di Maurizio Nocera
Ci fu un tempo in cui il luogo che noi oggi chiamiamo Gallipoli, veniva ancora indicato col nome di Anxa, parola che può ritenersi di origine messapico-cretese. Con tale nome la indicò pure Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis historia” [Storia della Natura], pubblicata nell’anno 77 della nostra era, dove scrisse: «… in ora vero Senonum Gallipolis, quae nunc est Anxa» [… inoltre sul litorale dei Sènoni Gallipoli, che ora è Anxa]. A sua volta, Pomponio Mela, nella sua opera “De Situ Orbis” [Del luogo della Terra], scrisse: «Urbs Graia Kallipolis» (Città Greca Gallipoli), dove “Kallipolis” sta per “Kalé Polis”, che in greco significa appunto Bella Città.
Ancora prima dei due scrittori latini, i padri della poesia e della storia dell’antica Grecia, fra cui Esiodo (VIII sec. a. C.), Ecateo di Mileto (VI sec. a. C.), ed Erotodo (V sec. a. C.), nelle loro opere scrivono anch’essi della Iapigia-Messapia. Nelle sue “Storie”, Erodoto, a proposito dello sfortunato viaggio del cretese Minosse il quale, una volta giunto in «Sicania» (Sicilia), perì di morte violenta, narra di un conseguente viaggio di numerosi cretesi che lasciarono la loro isola navigando alla volta della Sicilia per riprendersi la salma del loro re. Erodoto scrive: «Quando, durante la navigazione, si trovarono presso la costa iapigia, una violenta tempesta li avrebbe sorpresi e sbattuti contro terra: sicché, essendosi spezzate le navi, e non vedendosi più alcuna via di ritornare a Creta, fondata in quel luogo la città di Iria, ivi rimasero e divennero Iapigi-Messapi […] invece di Cretesi, e continentali da isolani che erano. Da Iria, dicono, fondarono le altre colonie…» [cfr.
Erodoto, “Storie” (a cura di Luigi Annibaletto), Mondadori marzo 2007, I Classici Collezione Greci e Latini, volume secondo, libro VII, 171, p. 1297].
Sulla Iapigia-Messapia, più particolari ci vengono forniti anche dall’altro padre della storia greca antica, Tucidide (V sec. a. C.) il quale, nella sua monumentale opera “La guerra del Peloponneso”, a proposito delle traversie marinare della flotta atenietese diretta a Siracusa, narra di un evento che è lecito interpretare come collegato al luogo Anxa-Gallipoli. Scrive Tucidide: «Ma i Siracusani, in seguito allo scacco subito con i Siculi, si trattennero dall’attaccare subito gli Ateniesi; intanto Demostene ed Eurimedonte, dato che le truppe raccolte da Corcira [Corfù] e dalla terraferma erano ormai pronte, attraversarono con tutto quanto l’esercito lo Ionio fino al capo Iapigio; partiti di lì presero quindi terra alle isole Cheradi, in Iapigia, dove imbarcarono sulle navi dei tiratori iapigi, circa centocinquanta, appartenenti alla stirpe messapica, e rinnovarono con Arta – che aveva tra l’altro procurato loro i tiratori, in qualità di dinasta del luogo – un certo vecchio patto di amicizia, per poi ripartire verso Metaponto, in Italia» (cfr. Tucidide, “La guerra del Peloponneso”, a cura di Luciano Canfora, Mondadori, I Classici Collezione Greci e Latini, Mondadori, giugno 2007, volume secondo, libro VII, 33, p. 969).
Si conoscono le frontiere entro cui era circoscritta l’antica Iapigia-Messapia, più o meno inscritte nel periplo della costa della punta del tacco d’Italia, con il confine a Nord-Est, verso l’attuale Bari, non oltre Egnazia, e il confine a Nord-Ovest, verso Taranto, non oltre Manduria. Le isole Cheradi di cui parla Tucidide non possono non stare che entro questi confini, tanto che al di sopra o al di là di essi, sarebbe stato impossibile al navarchi ateniesi Demostene e Eurimedonte imbarcare i centocinquanta tiratori di «stirpe messapica», come sarebbe stato impossibile incontrare il dinasta Arta, capo dei curioni dei Messapi, in quel momento residente nella potente città di Alyzia [l’ attuale Alezio], situata nel più vicino entroterra all’approdo marittimo Anxa-Gallipoli. Da ciò è possibile dedurre che le isole Cheradi citate da Tucidide altro non possono essere che le isole dell’arcipelago gallipolino, formato dalla città-isola Anxa-Gallipoli, dall’isola di Sant’Andrea e dagli isolotti Campo e Piccioni; nel tempo antico, accanto a queste isole citate esistevano altri isolotti affioranti, successivamente risommersi dalle acque del mare.
Dopo queste importanti indicazioni il nome di Anxa come pure il nome di Kalè Polis scomparvero per secoli e l’isolotto-città, dopo la definitiva vittoria dei Romani sui Messapi e l’imposizione della nuova lingua latina nella Iapigia, cominciò a chiamarsi – e da allora continua ad essere così – soltanto col nome di Gallipoli.
La pubblicazione in due versioni de “Il Libro Rosso di Gallipoli” [quella curata da Amalia Ingrosso con prefazione di Benedetto Vetere (Galatina, Congedo 2004), e quella curata da Elio Pindinelli (Gallipoli 2003)], con documenti che risalgono fino al XIII-XIV secolo, ci dà l’idea di quanto fosse importante, nel tempo antico, l’isola-città-fortezza di Gallipoli, per cui sono veramente tante le citazioni del suo nome, e in particolare del suo Castello.
Dell’importanza del Castello nei secoli, se n’era reso conto lo studioso Ettore Vernole, tanto che fu uno dei pochi a visionare e attingere fonti certe dal “Libro Rosso di Gallipoli”; libro che sicuramente avrà visto anche l’umanista Antonio De Ferraris, detto Galateo, il quale, il 12 dicembre 1513, scrisse una stupenda lettera – “Callipolis descriptio” [Descrizione di Callipoli] – a Pietro Summonte, suo sodale nell’Accademia Pontaniana di Napoli, dicendo che l’isola-città nella quale egli risiedeva in quel momento, aveva «tratto il nome dalla sua bellezza e non senza ragione. Fu città greca: ignoro donde Plinio abbia appreso che qui si fossero stanziati i Galli Sénoni. Questa città, invece, non si chiama Gallipoli, ma Callipolis come recano antichi codici» (cfr. Antonio De Ferraris Galateo, “Lettere”, nella traduzione e commento di Amleto Pallara, Conte editore, Lecce 1996, p. 97). E poco oltre il Galateo continua la sua epistola descrivendo l’ingresso della città: «Davanti al castello, che si erge sulla città, c’è un ponte che lascia congiungere i due tratti di mare, i quali rendono Callipoli non una penisola ma una vera e propria isola. Da quel punto la terra si riallarga a tondo, assumendo la forma di una padella. Il perimetro della città non è molto ampio; a occhio e croce non supera dieci stadi. Callipoli all’epoca in cui fu distrutta non era sufficientemente difesa né da mura né da macchine da guerra né da guarnigione.
Ora, invece, è validamente fortificata e dalla terraferma e dal mare offre di sé una vista superba, fiera e bellissima per la quale io penso che la chiamarono Callipoli gli antichi Greci» (op. cit., p. 98).
Oggi, guardando le antiche piante cartografiche (mi riferisco in particolare a quelle pubblicate nel libro dello storico gallipolino Federico Natali, “Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia” (Galatina, Congedo 2007), inserto iconografico tra le pagine 256-257), alcune della quali risalgono più o meno allo stesso periodo del Galateo, si vede come fosse Gallipoli nel ‘500-600. Le piante dell’isola-città prese in considerazione sono tratte da antichi dipinti conservati nelle chiese di Alezio e Gallipoli, che qui cito:
1. Particolare della tela ad olio di “S. Pancrazio”, del pittore Giandomenico Catalano, dipinta nel XVII secolo ed esposta nella Chiesa di S. Maria della Lizza ad Alezio;
2. Particolare della tela ad olio de “Il Vescovo Capece implora la protezione di S. Carlo Borromeo su Gallipoli”, anche questa tela è del pittore Giandomenico Catalano, dipinta nello stesso secolo ed esposta nelle stessa chiesa ad Alezio;
3. Particolare della tela ad olio della “Vergine e i Santi Eligio e Menna”, dello stesso pittore e dello stesso secolo, esposta nella sacrestia della Cattedrale di S. Agata a Gallipoli;
4. Particolare della tela ad olio di “S. Domenico”, dello stesso pittore e secolo, esposta nella chiesa di S. Maria del Rosario a Gallipoli;
5. Veduta dell’antico abitato di Gallipoli, dipinta dal pittore Luigi Consiglio nella seconda metà dell’800, attualmente esposta nel museo di Gallipoli.
Tutte queste tele hanno in comune un particolare: lo sguardo del pittore che dipinge è dalla parte del borgo nuovo, per cui l’abitato dell’isola-città evidenzia sempre e di primo acchito il Rivellino col Castello in contiguità, quindi il perimetro delle mura turrite con i fortini, i baluardi, i bastioni e i torrioni. In questi dipinti altro particolare interessante sono i ponti, non uno che congiunge la terraferma all’isola-città, ma due, il primo che va verso la città e il secondo che collega la terraferma al solo Rivellino. Un’altra pianta, sempre leggibile sulle stesso libro del Natali (tra le pagine 128-129) è quella denominata “Scenografia prospettica della città di Gallipoli” della fine del XVI secolo (tratta dal Coronelli): in questa veduta a volo d’uccello è visibile la struttura dell’isola-città-fortezza con i quattro torrioni del Castello, qui collegato attraverso una terrazza al Rivellino, quindi il perimetro delle grandi mura turrite intervellate dai fortini di “San Benedetto” e “San Giorgio”; i baluardi di “Santa Vennardia”, “San Domenico o Dell’ Annunziata” e “San Francesco”; le torri di “San Luca”, “Quartararo o degli Angeli”, “Sant’Agata”, “Purità”, “San Francesco di Paola o dello Scorzone” e “Bombarda o San Giuseppe”. Altro particolare interessante, su questa tela il pittore ha dipinto anche lo «Scoglio grande» più altri scoglietti, allora esistenti, oggi non più.
Tutto ciò sta a documentare l’esistenza del castello gallipolino sin da tempi antichi; sull’isola-città nel IV sec. a. C. vi abitò per un certo periodo anche il potente Archita, grande curione di Taranto e discepolo prediletto ed erede ideale del vate Pitagora.
Di tutte le antiche e moderne vicende del Castello di Gallipoli, ampiamente ne parla il libro di Ettore Vernole con freschezza di scrittura e di una straordinaria attualità, soprattutto nella descrizione dello stato del maniero.
Nell’ultimo capitolo, il XIII, Vernole scrive: «Dal 1857 il Castello aveva socchiuso gli occhi ad un letargo inonorato ch’ebbe apparenze di morte, al punto che, dopo il Sessanta [Unità d’Italia], per poco non fu venduto a privati per trenta o quaranta mila lire. […] Ma fu di quei primi decenni l’abbattimento dei baluardi e delle cortine della Cinta bastionata, nelle strutture elevantisi sul livello della strada perimetrale […] si volle giustificare la demolizione della Cinta bastionata che oggi (se ancora esistesse) sarebbe stata un Museo Storico, unico più che raro, pel turismo moderno. Ma non vuol essere, questa mia, una sentenza di condanna. / Il Castello, entrato nel Demanio patrimoniale dello Stato, sotto l’Amministrazione del Ministero delle Finanze, fu destinato a sede di Uffici Finanziari: vi si installarono man mano il Magazzino delle Privative, la Dogana, la Regia Guardia di Finanza, poi l’Ufficio del Registro, l’Ispezione Demaniale, l’Agenzia delle Imposte, e fra le mura che risuonarono di armature biascicaron le cifre burocratiche. / Abbattute le muraglie e i baluardi, con l’aria pura marina penetrarono in Città anche i miasmi del malcostume politico. […] Ultimo bagliore di opera durevole fu, nel terzo decennio dopo il Sessanta, la costruzione della galleria del Mercato Coperto sul canale-fosso che separava il Castello dalla Città: fu una di quelle opere necessarie nelle quali non sai trovare il punto di demarcazione tra la lode e la critica, fatto sta che essa formò un sipario dietro il quale la facciata solenne del Castello è nascosta al godimento dei nostri occhi. /
Contemporanea, verso il 1886, fu la demolizione dell’ultima cortina superstite fra i baluardi Santa Vennardia e San Domenico, e la demolizione dei Fortini San Giorgio e San Benedetto e della Porta Civica: i blocchi ciclopici di calcestruzzo, ricavati da quelle demolizioni, furon gettati per formare la scogliera protettiva di ponente che in pochi anni fu inghiottita dal mare».
Altre negative vicende narra poi l’autore, e tutte a sfavore del vecchio maniero, tanto che egli, rivogendosi alle autorità dell’epoca, le implora affinché si prodighino per «la restaurazione del Castello “ad pristinum”, con la destinazione a Sedi che sien degne di un Monumento Storico così insigne».
Fin qui Ettore Vernole e il suo libro “Il Castello di Gallipoli”, pubblicato nel 1933. A partire da questa data, appena qualche anno fa, nel 2003, a Gallipoli si è costituita l’Associazione “Anxa” on-lus col suo organo di stampa «Anxa news», sul cui primo numero, il direttore Luigi Giungato apre il suo articolo di fondo con un titolo a tutta pagina: “L’agonia del Castello di Gallipoli”. Scrive: «Perché il Castello di Gallipoli non deve vivere come avviene, invece, per gli altri castelli pugliesi, quali quello di Copertino o il “Carlo V” di Lecce? Sino ad ora, oppresso dall’incuria inflittagli dalle Autorità preposte e dalla trasformazione in caserma della Guardia di Finanza, è stato relegato a svolgere il pesante ruolo d’ingombrante immobile nel contesto incantevole della “Città Vecchia”. Eppure è uno dei più antichi castelli dell’ Italia meridionale ricco di momenti storici esaltanti e decisivi per molte vicende della nostra terra». E poco oltre, sempre con tono pacato, il direttore di «Anxa-news», alquanto perplesso, afferma: «Un tempo strano il nostro! A Gallipoli si pavimentano con costoso mosaico i marciapiedi del Corso Roma e non si mostra interesse al recupero funzionale ed alla valorizzazione di una struttura essenziale per un efficiente sviluppo turistico e per una presenza più efficace nel panorama artistico-culturale di Terra d’Otranto, specie ora che è stato liberato dall’utilizzo come caserma della Guardia di Finanza».
Ma il clou dell’articolo di Giungato lo troviamo nel punto in cui fa la proposta della necessità di «ripristinare la memoria storica e prendere coscienza dell’importante ruolo [del Castello] vissuto nei secoli. Per realizzare ciò, bisognerà procedere all’eliminazione del Mercato, alla valorizzazione e ripristino del fossato o vallo del Castello, ideato dai Veneziani nel 1484 ed eseguito dagli Aragonesi, evidenziando l’antico quadrilatero staccato dalle mura civiche e collegato con la Città attraverso un ponte, come nel passato».
L’appello del prof. Giuntato non è stato un fuoco di paglia, no, perché al suo primo intervento ne sono seguiti altri di gallipolini e anche di fuori. Da quel momento in poi, e fino ad oggi che scriviamo, sulle pagine di «Anxa-news» ma anche su altri periodici locali e non, alta è stata sempre l’attenzione verso il vecchio maniero gallipolino. Ed anche prima di adesso, tanto che, ancora nel dicembre 1978, un’altra autorevole voce – quella di Antonio Perrella – si era levata alta dalle colonne di un periodico per dire: «I castelli in genere, e quelli di Puglia in particolare, sono stati in passato considerati come manufatti edilizi ingombranti, anacronistici e persino stridenti in un paesaggio assolato e tranquillo. Invece di essere amati, accolti per lo meno quali fatti di casa facenti parte a buon diritto dell’ambiente, hanno rappresentato il simbolo di un medioevo oscuro ed opprimente come il tallone dei conquistatori stranieri che scorrazzavano nel sud. Sono stati considerati testimoni di fosche tragedie e scenari da romanzo nero ed infine degnati di attenzione solo a fini di utilizzo senza cura per le offese che il tempo ad essi riservava. Così, spesso, fenomeni di degrado sono diventati irreversibili (cfr. Antonio Perrella, “Sulla destinazione e l’uso del Castello di Gallipoli”, in «Nuovi Orientamenti», anno IX, Gallipoli, sett.-dic. 1978, n. 52-53, pp. 15-18).
E ancora, appena qualche anno dopo l’intervento del geometra Perrella, un’altra personalità salentina, lo storico Aldo de Bernart, interveniva sullo stesso periodico, affermando: «Tra i tanti monumenti di cui Gallipoli va fiera, il Castello angioino merita senz’altro il primo posto. Carico di anni e di storia, sfila severo a fianco del turista che si accinge ad attraversare il ponte che congiunge il borgo all’isola. / Abbandonato, dopo gli ultimi sussulti di gloria del ‘500 e gli ultimi aneliti di sfarzo del ‘700, e mortificato dalle costruzioni addossategli nel corso dei secoli, il Castello di Gallipoli, proprio nel suo declino, ha avuto il suo massimo cantore, scrupoloso e puntuale, in Ettore Vernole. È stato proprio il Vernole, intorno al 1931, a mettere piede per primo, dopo anni di abbandono, nella sala poligonale che oggi è l’ambiente più emblematico e più fascinoso dell’antico maniero» (Cfr. Aldo De Bernart, “La Sala Poligonale del Castello di Gallipoli” (cfr. «Nuovi Orientamenti”, anno XIII, Gallipoli, nov.-dic. 1982, n. 77, pp. 9-12).
Quanta passione, quanto amore per un edificio che rappresenta un passato secolare di una comunità umana. Meglio di ogni altro sono sentimenti espressi dal canto melodioso di un poeta gallipolino, Luigi Sansò, che li fissò nei seguenti versi: «Il Castello // Nella grommata sua tinta vetusta / sovra l’onde tranquille si riflette / fiero il Castello: di sua luce augusta / indora il sole al torrion le vette. / Ogni memoria, d’almi fati onusta, / ne’ fossati è sepolta: da vedette / fan dei secoli l’ombre: la venusta / mantiglia azzurra il ciel sopra vi mette / come drappo di gloria. E par che dica, / come un dì, l’ampia mole – Non si varca / l’agil ponte da quei che con nemica / mente s’accosti. Se anche d’anni carca / risorge a un cenno in virtù mia antica / e contro l’invasor dura s’inarca».
Oggi, finalmente, dopo più di 70 anni, rivede la luce “Il Castello di Gallipoli”, pubblicato nel 1933 da Ettore Vernole. La nuova edizione, editata da “Il Frontespizio” di Brindisi, ha il pregio di essere stampata da una tra le più note Stamperie italiane ed europee, la Valdonega di Verona, che nella sua storia vanta pubblicazioni importantissime, fra cui l’edizione nazionale dell’opera di Gabriele D’Annunzio in 49 tomi, stampata personalmente con il torchio a mano dal grande stampatore Giovanni Mardersteig.
Questo libro, “Il Castello di Gallipoli” del Vernole, ha un frontespizio stupendo con il suo “calice” perfetto, stampato con due colori (rosso e nero).
In fondo al libro, altro pregio straordinario, il suo colophon, che qui riporto
integralmente: «Composto nel carattere Garamond / vesione Val, questo volume è stato impresso / dalla Stamperia Valdonega di Verona / nel mese di luglio 2008 per conto / de “Il Frontespizio” editore / di Brindisi».
wow, una lettura intensissima piena di riferimenti e di spunti interessanti! Gallipoli l’ho visitata la scorsa estate: un sogno. Di notte poi la magia è assicurata!
Condivido appieno la necessità di realizzare un programma per un più adeguato ruolo del Castello di Gallipoli.
Buona domenica a tutti…
Mi dispiace che la campagna culturale portata avanti da ANXA non abbia prodotto: l’isolamento del Castello di Gallipoli con il suo storico fossato. Sarasalla
Siamo un popolo che ha dimenticato le sue vere origini.
“Non si odono più/ quei rintocchi di campane/ che spandeano ai quattro venti/ lo splendore dell’alma cittade mia;/ se aprire ancor gli occhi/ un’attimo dal sommo riposo/ i”Vate”/ come poten veder cadenti/ le glorise mura;/ il Vernole, il Marzo, il Patitari/, quanto sconforto arrecheremmo/
ai loro cuor…” Pag.35 del libro “Rraoggi de jentu”
“L’agonia del Real castello di Gallipoli” pagg.123/129 del libro “A misa de sole”
Grazie per tutto quello che scrivi per Gallipoli. F/to “vastasi”