L’ulùzzu*
di Armando Polito
Nomi salentini: ulùzzu (Nardò), avùzzu (Pulsano) avùzze (Montemesola, Ceglie Messapica), aùzzu (Avetrana, Manduria), laùzzu (Manduria, Maruggio, Mesagne), avaùzz (Martina Franca), alevùzze (Mottola).
Nomi italiani: asfodelo, asfodillo, porraccio
Nome scientifico: Asphodelus albus L.
ETIMOLOGIE
nomi italiani:
asfodèlo dal latino asfòdelu(m) e questo dal greco asfòdelos1;
asfodillo la variante, in Wikipedia attribuita a D’Annunzio, in realtà è di epoca anteriore (compare, per esempio, già nel Dizionario overo trattato universale delle droghe semplici di Niccolò Lemery, Hertz, Venezia, 1737, pag. 35 e, a seguire, nel Dizionario botanico italiano di Ottaviano Targioni Tozzetti, Piatti, Firenze, 1809, pag. 16 e nel Propagatore agricolo, anno V, Dell’Ancora, Bologna, 1855, pag. 73); la voce, se non è di origine straniera, è stata costruita con il suffisso adattando la terminazione originaria per analogia con voci come asperillo, bulbillo e simili;
porraccio forma accrescitivo-peggiorativa da porro.
nome scientifico: per asphodelus vedi italiano asfodelo; albus=bianco.
nomi dialettali salentini:
tutti dal latino albùciu(m)2, da albus=bianco; da albùciu(m), attraverso metatesi al->la– [*labùciu(m)], sincope di –b– [*laùciu(m)] e passaggio –ci->-zz– si giunge alla variante del Brindisino e del Tarantino laùzzu; da questa, per errata discrezione della –u dell’articolo (*lu laùzzu>*l’ulaùzzu) e per successivo passaggio –au>-u– si giunge finalmente alla voce neritina.
È opinione corrente, ma senza fondamento come tenterò di dimostrare, che l’asfodelo nel mondo greco fosse associato all’idea della morte. In realtà in quel mondo la pianta assume una valenza ben più complessa e variegata che non esclude la vita, tutt’altro.
Un primo riferimento alle sue proprietà medicinali e la sua esaltazione come simbolo di una vita semplice e parca appare già in Esiodo (VIII-VII secolo a. C.).”E [non sanno i re] quale grande utilità ci sia nella malva e nell’asfodelo”3. Il giudizio espresso da Esiodo verrà citato da Plutarco (I°-II° secolo d. C.) e con un’integrazione che ricorda l’uso alimentare e terapeutico della pianta4: “Solone disse di meravigliarsi di Ardalo perché non conosceva la legge di vita scritta nei versi di Esiodo; questi infatti è il primo ad aver dato ad Epimenide i semi di questo modo di vivere e che gli abbia insegnato a ricercarli: ‘Quanta utilità ci sia nella malva e nell’asfodelo’. -Credi dunque- disse Periandro – che Esiodo abbia pensato questo e non abbia piuttosto voluto elogiare la parsimonia sempre e invitare noi alle più semplici tra le vivande come quelle che sono più dolci? Infatti la malva è buona da mangiare, lo stelo di asfodelo è dolce; ritengo queste atreplici e liquirizie piuttosto farmaci che cibi e che essi ricevono miele e un certo formaggio straniero e moltissimi semi di quelli non facili da trovare. Come dunque non dovrebbe esserci per Esiodo il detto ‘ Il timone sotto il camino’ giacente, ‘Svanirono le opere dei buoi e dei muli affaticati’, se ci fosse bisogno di un siffatto modesto impegno? Mi meraviglio, o Solone, del tuo ospite se poco fa per gli abitanti di Delo avendo partecipato ad un gran rito di purificazione non si è accorto della malva e degli steli di asfodelo, tra le altre cose semplici e spontanee, ricordi e campioni del primo nutrimento portati da quelli al tempio, delle quali è possibile che anche Esiodo ci abbia raccomandato la semplicità e la genuinità -. -Non solo questo -rispose Anacarsi- ma pure l’una e l’altra delle erbe viene lodata per le proprirtà medicinali che ci sono soprattutto in loro-.
Appare, poi, nella sua valenza paesaggistica nel quarto degli Inni omerici5, quello ad Ermes6: “Queste sono orme di buoi dalle alte corna,/ma si dirigono all’incontrario verso il prato di asfodelo”; nella valenza ornamentale, si direbbe d’arredamento, in Teocrito (III° secolo a. C.): “E io in quel giorno tenendo intorno alla testa una ghirlanda d’aneto o di rose o di garofani attingerò dal cratere vino pteleatico disteso accanto al fuoco; uno abbrustolirà le fave sul fuoco e ci sarà un giaciglio tutt’intorno cinto fino a un cubito da enula, asfodelo e da apio ricurvo“7; nella valenza religiosa nello stesso autore8: “Ino, Autonoa e Agava dalle guance simili a mela, esse tre conducevano alla montagna tre schiere [di Baccanti] e strappando le foglie selvatiche di un’irsuta quercia e l’edera viva e l’asfodelo che (cresceva) sulla terra, in un prato incontaminato elevarono dodici altari, tre a Semele, nove a Dioniso. Prendendo in mano da una cesta gli oggetti sacri preparati, devotamente li posero sugli altari coperti di rami appena colti, come aveva insegnato lo stesso Dioniso, come lui stesso gradiva”.
L’idea della morte e l’istanza religiosa: la consequenzialità della seconda rispetto alla prima è confermata anche a proposito dell’asfodelo. Non a caso in Omero (probabilmente VIII° secolo a. C.) è quasi il fiore-simbolo del regno di morti9: ”Così dissi; l’anima del piè veloce discendente di Eaco [Achille] andava a grandi passi per il prato di asfodeli”; “Vidi poi lo straordinario Orione che qui inseguiva attraverso il prato di asfodeli le (anime delle) fiere che aveva ucciso sui solitari monti”; “…subito giunsero al prato di asfodeli, dove pure abitano le anime, simulacri dei morti”.
L’interesse scientifico, che in Esiodo, come abbiamo visto, era diventato pretesto per l’esaltazione di un modello di vita parca, è centrale in Teofrasto (IV°-III secolo a. C.)10: ”…lo stelo di asfodelo tostato è buono da mangiare e il seme può essere abbrustolito e sopra ogni altra parte la radice pestata col fico e (la pianta) ha grandissima utilità secondo Esiodo”.
Un secolo prima Ippocrate lo aveva incluso nella composizione di un farmaco contro il morbo regio (itterizia)11: “Somministrare un estratto di radici di asfodelo da bere a digiuno” e ancora prima Erodoto (V° secolo a. C.) ne aveva documentato l’uso pratico anche tra una tribù nomade della Libia12: “Questi [i Nasamoni] seppelliscono i morti seduti badando che il moribondo muoia in questa posizione. Costruiscono capanne portatili con gambi di asfodelo intrecciati a giunchi”.
E nel mondo romano? Riporto per brevità solo quello che ci ha lasciato Plinio (I° secolo d. C.) il quale, oltre a compendiare molti degli autori già citati, aggiunge qua e là qualcosa di nuovo13: “L’asfodelo è commestibile e nel seme tostato e nel bulbo, ma questo cotto nella cenere, con aggiunta di sale e olio, poi pestato insieme con i fichi, con sommo gradimento, come sembra ad Esiodo. Tramandano pure che, seminato davanti alle porte delle case di campagna, è un rimedio contro i danni dei venefici”;”Teofrasto e in genere i Greci e Pitagora per primo chiamarono anterico il suo stelo alto un cubito e spesso due, dalle foglie del porro selvatico; chiamarono invece asfodelo la radice, cioè i bulbi. I nostri chiamano questa parte albuco e bastoncello del re l’asfodelo”; “L’albuco ha uno stelo alto un cubito, liscio e leggero, in riferimento al quale Magone raccomanda che sia mietuto alla fine di marzo e al principio di aprile, quando fiorisce, prima però che il seme cominci a crescere; di spaccare poi gli steli e di esporli al sole dopo cinque giorni e di farne fasci dopo averli così essiccati”; “Esiodo dice che l’asfodelo, famosissimo tra le erbe, che alcuni chiamarono erba degli eroi, nasce anche spontaneamente, Dionigi dice che è maschio e femmina. È noto che i suoi bulbi cotti in tisana di orzo vengono somministrati con grande giovamento ai corpi stanchi e affetti dalla tisi e che il pane fatto da quelli lavorati con la farina è molto salutare. Nicandro somministrò pure contro il morso di serpenti e scorpioni lo stelo, che abbiamo chiamato anterico, o il seme o i bulbi infusi nel vino nella misura di tre dracme e li pose sotto a chi dorme contro queste paure”; “Viene somministrato anche contro le punture di animali marini e contro le scolopendre terrestri. Le chiocciole in Campania sono incredibilmente ghiotte di questo stelo e lo seccano succhiandolo. Inoltre le foglie imbevute di vino si pongono sui morsi velenosi. I bulbi pestati con polenta si applicano a nervi e articolazioni. Giova pure, dopo averli tritati nell’aceto, frizionare la parte affetta da impetigine, allo stesso modo applicarli imbevuti di acqua sulle ulcere infette, sistema valido pure per le mastiti e le orchiti”; “Cotti nella feccia del vino curano con applicazione di fazzoletti imbevuti le lacrimazioni. (I medici) li utilizzano preferibilmente cotti in qualunque malattia, parimenti per le brutte ferite delle gambe e per le fessure dei corpi, dovunque si trovino, asciugati prima con farina. Si raccolgono poi in autunno, quando le loro proprietà sono al massimo. Pure il succo uscito dopo averli pestati o cotti è utile, misto a miele, per i dolori del corpo, lo stesso con iris secca e un pò di sale per coloro che ci tengono a tutti i costi ad un odore piacevole del proprio corpo”; “Le foglie curano le malattie di cui sopra e la scrofolosi, i gonfiori, le ferite sul volto, cotte nel vino. La cenere della radice guarisce l’alopecia e le spaccature dei piedi e del sedere, il succo della radice cotta in olio i geloni e le scottature e la durezza d’orecchio; nel dolore di denti si applica partendo dall’orecchio opposto. La radice bevuta moderatamente giova anche all’orina e ai mestrui e al dolore di fianchi, parimenti nel vino bevuta nella dose di una dracma giova alle fratture, alle convulsioni e alla tosse. La stessa masticata facilita il vomito”; “Il seme assunto dà disturbi al ventre. Crisermo con la radice cotta nel vino curò pure gli orecchioni come pure la scrofolosi dopo aver mescolato col vino seme di finocchio marino. Alcuni sostengono che, se applicata la radice, la parte viene esposta al fumo e dopo cinque giorni la radice viene tolta, la scrofola secca insieme con la radice. Diocle nell’uno e nell’altro modo, cotta e cruda, se ne servì per la gotta, cotta in olio per i geloni; la diede anche infusa nel vino ai biliosi e agli idropici. Hanno tramandato pure che eccita all’amore se unta o bevuta mescolata con vino e miele”; “Senocrate afferma che con la radice cotta in aceto vengono eliminate l’impetigine, la scabbia, la lebbra, allo stesso modo col succo mescolato con giusquiamo e pece liquida i difetti delle ascelle e delle cosce e che il capello diventa più crespo se, rasato prima il capo, viene frizionato con quella radice; Simo afferma che i calcoli renali sono eliminati dalla radice cotta nel vino e bevuta. Ippocrate ritiene opportuno che il suo seme sia somministrato contro gli impeti della milza. La radice in empiastro risolve pure le ulcere dei giumenti e la scabbia oppure il succo di quella cotta fa ricrescere il pelo. Dalla stessa sono messi in fuga i topi, se viene messa nello loro tana tappata muoiono”.
Ancora un salto ancora più grande nel tempo e dal nome locale dell’asfodelo ecco trarre il suo l’omonima torre14, la baia e, addirittura, la civiltà preistorica (uluzziano) ospitata nelle grotte della zona (Grotta del cavallo in primis).
Ne ha fatta di strada il nostro ulùzzu dai tempi di Esiodo e di Omero! Spero solo che ne faccia altrettanta e sia più fortunato delle tante specie vegetali del nostro territorio (e non solo del nostro) già estinte o in via di estinzione.
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* È l’estratto e l’adattamento di un mio lavoro ben più ampio in cui, fra l’altro, compaiono pure in lingua originale tutti i passi dei quali qui, per motivi di spazio, si è fornita la sola traduzione.
1Con diastole (spostamento in avanti) dell’accento, probabilmente dovuto al fatto che la pronuncia di una parola piana è meno impegnativa e più musicale di una sdrucciola.
2 Attestato da Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo d- C.), Etymologiae, XVII, 9, 84): Asphodelus, quam latini a colore albucium vocant (L’asfodelo, che i latini chiamano albucium dal colore).
3 Le opere e i giorni, 41.
4 Moralia, Il convito dei sette sapienti, XIV.
5 Sono 33 e risalgono al VII°-VI° secolo a. C.
6 Vv. 220-221.
7 Idilli, 7, 63-70.
8 Op. cit., XXXIII, I-9.
9 Odissea, XI, 538-39 e 572-574.
10 De historia plantarum, VII, 13, 3.
11 De morbis, II, 35.
12 Storie, IV, 190.
13 Naturalis historia: XXI, 108-109, 110; XXII, 67-72.
14 Torre Uluzzo risale alla seconda metà del XVI secolo, ma secondo me è probabile che, al pari di quella di S. Isisoro, sia sorta sulle rovine di una precedente torre, forse di epoca normanna (sarà l’argomento di uno dei miei prossimi post). Il nome attuale risale al 1957. I nomi precedenti erano stati: Del capo delle vedove (1569), Crustimi (1601), Crustamo (1611), Crostomo (1613), Crustano (1648), Cristemo (1657), Crustomo (1777), Cristomo (1800).
Buonasera, mi chiamo Francesca Rondanelli e sono la prorietaria di un agriturismo ad Altamura, che ho chiamato Asfodelo (www.agriturismoasfodelo.it). Ho letto con interesse il suo articolo e vorrei avere qualche riferimento bibliografico, se possibile. La ringrazio e La saluto cordialmente
Gentile signora, essendo tantissimi i testi di taglio più divulgativo che scientifico in parte dedicati all’asfodelo (contengono più o meno tutti le stesse informazioni … ), gliene segnalo tre in cui la nostra pianta ha il ruolo di protagonista:
Arturo Castiglioni, Le piante magiche, 5: l’asfodelo (estratto da La medicina internazionale illustrata).
Unico Caponi, Due dominanti aspetti di una robusta, invadente e bellissima liliacea: l’asfodelo, Nucci, Potenza, 1958.
A. Cherchi ed altri, Individuazione di parametri utili per la caratterizzazione e la valorizzazione di mieli tipici della Sardegna: asfodelo, cardo e corbezzolo [estratto da Rivista di scienza dell’alimentazione ,24 (1995), n. 4].
Sterminata, o quasi, è poi la produzione di opere letterarie in cui l’asfodelo ha ispirato poeti e romanzieri: basta digitare il nome della pianta in qualsiasi motore di ricerca.
Sicuramente avrà già provveduto a ravvivare le pareti degli ambienti interni della sua azienda con qualche bella foto di asfodelo. Comunque potrebbero tornarle utili questi link: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a8/Asphodelus_albus.004.JPG
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/19/Asphodelus_albus_from_Mavrovo_National_Park.jpg
Porti il cursore del mouse all’interno della foto e lo vedrà assumere la forma di una lente di ingrandimento. Clicchi col tasto sinistro e quando l’immagine risulterà ingrandita la salvi in modo da stamparla quando riterrà più opportuno. L’ingrandimento corrisponde al formato A4 e la definizione sarà ottimale. Qualsiasi ulteriore ingrandimento, come può intuire, comporterà un inevitabile degrado dell’immagine, il che significa che per un poster bisognerà fotografare un esemplare anche con una fotocamera discreta ma da breve distanza.
Un cordiale saluto e un sincero augurio di successo per la sua attività.
bell’articolo grazie:)
Articolo molto interessante. L asfodelo assieme al lentisco sono sempre presenti nei libri di Grazia Deledda .
Articoli sempre culturalmente arricchenti.Grazie