di Massimo Vaglio
Acqua e sale, acquassale, ciallèdda, ciatèdda, cialatèdda, ciardèdda, sono queste alcune delle denominazioni con cui viene appellato un fresco piatto salentino. Si tratta di un’umile preparazione che al pari delle più aristocratiche friselle, costituisce un piatto quasi esclusivamente serale ed estivo, la risposta dei salentini alla canicola spesso insopportabile della loro terra.
A dispetto della sua, estrema semplicità, l’acqua e sale è un’opera d’ arte culinaria che riassume mirabilmente lo stile alimentare di questa subregione: preparare con pochi semplici ingredienti qualcosa di estremamente leggero e salutare, ma allo stesso tempo appagante e gustoso. Un piatto, che in mancanza di termini più appropriati, non ci resta che definire una zuppa rinfrescante, che estingue la sete e fornisce all’organismo sali minerali tanto necessari in climi così caldi.
Inutile dire, che oggi, nell’era del Gatorade, questo piatto ha perso la sua originaria funzione ed anche a causa della maggiore praticità d’uso delle friselle è in forte declino, tanto che rimane pressoché esclusivo appannaggio delle famiglie più tradizionaliste.
Qualche rigo sopra l’ho, giusto per esemplificare, definito una zuppa,
ma zuppa è esattamente la cosa che questo piatto, se ben preparato non
deve assolutamente diventare. Il pane infatti, che è l’ingrediente
base, attraverso un perfetto dosaggio dell’acqua e dell’olio deve, a
differenza del gazpacho andaluso (questo si una zuppa), conservare una
marcata consistenza e allo stesso tempo presentare una voluttuosa
morbidezza. Qualcuno obbietterà che le due caratteristiche sono in
antitesi e a me non resta che rispondere, come mi è capitato di fare
nel descrivere altre arcaiche semplici preparazioni contadine, che per
preparare questo piatto occorre possedere una buona dose di cromosomi
di: massaro, di alàno, di contadino, o di bracciante… in mancanza di
questo peraltro non raro patrimonio genetico, non vi resta che farvelo
preparare da una brava massaia salentina che ne sia ben dotata e state
sicuri che constaterete le sopraccitate caratteristiche e ne serberete
a lungo il ricordo come un’esperienza gastronomica di non poco conto.
Facile ipotizzare, che questa preparazione, vista la somiglianza con il
gazpacho, sia di origine spagnola, frutto di una contaminazione
culturale avvenuta durante la secolare dominazione aragonese. Potrebbe
rafforzare questa ipotesi la presenza in Spagna della jeringuilla, un
tempo il pasto dei braccianti giornalieri andalusi che costituisce una
versione più semplice di gazpacho, ove gli ingredienti, invece di
essere ridotti in purea, vengono mischiati gli uni agli altri ottenendo
così un risultato molto vicino a quello della nostra acqua e
sale.
Ma torniamo decisamente all’acqua e sale nostrana. Per prepararla occorre il pane di grano duro esclusivo del Salento cotto in uno degli ancora numerosi forni di pietra alimentati con ramaglia di ulivo.
Questo, che deve essere ben raffermo, viene tagliato a cubetti di circa tre centimetri di lato e posto in un piatto reale (questa è la denominazione dei grandi piatti rustici salentini), deve essere irrorato copiosamente d’olio di frantoio e rigirato per bene, quindi bagnato abbondantemente con acqua fresca che deve essere fatta defluire a filo da una brocca, condito strizzando sopra un bel po’ di pomodorini indigeni ricchi di semi e aggiungendo cipolla Barlettana cruda tagliuzzata, precedentemente messa qualche ora ad attutire l’
acredine in aceto di vino, origano e sale. Si rimesta quindi il tutto e
si serve. Si può completare con l’aggiunta di origano, capperi, rucola.
Come spesso avviene, esistono numerose versioni da quelle più arcaiche,
precolombiane, insaporite solo con cipolla e origano a quelle più
recenti, decisamente molto più ricche, ove possiamo trovarvi inseriti
peperoni cornetti verdi, peperoncini piccanti, meloncelle, finocchio di
mare o caruselle sottaceto, sott’oli e sott’aceti vari.
Una versione molto semplice si faceva in quasi tutte le famiglie in occasione della preparazione casalinga della salsa, e prevedeva come condimento solo lu
criddhru o riddhru, ossia i semi dei pomodori ancora avvolti nella loro
placenta, recuperati durante una fase della preparazione della salsa.
Questi, venivano semplicemente conditi con olio, sale e aromatizzati
con spicchi d’aglio fresco contusi, quindi aggiunti copiosamente all’
acqua e sale. Come avrete notato, sono stato costretto a coniugare
quest’ultimo periodo al passato, infatti, la salsa nelle famiglie si fa
sempre di meno e ove la si continui a fare, i pomodori che vengono
utilizzati, meraviglia del progresso, non hanno più lu criddhru.
Comunque si andranno ad evolvere la società ed il gusto, ad immortalare
ad imperitura memoria l’acqua e sale, resteranno gli splendidi versi di
questo, grande poeta salentino:
L’acqua e sale
Ci si fita cu ffazza
l’acqua e sale
co queddhra ca facìa lu tata mia…!
parìa ’nu patre ca
sta cunsacrava
nu sacerdote ca messa ticìa:
spizzàa lu pane ’
mpruscinutu e tuestu
’ntra lu piattu minzanu lu punìa
poi ’nci spandìa
ti sobbra sale e prestu
l’acqua filandu ti lu qualu issìa;
russi li pummitori a ddhoi spaccava
stringìa lu criddhru e intra lu mintìa
cu lu tìscitu l’uegghiu mmisurava
quarche stizza ti citu puru scia.
Mo’ no’ ’ndi saggiu cchiù ti ddhri sapuri
no pare veru, ma ci vo pinsandu
scopru ca ddhr’acqua e sale mi sapìa
ti cuntintezza e di llavoru tantu
Elio Marra