di Fabrizio Suppressa
Se c’è un elemento che può descrivere appieno le caratteristiche dell’agro neretino, questo è certamente l’acqua; materia presente e al contempo nascosta, che ha modellato il paesaggio naturale ed umano di quest’angolo di Salento.
Tale rapporto tra territorio e acqua lo si evince già dalle tante leggende. Si narra infatti che l’insediamento di Nardò fu fondato laddove un toro, colpendo con lo zoccolo il terreno, fece zampillare una sorgente d’acqua. Ritroviamo lo stesso legame anche nell’etimologia della parola “Arneo”, poiché secondo alcuni studiosi il termine deriva da Varneus, toponimo che indica un “terreno ricco d’acqua”[1].
Il prezioso liquido, con le sue strutture per l’approvvigionamento, ha disegnato ed impresso la trama della viabilità e della toponomastica dell’Arneo. Nella parte bassa e pianeggiante di questo territorio, pozzi attingevano ad uno dei più vasti giacimenti d’acqua dolce del Salento, ma poiché era difficoltosa sia la natura geologica del suolo sia la pratica di scavare pozzi, il numero di questi scavi nel passato era assai esiguo.
Ed infatti durante il periodo medioevale la maggior parte dei casali si addensa in prossimità di una risorsa idrica esistente e in alcuni casi il nome deriva proprio da questa caratteristica, come ad esempio Pozzo d’Arneo e Pozzovivo. La prima località, che fu in epoca imperiale una villa rustica, conserva ancora l’antico pozzo di fattura romana scavato a mano[2] e fu per secoli punto di riferimento per la viabilità neretina trovandosi in prossimità della via Sallentina. Proprietà termali sembra avessero avuto le acque del profondo pozzo della masseria Messere, nelle vicinanze del secondo casale, tant’è che nel ‘600 molti nobili e prelati neretini venivano a curarsi il così detto “mal della pietra”[3].
Anche nel periodo successivo al Medioevo, l’elemento acqua ha contribuito a variegare la geografia del territorio. Come ad esempio masseria Ingegna, nome che ricorda la ‘ngegna, una noria o ruota idraulica mossa a forza animale, che grazie ad un sistema di pulegge e secchi, sollevava l’acqua dal fondo del pozzo alle colture.
Altrettanto curiosa è l’origine del toponimo “monsignore” dove è sita la famosa masseria Trappeto. La leggenda popolare narra di una ricca ereditiera, proprietaria di tutti quei vasti fondi, che fu rinchiusa dai familiari in un profondo pozzo, poiché voleva donare le estese proprietà alla chiesa e lasciare a bocca asciutta gli spietati parenti. La caparbia signora però non cedeva, ed ogni volta che i congiunti la sollevavano dal fondo per convincerla a firmare; alla domanda “a chi vuoi lasciare i beni?” lei rispondeva a squarciagola “al monsignore!”. Il profondo eco provocato dalle pareti del pozzo fece risonare a lunga distanza questa parola, tant’è che ad oggi non sappiamo che fine fece la facoltosa ereditiera ma sappiamo che tutt’ora i contadini chiamano quel territorio con quel nome, ricordando con un sorriso questo episodio.[4]
Al contrario, nella parte più collinare dell’Arneo, dove era praticamente impossibile raggiungere la falda freatica, era più frequente incontrare le cosiddette cisterne a tetto; opere estremamente necessarie per poter abbeverare le numerose greggi che qui sostavano. Nel gergo dialettale, a seconda del territorio, sono tuttora chiamati acquari o cisternoni, il primo vocabolo è più diffuso in pieno Arneo e nei comuni a nord come Avetrana, mentre il secondo è ricorrente nei centri urbani a sud come Nardò e Copertino. Probabilmente il termine acquaro era maggiormente utilizzato in aree che hanno avuto storicamente una maggiore influenza dei dialetti propriamente pugliesi a causa della transumanza. Non dimentichiamoci che per secoli questo territorio fu un “riposo” ovvero il luogo, dove greggi e pastori provenienti dai rilievi degli Appennini trascorrevano i lunghi inverni.
Tali strutture raccoglievano le acque meteoriche provenienti dal tetto, all’interno dell’ipogeo scavato nella roccia e intonacato con cocciopesto, filtrando il liquido attraverso la volta in tufo e gli strati superiori di terra ed erba. In altri casi i cisternoni raccoglievano le acque piovane provenienti da lievi pendii in un primo vano dell’ipogeo, separato da un muro di tufo con la restante camera, dove l’acqua filtrata poteva essere sollevata con un otre di pelle mediante una trozza e rilasciata negli abbeveratoi. Le cisterne riuscivano a produrre una piccola quantità d’acqua anche d’estate e senza pioggia, grazie infatti a piccole aperture e allo sbalzo termico, l’aria calda carica di umidità condensava sulle pareti interne e sulla volta, producendo piccole goccioline, che ricadendo rifornivano la cisterna[5].
Anche queste costruzioni, come i pozzi, hanno contribuito nel disegno della viabilità e del paesaggio, come ad esempio la cisterna di monsignore segnata sulle cartografie come punto di convergenza di molti sentieri provenienti da tutto l’Arneo o la via ti l’acquari che collegava i pascoli con Avetrana e con il tratturo martinese[6].
La presenza di strutture per l’approvvigionamento idrico fu vitale per l’economia latifondiaria. Ne ritroviamo l’importanza negli atti notarili, dove tali opere compaiono puntualmente nella descrizione dettagliata dei beni, sotto le voci di trozza o trozzella (dal nome dialettale della carrucola), puzzo, pile e puteo, come possiamo rilevare da alcuni rogiti di masserie neretine.
Per esempio, nel 1578 la masseria Santa Costantina, nell’Arneo, di Francesco Valentino di Nardò, consiste in terre colte ed incolte, macchiose, con termiti ed erbaggi, con curti, cisterne, pozzo, torre, casa lamiata sopra e sotto la cavallerizza, cortilio cum cisterna et puczo dentro, et in pluribus alienis membris. La masseria Palazzi, posta vicino a quelle di Donna Menga e Schiavoni, i beni del monastero di S. Chiara e la via pubblica, nel 1606 consiste in terris factitis, machosis, cultis et incultis, olivetis, domo, curtibus, fornello, grutta, trozza, puteo. La masseria Nociglia, soggetta a decima al feudo di Carignano, nel 1840 consiste in casamenti di abitazione, di ricovero del bestiame, riparar paglia e mercia, accanto un forno, magazino, aja, trozza con sei pile per abbeverare gli animali, una per lavare panni e due cisterne, curti inselciati, tutti murati a pietra secco.
Anche il diritto e l’uso ad attingere l’acqua veniva regolamentato da atti notarili, come possiamo desumere da un atto del 1830 concernente la masseria Agnano; tale contratto consiste in case inferiori, torre proposta alla mercia, capanne, giardino murato, colombaia, cappella, oltre al diritto di attingere acqua ed abbeverare nella trozza sulla strada vicino la massaria Bernardini. Ed ancora nel 1602 la masseria Bovilli venne divisa tra gli eredi e nella divisione rimasero in comune tra le due parti la trozza e le pile che si trovano in essa, tre tomole di terra che stanno al pontone delli curti e alla banda della via provinciale verso la masseria degli Epifani di Gio: Francesco Sambiasi. In tale zona potevano pascolare liberamente ed abberverarsi sia gli animali di Vitantonio che quelli di Petruzzo[7].
Ritroviamo palesarsi nuovamente il rapporto tra l’acqua e il paesaggio “umano” nelle opere messe a protezioni dalle cadute attorno all’imboccatura del pozzo. Le vere incarnano nelle loro forme e nelle loro decorazioni forti valenze simboliche, derivanti dal rispetto e dalla sacralità che il prezioso liquido ha da sempre destato nella popolazione locale. Nei casi più elaborati, nelle ville e nelle masserie, i puteali seguono gli stili dell’epoca e contemplano nei loro elementi decorativi simboli che fanno riferimento al cristianesimo, come croci latine e conchiglie di San Giacomo, oppure piccole nicchie con affreschi di rappresentazioni sacre. Al contrario in opere più povere e spartane troviamo quasi sempre una o più semplici croci incise nei blocchi di pietra, dalla mano fedele di qualche pastorello.
Straordinario esempio, tra tante opere, è il pozzo della Villa Scrasceta, inserito prospettivamente nel complesso architettonico sorto attorno alla fine del Settecento per il piacere di vivere in campagna. Nel timpano sorretto da possenti colonne e avvolto da sinuose decorazioni floreali, vi è incastonata un’emblematica epigrafe in latino:
NYMPHARUM LOCUS
SITIENS BIBE
LYMPHA SALUBRIS – UBERIBUS
PULCRAE NAIADIS
ECCE FLUIT.
Ovvero “Questo è il luogo delle Ninfe, o sitibondo, bevi. Ecco qui scorre l’acqua chiara salutifera dai seni della bella Naiade”[8]. Probabilmente, grazie alle doti umanistiche del proprietario-committente, la simbologia cristiana si affianca o cede il posto a chiari riferimenti della mitologia classica. Al contempo l’opera non è da considerarsi profana, poiché permane viva la sacralità delle acque, sorvegliate e protette in questa circostanza dalle ninfe figlie di Nereo e Doride, e frattanto la conchiglia del pellegrino, posta alla base della vera[9], può essere interpretata come il simbolo di Afrodite o l’atto del battesimo come altresì l’attributo di San Giacomo.
Tali sacralità traggono probabilmente le proprie radici nel culto ancestrale dell’acqua che le prime popolazioni nomadi praticavano all’interno di grotte naturali, come ben testimoniato dai ritrovamenti archeologici in molte grotte cultuali del territorio salentino e dell’area mediterranea. Proprio in questi ambienti ipogei, grazie al continuo stillicidio di gocce d’acqua dalla sommità della caverna e dalle stalattiti, si accumulava la più importante risorsa per la sopravivenza dell’uomo nella sitibonda Apulia.
[1] G. Pasanisi, Porto Cesareo: dalle origini ai nostri giorni, Lecce 2002, p. 102
[2] Ibidem p. 104
[3] F. Verdesca, Copertino: origini, usi e costumi, Galatina 1986, p. 23
[4] Ringrazio per questo aneddoto l’amico Francesco Politano.
[5] Pietro Laureano, Atlante d’acqua, Torino 2001, p. 120
[6] I. Palasciano, Le lunghe vie erbose, Lecce 2001
[7] Ringrazio l’amico Marcello Gaballo per la segnalazione di questi atti notarili.
[8] E. Mazzarella, Nardò Sacra, a c. di M. Gaballo, Galatina 1999, p.399
[9] Al di sotto della conchiglia vi è l’epigrafe PRAESENS FONS PERENNIS INCERTUS FUIT DIE VII MARTII DCCXXXXVI (Trad. La presente fonte sorgiva fu incerta (fino al) 7 marzo 1746) e dall’altro lato sempre al di sotto della conchiglia, AEMANAVIT AQUA DIE XVI AUGUSTI MDCCXXXXVI (Trad. Emanò l’acqua il giorno 16 agosto 1746). E. Mazzarella, Nardò Sacra, a c. di M. Gaballo, Galatina 1999, p.399. Ringrazio l’amico Marcello Gaballo per la segnalazione di questo libro.
pubblicato su Spicilegia Sallentina n°7
[…] http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/09/20/il-paesaggio-dellarneo-attraverso-i-segni-e-i-l… […]
Approfondire la conoscenze superficiali che molti di noi pur hanno, significa essere guidati a vedere con occhi nuovi il nostro patrimonio di cultura,, storia,territorio e a gustarlo in modo più intenso col sapore che ci dà la consapevolezza della nostra identità salentina.Molto bello questo lavoro di storia e ricerca.Ne ho gradito tutta la fragranza!Complimenti!
La masseria “Messere”,situata sulla Copertino-Nardò si estende per circa 45ha,confina da un lato con la masseria “Cornula” dove un tempo i suoi terreni facevano parte della masseria “Olivastro” e di fronte ha la masseria “la Torre” che altro non è che una copia in scala del castello di Copertino.
Proprietà di tre fratelli, due sono miei zii e l’altro era mio padre.
Di quella antiche strutture è rimasto ben poco,i suoi fabbricati sono stati rimaneggiati in barba al più elementare spirito di conservazione e rispetto per l’architettura rurale e di quel famoso pozzo che tanto veniva decantato nell’antichità per le proprietà delle sue acque,oggi non cè più traccia, è stato distrutto circa 40 anni fa quando un uomo decise di togliersi la vita.
Per dovere di cronaca devo far presente che non lontano ce un altra masseria chiamata “Messere Piccolo” e non so se qui ci siano pozzi di rilevante importanza.