Le sorprendenti analogie di rito presenti nel tarantismo salentino e nell’antico culto ellenico di Asclepio
di Romualdo Rossetti
Alla luce delle ultime ricerche storiche ed archeologiche risulta evidente che il tarantismo salentino, a differenza di quanto sostenuto da Ernesto De Martino nella sua Terra del Rimorso, affonda le sue radici nella prima storia del bacino del Mediterraneo. Se ci si sofferma ad analizzare con spirito sereno la particolarissima ritualità di questo fenomeno antropologico, ormai in via d’estinzione, non si possono non cogliere le numerosissime corrispondenze di culto che lo legano intimamente agli antichi riti di guarigione praticati in tutti i santuari di Asclepio della Magna Grecia e delle zone ad essa culturalmente contigue.
Ernesto De Martino interpretò il tarantismo quasi esclusivamente in chiave sociologica individuandone la causa nel malessere sociale dei poveri del Mezzogiorno d’Italia, nella condizione subordinata all’uomo della donna contadina, nella società rurale salentina retrograda e culturalmente arretrata, nella diversità fisico-psichica e sessuale mal vissuta e/o socialmente mal tollerata e soprattutto in uno spaccato esistenziale ingenuo e sottomesso all’autorità religiosa.
Per quel che concerne l’origine del fenomeno sociale, nel quinto paragrafo del commentario storico della sua Terra del Rimorso l’etnologo collocò l’atto di nascita del tarantismo nell’alto Medioevo, durante gli scontri tra la civiltà cristiana e quella musulmana in occasione delle Crociate, uno spazio temporale ben preciso che, a ben vedere, escludeva drasticamente la possibilità che esso si fosse generato nella protostoria dell’Occidente. Un’indagine, quella demartiniana, che finì per porre in essere un’interpretazione riduttiva del tarantismo perché frutto di una visione personale del marxismo vissuto soprattutto in chiave esistenzialista, una lettura antropologica, dunque, vittima del tempo (anni 50 del XX secolo) in cui il fenomeno venne studiato, etichettato e proposto al pubblico.
Ciò che lascia oggi sorpresi è però, come mai, uno studioso delle religioni attento, intelligente ed intuitivo come Ernesto De Martino abbia trascurato di esaminare il culto di una importantissima pratica medica delle origini e la sua probabile sovrapposizione sincretica in un altro rito nel corso degli anni. Probabilmente ciò fu dovuto proprio dalla formazione culturale dell’etnologo, una formazione culturale fedele all’indirizzo imposto da Benedetto Croce, da sempre poco incline ad analizzare ciò che poteva fuorviare il dato storico da analizzare. In realtà, però, gli sarebbe bastato interpretare con più attenzione le stesse critiche del medico settecentesco Francesco Serao, da lui più volte menzionate nella Terra del Rimorso, quando affermava che la fenomenologia del tarantismo non dipendeva affatto dal morso della tarantola quanto, piuttosto, dall’indole congenita dei pugliesi.
L’indole di un popolo, è notorio che non la si costruisce dall’oggi al domani, ma è un sovrapporsi di simboli, significati e vissuti sociali che si tramandano nei secoli nei costumi, soprattutto in quei contesti culturali arretrati come possono esserlo quelli propri del mondo contadino. Gli sarebbe bastato poco per intuire che il tarantismo come forma di catarsi dall’oistros, come esorcismo coreutico-musicale, affondava le sue radici nella protostoria della Magna Grecia. Se soltanto avesse disatteso le proprie radici crociane e si fosse soffermato ad osservare lo Zodiaco, la prima mappa sapienziale dell’uomo, avrebbe di sicuro intuito che l’Oistros deteneva, non a caso, un posto d’onore anche tra le stelle dove compariva altresì il nome divino della sua risoluzione. Poco sopra la costellazione dello Scorpione difatti, gli antichi scrutatori e denominatori degli astri, avevano posto la costellazione dell’Ofiuco, detto anche Anguitenens o Serpentario che col calcagno pare schiacciare lo Scorpione che a sua volta, pare, volerlo pungere. A quel punto la chiave di risoluzione del mistero dell’origine del tarantismo poteva essere facilmente risolta rifacendosi ad un’unica antichissima divinità, ad Asclepio il signore e demone colui il quale fu da Zeus predisposto alla guarigione fisica e psichica dei mortali.
Se De Martino non si fosse soltanto soffermato a catalogare in maniera quasi ossessiva, come stabiliva il metodo storicistico, il comportamento dei tarantolati durante l’esorcismo nella piccola cappella sconsacrata della casa di S. Paolo a Galatina ma si fosse soffermato ad esaminare l’ubicazione del pozzo–omphalos dalle acque emetico-curative all’interno del complesso architettonico della cappella avrebbe sicuramente colto la corrispondenza strutturale che la associava ad un antico asclepeion.
Anche i tanti simboli della città di Galatina, a partire dal nome della stessa, furono trascurati e non furono vagliati con la dovuta accuratezza filologica e semantica. Ad onor del vero ciò è accaduto non unicamente con l’indagine demartiniana ma anche con le altre numerose successive indagini antropologiche che, pur volendo distanziarsi dalla lettura del fenomeno operata tramite la Terra del Rimorso, hanno continuato a trascurare l’evidente inoltrandosi in un indirizzo di ricerca alla “moda”, (interpretazione nietzscheana) con tanto di eccessivi ed azzardati rimandi al dionisismo ed al menadismo.
Asclepio, il protagonista nascosto del tarantismo salentino, veniva rappresentato solitamente come un uomo maturo, il più delle volte munito di barba con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata sulla testa di un serpente; accucciato ai suoi piedi compariva un cane. Cani, serpenti, civette oracolari e capre nutrici, erano animali a lui consacrati. La loro lingua era ritenuta capace di lenire e guarire piaghe e ferite.
Nei portici antistanti al suo santuario aveva sede l’àbaton, spazio di ricovero e di dormiveglia, dove gli infermi trascorrevano le notti immersi nel “sonno incubatorio” propiziato da Hypnos, il semidio dell’ipnosi, o rapiti dalle visioni oniriche poste in essere da Oneiros, il semidio dei sogni. L’incubazione era la pratica utilizzata per avere responsi tramite il sonno. L’infermo “incubante ad Asclepio” era colui il quale volontariamente si assopiva nell’abaton per destarsi, o miracolosamente ristabilito o con un consiglio sul come comportarsi per ottenere la sospirata guarigione. Nel recinto degli asclepiei compariva inevitabilmente la thòlos ovvero l’edicola votiva circolare dove era collocato il “sacro pozzo”, dimora dei “sacri serpenti”, dove i malati guariti donavano i loro ex-voto con sopra iscritte le loro anamnesi. Fuori l’àbaton vi era un gimnasium dove eseguire gli esercizi fisici idonei al recupero della mobilità, uno spazio per le abluzioni rituali, uno spazio chiamato odèion dove si eseguivano le audizioni musicali con finalità terapeutiche. Nei santuari di Asclepio compariva anche un luogo di prima accoglienza per chi giungeva in pellegrinaggio in cerca di guarigione detto katagòghion, un vero e proprio ostello ubicato generalmente sotto i porticati o intorno a cortili interni. I pellegrini venivano accolti da un personale composto dai portieri che detenevano le chiavi del tempio, e dai contabili che registravano le offerte, gli ex-voto e le sovrattasse dette iatrà che venivano imposte solo a chi era benestante. Il personale addetto all’assistenza era eterogeneo. Era composto dai sorveglianti che vegliavano sopra il sonno degli incubati, ai “pirofori” che facevano luce su di essi, agli “asclepiadi”, la casta sacerdotale che sovrintendeva ai sacrifici, ascoltava i racconti dei sogni e trasmetteva i responsi di Asclepio. In capo a tutti gli asclepiadi vi era lo ierofante, considerato il supremo “interprete del sacro” esistente nel santuario. Il rituale d’accesso era semplice e consisteva nei preliminari di purificazione del malato come abluzioni e digiuni, seguiti dal sacrificio di un animale alla divinità come un gallo, un agnello, un capretto, un bue o addirittura un cavallo. Dopo il sacrificio, accompagnato da un’invocazione alla divinità, l’infermo si distendeva sopra un giaciglio, spesso fatto con la pelle degli stessi animali sacrificati. Dormiva e sognava attendendo nel sogno la diagnosi di Asclepio e le sue indicazioni terapiche.
Una volta detto questo non può non saltare agli occhi di chi legge la corrispondenza del luogo di culto del tarantismo galatinese ovvero la cappella di s. Paolo col porticato retrostante che comprende un “pozzo sacro” dall’acqua emetico-guaritrice. Già a prima vista si intuisce facilmente che il loco mantiene e riproduce, nonostante la successione di costruzioni avvenute nel corso dei secoli, parte della struttura originaria di quello che molto probabilmente dovette essere il più importante santuario dedicato al culto di Asclepio in terra di Messapia. E’, d’altro canto, noto a tutti gli ermeneuti del mito classico che il “pozzo” presso la civiltà greca arcaica possedeva il significato di dimora del verbo divino soprattutto se accompagnato dalla presenza di serpenti costrittori. Per i Greci arcaici la verità oracolare era situata nelle viscere della terra ed era legata anche alla profondità del pozzo da cui emergeva in superficie la voce di dio. La convinzione popolare che il pozzo di San Paolo dalle acque miracolose contenesse al suo interno serpenti o anguille non fa che avvalorare questa corrispondenza.
Asclepio è sempre stata una figura ieratica che doma il serpente e che da simbolo ctonio lo trasforma in un metodo di risoluzione, di comprensione, di rinascita e di continuità. Il serpente costrittore, fosse questo uno scurzone di San Paolo (saettone) o una sacara salentina (elaphe quatorlineata), onnipresente nei due culti richiama alla mente la presenza del sacro poiché rimandava alla simbologia del femminino arcaico assoggettata ma mai del tutto sopita nell’antichità classica.
Così gli ofidi costrittori come l’Elaphe Quatorlineata o lo Zamenis Longissimus presenti e venerati in tutti i santuari di Asclepio del Mediterraneo testimoniano la prossimità del dio greco della medicina al culto ctonio delle grandi Dee Madri. La forma serpentina di Asclepio detto anche agatodemone comprova la trasformazione dal femminino al masculino della valenza iatrica sacrale un tempo di esclusiva appartenenza della saggezza poietica femminile. Se successivamente si vuol esaminare quali altre divinità, piante o animali sono strettamente collegati al culto di Asclepio si viene colpiti dall’assonanza con un’altra importantissima divinità greca Athena che, sotto il falso nome di Coronide (madre di Asclepio) si appropriò interamente del culto ancestrale della Dea Madre, tanto da permanere onnipresente nel nome e nel simbolo civico della città di Galatina, capitale culturale e luogo sacro del tarantismo.
Il nome della città di Galatina, infatti, richiamerebbe proprio la mitica dea Atena Glaukopis (dagli occhi glauchi di civetta), dea molto venerata anche in Messapia. Nel nome della città risuonerebbero insieme i termini: glaux che significa appunto civetta ed il termine galàktòs che significa latte, oltre a quello comune di Athēnâ e non di Athénē come per troppo tempo è stato creduto; quindi la traduzione più appropriata non è “Atene del latte”, o peggio ancora “terra dei Galati”, bensì “civetta di Athena” o “Athena-capra del latte”; e non è certo un caso che la dea Athena anticamente venisse raffigurata anche sotto le sembianze di una capra. La riprova a questa interpretazione semantica la si ritrova confermata, anche nel simbolo civico, “la civetta”, animale oracolare, guarda caso, sacro ad Athena ma anche ad Asclepio.
Le “chiavi incrociate” sulla testa della civetta richiamerebbero invece non solo il transito dell’Apostolo Pietro nel Salento e l’avvenuta cristianizzazione della città, quanto più verosimilmente la presenza di un luogo sacro, il luogo della cura e della guarigione, i cui dinamismi interni rimangono segreti perché di origine divina, quindi, presumibilmente le chiavi richiamerebbero la presenza del santuario di Asclepio.
Con la cristianizzazione del Salento il serpente perse il suo significato divinatorio originario e come per l’ebraismo assunse quello di morte, pericolo, perfidia. All’elaphismo oracolare subentrò l’aspidismo diabolico inteso come minaccia e male assoluto da debellare unicamente con l’ausilio della fede.
Non solo la pratica dell’incubatio ancora presente nel tarantismo ai tempi di De Martino ci rimanda all’antico culto di Asclepio. Altre presenze simboliche inerenti specifici animali confermano la comune origine dei due culti.
Anche il cane è un altro animale che compare accanto ad Asclepio insieme alla capra ed alla civetta oracolare. Si è creduto popolarmente che la lingua e la saliva del cane come quella della capra e addirittura quella dell’Elaphe Quatorlineata o dello Zamesis Longissimus possedessero poteri antisettici. Il cane è sempre stato considerato nell’antichità mediterranea uno psicopompo, non soltanto perché aveva il potere di scortare le anime dei defunti nell’Ade ma perché compariva sempre accanto ed al servizio di una divinità importante. Probabilmente il cane fu presente nella vita del dio della medicina perché rimandava al tempo in cui questi fu allattato dalla cagna Ecate e visse insieme al mitico centauro Chirone che gli insegnò l’arte della chirurgia e l’utilizzo delle erbe medicinali oltre l’arte della caccia e della sopravvivenza.
Per ritrovare altre analogie bisognerebbe, poi, comparare l’iconografia di Asclepio con quella di San Paolo. In principio Asclepio veniva rappresentato con le sembianze di un giovane imberbe. Invece dal V secolo a. C. la sua immagine classica mutò fino a fissarsi in quella di un uomo maturo e rassicurante con barba, capelli ricciuti e bastone a cui si avvolge un lungo serpente.
La comparazione con la statua di san Paolo ed il dipinto parietale dell’edicola è impressionante. San Paolo mantiene lo stesso sguardo benevolo e rassicurante benché impugni una spada e non un bastone col serpente. Nella piccola cappella privata a lui dedicata il suo dipinto opera di Saverio Lillo durante il periodo estivo era posto in maniera tale che indicasse con la mano il pozzo delle guarigioni. E’ probabile che la spada nell’iconografia cristiana sia subentrata al bastone col serpente in virtù del fatto che per la tradizione ebraica e per quella protocristiana il serpente era considerato un essere immondo e la spada invece un simbolo non unicamente di coercizione ma soprattutto di potere e di legittimità.
Dopo aver enumerato le molteplici corrispondenze esistenti tra il culto popolare dedicato a S. Paolo e quello arcaico dedicato ad Asclepio occorre trattare l’aspetto più interessante dei due fenomeni; ovvero come si inneschi in entrambi il processo di interpretazione della malattia.
In passato moltissime persone vicine all’ambiente del tarantismo erano convinte che che l’essere morsicati o entrati in contatto da una bestia venefica come poteva esserlo un ragno, uno scorpione od una serpe (in realtà in quel caso una sfiatatura non una vera e propria morsicatura) pur nella frequenza dell’avvenimento per chi era solito vivere in un ambiente agricolo, rappresentava sempre un segno di predestinazione proveniente dall’oltreumano, una scelta voluta dal santo che – benché il più delle volte poteva essere vissuta come una sorta di punizione per un peccato commesso volontariamente (o involontariamente) dal tarantato o da qualche componente della sua famiglia – andava, non solo vissuto in tutta la sua drammaticità, ma occorreva che tale segno venisse bene interpretato. L’oistros era solo una scalfittura sulla pelle dello sventurato ma rappresentava soprattutto un segno sacro impresso a fuoco nella coscienza del prescelto. Chi veniva punto e prescelto rischiava di trasformarsi in un pharmakòs se non si sottometteva volontariamente all’antichissimo rito di guarigione che nulla poteva possedere di scientifico poiché il mittente dell’affezione non apparteneva a questo mondo.
Altra grandissima analogia che va nella presente direzione d’indagine è l’importanza onirica nei due riti di guarigione. Tanto nel rito liberatorio di San Paolo quanto in quello arcaico di Asclepio il sogno possedeva una portata simbolica importantissima. Col sogno le distanze tra il divino e l’umano si annullavano e nel sogno era presente la chiave d’interpretazione che permetteva di comprendere la causa della propria infermità. Non è un caso se la pratica dell’incubatio sia rimasta presentissima nella ritualità del tarantismo. Se si osserva la fotografia di Filomena di Cerfignano, una tarantata studiata a fondo da De Martino, mentre si appisola fiduciosa ai piedi dell’altare della cappella di San Paolo come moltissime altre hanno fatto prima di lei, si ha, senza ombra di dubbio una prova inoppugnabile della sovrapposizione dei due riti, sia pur con qualche modestissima differenza.
Esisteva poi, altro tratto in comune tra i due riti, la possibilità di una metamorfosi del santo nell’animale provocatore. Nell’iconografia ideale dei tarantati S. Paolo appariva dispotico, geloso tanto quanto lo poteva essere una divinità pagana. Anche Asclepio come san Paolo possedeva il potere della metamorfosi.
E’ importante ricordare che anche per Asclepio oltre i serpenti costrittori erano sacri gli scorpioni e probabilmente anche gli aracnidi; e non è improbabile che in antichità si ricorresse alle terapie idonee a neutralizzare il morso del ragno nei santuari di Asclepio visto che all’interno di questi vi erano dei locali predisposti alla cura tramite melodia.
Detto questo bisogna occorre porre attenzione a quello che per tutti è stato il suo emblema nel corso della storia: il cosiddetto bastone di Asclepio. Risulta impressionante la somiglianza al Caduceo simbolo che contraddistingueva Hermes, il messaggero degli dei, ma anche delle acque profonde che scorrono sottoterra e che alimentavano, guarda caso, anche i pozzi sacri. Il dio Hermes come “chiave di volta” per comprendere meglio l’asclepismo delle origini. Mitologicamente parlando se non fosse stato per il tempestivo intervento di Hermes, Asclepio sarebbe morto con sua madre; invece quell’atto caritatevole (parto cesareo) potrebbe rappresentare l’accordo tra la scienza medica e l’interpretazione del male fisico e morale. La nascita dell’endiade Hermes-Asclepio sancirebbe la genesi stessa dell’ arte ermeneutica intesa non tanto come arte esegetica di testi religiosi scritti come scelta di auto guarigione indotta dal sacro che affonda le sue radici nel contesto medico-oracolare pre-ippocratico. Fu così che la téchne hermeneutikè divenne strumento di cura e guarigione tanto nei culti presenti negli Asclepiei del Mediterraneo, quanto nella flebile voce di questi ancora presente nel tarantismo salentino ai tempi di Ernesto De Martino.
Per ulteriori approfondimenti sull’argomento trattato si consiglia la lettura del saggio di R. Rossetti, Nel nome di Asclepio. Il Tarantismo oltre la lettura di Ernesto De martino, in “Segni e comprensione” International Rivista telematica quadrimestrale – anno XXVI nuova serie – N.76 – Gennaio Aprile 2012, p. 88l.
BIBLIOGRAFIA:
E. De Martino, La terra del rimorso. Il Sud tra religione e magia, Il Saggiatore, Milano 1961;
A. Rossi, Le feste dei poveri, Sellerio, Palermo 1986;
G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità ad oggi, Laterza, Bari 2009;
R. Graves, I miti greci, Longanesi, Milano 1983;
M. Grant – J. Hazel, Dizionario della mitologia classica, CDE, Milano 1986;
C.A. meier, Il sogno come terapia. Antica incubazione e moderna psicoterapia. Edizioni Mediterranee, Roma 1987;
G. Semerano, L’infinito un equivoco millenario, Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, Milano 2001;
R.B. Onians, Le origini del pensiero europeo, Adelphi, Milano 2006.
Caro Romualdo
permettimi di complimentarmi per il tuo splendido saggio sulle analogie tra Asclepio e San Paolo.
Non è mai successo finora, ma oggi Spigolature Salentine riporterà solo ed esclusivamente il tuo saggio, per il quale ti ringrazio a nome di tutti gli spigolatori, per aver voluto condividere queste ottime intuizioni, proposte in modo lineare ed esauriente.
Mi associo ai complimenti di Marcello nei riguardi di questa
interessantissima ricerca con relativo ed attento confronto tra i due
personaggi di cui trattasi.
Allo stesso tempo ringrazio Romualdo Rossetti per essersi prodigato
in questo interessantissimo saggio che permette al sottoscritto (vero
cultore della vera “essenza salentina” fuori dai confini pugliesi) di venire
a conoscenza di quelle che sono le origini ancestrali di un popolo che
sa sempre distinguersi per carattere, cultura e fede in quelli che sono
valori purtroppo oggi spesso e volentieri dimenticati.
Buon lavoro.
RomanoR
prima di Galatina ed antecedentemente alla secondà metà del XVIII secolo, vi furono più importanti centri e svariati Santi per la cura del tarantismo. salentino…. prendere Galatina come esempio è solo una forzatura storica.
Sono d’accordo i miti ..come quello della taranta vengono da molto lontano sia nello spazio che nel tempo….
bellissima e convincente analisi, sicuramente un importantissimo pezzo mancante nel lavoro di De Martino. Le cui considerazioni, però, non per questo sono da considerarsi inficiate e prive di fondamento. Una cosa non esclude l’altra: che nel culto così come è stato “riadattato” siano presenti evidenti richiami ai riti connesse ad Asclepio, non significa che non possano egualmente essere presenti richiami a riti Dionisiaci e al Menadismo. Notoriamente, nel corso dei secoli, e con la “cristianizzazione” e il riadattamento cristiano dei culti pagani, si tende anche ad unificare e sintetizzare vari culti in uno unico. E’ possibile che anche questo, sia il caso. Simbologie tipiche dei dionisismo e del menadismo, come la danza sfrenata, i tamburelli, i nastrini, sono effettivamente presenti nel tarantismo. Così come lo sono i riferimenti al culto di Asclepio. Io direi dunque che ci troviamo di fronte al riadattamento e unificazione di più culti, dei quali sono presenti, insieme, i vari simbolismi.