili mixtura vas suppleatur”.
14 Op. cit., XII, 59, 1: “Addito in mortarium satureiam, mentam, rutam, coriandrum, apium, porrum sectivum aut, si id non erit, viridem cepam, folia lactucae, folia erucae, thymum viride, [vel] nepetam, tum etiam viride puleium et caseum recentem et salsum. Ea omnia pariter conterito acetique piperati exiguum permisceto; hanc mixturam cum in catillo composueris, oleum superfundito”.
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