di Armando Polito
Le prefiche, dipinto di Franco Corlianò1
Questo post, per via delle frequenti “incursioni” nel dialetto napoletano, compare in contemporanea sul sito http://www.vesuvioweb.com/new/ con l’augurio che possa essere l’inizio di un felice gemellaggio.
Le parole hanno una vita molto simile a quella degli uomini: possono durare poche stagioni o molti anni; alcune di loro, però, sembrano ricalcare pure il comportamento che un uomo può assumere nel corso della sua esistenza: come uno può essere, infatti, coerente con i suoi principi o “ballerino”, così le parole col tempo, essendosi estinto il fenomeno che esse definivano, grazie a quella forma di trasformismo linguistico che si chiama metafora, possono sopravvivere assumendo un nuovo significato molto labilmente collegato a quello di partenza.
È il caso di talùernu che nel dialetto napoletano (taluòrno o talòrno) designava la veglia funebre in cui erano protagoniste delle vere e proprie professioniste del lamento che, a pagamento, accompagnavano con il loro “canto” il defunto nell’ultimo viaggio.
Si tratta di una consuetudine fino alla metà dello scorso secolo ben nota anche in Puglia, ma di origini remote. Praefica (da praefìcere=mettere a capo) si chiamava nell’antica Roma colei che dirigeva le ancelle nel corso della lamentazione funebre. Per il mondo romano ne abbiamo il ricordo in Plauto (III°-II secolo a. C.)2 e in Varrone (II°-I° secolo a. C.)3; per il mondo greco spicca per il lucido disincanto (quanto ne avremmo bisogno oggi!) la favola di Esopo (VI° secolo a. C.) Plùsios kai threnodòi (Il ricco e le prefiche)4.
Il significato originario della voce in questione nella letteratura napoletana si presenta un po’ sfumato in Sgruttendio (XVII° secolo)5, ma già in Giambattista Basile, che di poco lo precede, aveva assunto il significato metaforico attuale di fastidio6, per recuperare quello iniziale in Biagio Valentino (XVIII° secolo)7. Chi ha appena finito di leggere la nota 6 e sia rimasto turbato dalla “volgarità” dell’immagine può riprendersi con questi versi della celebre Funiculì funiculà (Luigi Denza. Peppino Turco, 1880) : Lo core canta sempe ‘no taluorno:/ Sposammo, oi’ Ne’!… Sposammo, oi’ Ne’!… (Il cuore canta sempre una cantilena: Sposiamoci, o Nina…Sposiamoci, o Nina!…). Chissà, però, cosa avrebbe risposto Nina se nell’aria fosse aleggiato ancora il primitivo significato funebre della parola e lei l’avesse colto…
E come tacere del proverbio Ogne gghiuorno è taluorno (ogni giorno è noiosa ripetizione) in cui è condensata un’amara e rassegnata concezione della vita?
Nel dialetto neretino la voce ha assunto il significato di oggetto inutile, ingombrante (llende ti miènzu ‘stu taluèrnu!=togli di mezzo quest’oggetto che dà fastidio!) e di persona assillante e fastidiosa (mamma, cce ttaluèrnu ca sinti!=mamma, che seccatore che sei!).
Ma taluèrnu, si starà da tempo chiedendo il lettore che ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui, da dove deriva?
Il Rohlfs si limita a rinviare a latuèrnu usato col significato di piagnisteo, lamentela, suono noioso, seccatura nel Brindisino e nel Tarantino (ma la voce, nella forma latuòrno, è usata anche in Lucania), senza alcuna proposta etimologica. La cosa è strana proprio perché in questo rinvio, secondo me, è racchiuso il segreto dell’etimo.
Credo, infatti, che latuèrnu sia il figlio (con normale cambio della liquida iniziale: l->r-) di un non attestato *ratuèrnu, in parte corrispondente all’italiano ritorno, nel senso che, mentre quest’ultimo è formato dalla particella ripetitiva ri– (dal latino re-)+tornare (dal latino tornàre=lavorare al tornio, da tornus=tornio, a sua volta dal greco tornos=compasso, forma circolare, tornio, dal verbo tèiro=logorare, sfinire, indebolire), *ratuèrnu, invece, è formato da ra– (derivante dal precedente re-+la preposizione ad, come in rabuffàre); da latuèrnu, infine, per una comunissima metatesi [del tipo, per fare un esempio, di tarìce (=ravanello) da radice], si giunge a taluèrnu.
Una conferma a tutto ciò verrebbe dalla conservazione dello stesso concetto in sinonimi come rièpeto o lièpeto usato nel Napoletano e che ha il suo parallelo salentino in rèpitu usato a Corigliano d’Otranto, Lizzanello e Melissano (la voce è registrata tal quale con lo stesso significato nel Nuovo dizionario siciliano-italiano di Giovanni Mortillaro, Stamperia Oretea, Palermo, 1844). Ricordo che rièpeto, lièpeto (per quest’ultimo, rispetto al primo, stesso passaggio r->-l di latuèrnu rispetto a *ratuèrnu) e rèpitu sono tutti deverbali dal latino reputare=contare, riflettere, ma nel significato particolare che questo verbo ha assunto nel sostantivo reputatio che dal significato classico di conto, riflessione è passato a quello medioevale registrato nel glossario del Du Cange: Lamentatio mulierum, quae suis cantibus luctuosis in funeribus omnes ad lamentandum excitabant, hinc Reputatrices et Reputantes dictae, quod defunctorum gesta reputarent seu narrarent (Lamento delle donne che con i loro canti luttuosi nei funerali eccitavano tutti a lamentarsi; da qui dette Reputatrici o Reputanti, poiché passavano in rassegna o narravano le gesta dei defunti). Sui rapporti concettuali strettissimi tra l’idea di passare in rasegna e quella di ripetere (il canto funebre è una specie di ritornello sulle virtù del defunto) credo che non sia il caso di perdere tempo, tanto sono evidenti.
Ecco, allora, come una parola nata con una valenza in un certo senso sacrale ha saputo nel tempo riciclarsi e sopravvivere assumendo un significato non solo laico ma, addirittura, dispregiativo, riferito prima ad un oggetto e successivamente anche ad una persona. Mi chiedo quale sarà il suo prossimo salto, se sarà ancora in grado di saltare, dal momento che, come un essere umano ha bisogno di aria per vivere, così anche la parola, dialettale e non, ha bisogno di essere usata; e, purtroppo, al dialetto (della cui ricchezza nel mio piccolo spero di aver dato un’ulteriore prova) si guarda ancora, per me criminalmente, con sospetto, per non dire con disprezzo…
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1 Ferroviere macchinista, musicista, poeta e pittore e scultore, con lo pseudonimo Murghi, di Calimera. Fra l’altro nel 1972 pubblicò Klama (=pianto; voce grika, in neogreco idem, entrambe dal classico klaumòs/klauthmòs e questo da klàio=piangere), un traudi (=canto; voce grika, in neogreco tragùdi, entrambe dal classico tragodìa=tragedia, poesia solenne) sul tema dell’emigrazione, che ebbe successo anche in Grecia nell’interpretazione di Maria Farandouri.
2 Truculentus, Atto II, scena VI: Facile sibi facunditatem virtus argutam invenit;/sine virtute argutum civem mihi habeam pro praefica,/quae alios conlaudat, eapse sese vero non potest (La virtù trova facilmente chi la celebri eloquentemente; un cittadino eloquente senza virtù io lo considerei alla stregua di una prefica che loda gli altri ma così non può fare di se stessa).
3 De lingua Latina, VII: Praefica dicta, ut Aurelius scribit, mulier ab luco quae conduceretur quae ante domum mortui laudis eius caneret. Hoc factitatum Aristoteles scribit in libro qui inscribitur Nomima barbarika, quibus testimonium est, quod in Freto est Naevii: Haec quidem hercle, opinor, praefica est: nam mortuum collaudat. Claudius scribit: Quae praeficeretur ancillis, quemadmodum lamentarentur, praefica est dicta. Utrumque ostendit a praefectione praeficam dictam (È chiamata prefica, come scrive Aurelio, la donna che veniva condotta dal bosco sacro perché davanti alla casa del morto ne cantasse le lodi. Di questa abitudine Aristotele scrisse nel libro che si intitola Usanze straniere, di cui è prova ciò che compare nel Freto di Nevio: Costei, per Ercole, credo che sia una prefica: infatti loda un morto. Claudio scrive: Colei che era messa a capo delle ancelle perché si abbandonassero ai lamenti è chiamata prefica. L’una e l’altra testimonianza mostrano che la parola praefica deriva da praefectio [sostantivo dal praefìcere prima ricordato]).
4 Ad un uomo ricco che aveva due figlie accadde che gliene morisse una. Avendo pagato delle prefiche, esse piangevano in modo troppo musicale. Avendo l’altra figlia detto alla madre: “Sventurate noi, non sappiamo piangere per un fatto che ci arreca dolore, mentre queste che non sono nemmeno parenti si struggono tanto energicamente”, la madre le ribattè: “Non meravigliarti, figlia! Fanno questo per amore del denaro”. La favola insegna che (alcuni) per amore del denaro non indugiano a trarre guadagno dalle disgrazie altrui.
5 La tiorba a taccone, Corda VI, sonetto II: …Io, Smenchia mio, co li Scazzamaurielle/pozzo fa lo sciabbacco e lo taluorno,/ca no spero avè feste né giojielle…(Io, Smenchia mio, con i folletti posso fare lo schiamazzo e il lamento funebre, perché non spero di avere festeggiamenti né gioielli…). Il sonetto è in risposta a quello di un sedicente poeta-rivale (e nel soprannome Smenchia, sulla cui etimologia sorvolo, è condensata tutta la stima che lo Sgruttendio ha di lui). Scazzamaurielle è il corrispondente del nostro munacèddhu, creatura fantastica che, scalzo e con un cappellino in testa, ama sedersi sulla pancia del dormiente. Se gli si dona un paio di scarpe si verrà ricompensati con monete d’oro o con l’indicazione dell’acchiatura, posto dov’è nascosto un tesoro. Tenendo conto che nel brindisino è chiamato carcagnùlu (per la sua abitudine di calcare il petto del dormiente), a Monteroni maurièddhu e che a Manduria maùru significa orco e a Monteroni incubo, è evidente come maurièddhu è diminutivo di maùru che per il Rohlfs è incrocio di mau (spauracchio dei bambini, da mago) e laùru, usato con lo stesso significato nel Leccese, nel Brindisino e nel Tarantino (da un latino volgare agùrium dal classico augurium, con lenizione di –g– e agglutinazione dell’articolo:l’agùriu>l’aùriu>l’aùru>laùru); scazzamaurielle (che per giunta, ha i gemelli in scazzamurrièddhu del Leccese e in scazzamurieddhu del Tarantino) perciò risulta da s– intensiva+cazza (da cazzàre=schiacciare)+maurielle corrispondente al salentino maurièddhu, significando alla lettera incubo che opprime. Per sciabbacco il Vocabolario dei Filopatridi così recita: Voce restata a noi dalla francese Sahath e che originariamente deriva dalla volgare opinione che nel sabato la notte le streghe si unissero sotto una noce (sic!) in qualche foresta a far tripudio e baccano.
6 Ecroga I: …Scompimmo ‘sto taluorno,/ca m’abbotta ‘sto mafaro… (Poniamo fine a questo fastidio che mi gonfia il buco del culo). Màfaro (màfaru nel Leccese, màfere nel Tarantino) indica il tappo della botte ma, per traslato anche il foro della stessa; la voce per il Rohlfs è dall’osco *manfar=tappo.
7 La fuòrfece. Sonetto Le Mmuse chiagneno attuorno a lo sebburgo de lo poeta, vv. 1-4: Le Mmuse tutte quanta stann’attuorno/de Jaso a lo Sebburco a picciare, e no nc’è chi le pozza conzolare,/fanno creciello, e fanno no taluorno
(Le Muse tutte quante stanno intorno a pigolare intorno al sepolcro di Giaso e non c’è chi le possa consolare; schiamazzano e intonano una lamentazione funebre). Picciare è dal latino pipiàre=pigolare; creciello (o greciello) nel citato vocabolario dei Filopatridi è dal latino crocitàre, intensivo di crocìre=gracchiare (di origine onomatopeica) ma, secondo me, il vocalismo rende più plausibile una derivazione dal latino gracitàre=gracidare (dell’oca) (anche questo di origine onomatopeica).
“Nel dialetto neretino la voce ha assunto il significato di oggetto inutile, ingombrante”. Giustissimo, Armando. Soprattutto ingombrante. Fosse infatti di piccole dimensioni si indicherebbe con “scigghiu”. In ogni caso è sempre qualcosa che si tocca, che si vede. Se così non fosse, riferendosi a soli concetti, senza materialità, il popolo utilizzerebbe “purcarìa”
Buongiorno , anche a Novoli usavamo dire per TALUERNU( Lenne teè nnanzi stu taluernu).
Sempre a Novoli il significato di “CONSULU” era un tradizionale banchetto dopo lo svolgimento del rito funebre che si svolgeva nella casa del defunto
o presso dei vicini, e veniva offerto ai parenti più stretti.
L’URU nella tradizione del Nord Salentino a Novoli veniva identificato con il nome “Dispettoso Uru” aveva un berretto rosso, per natura giocava, provocava rumori, rovesciava piatti e pentole, nascondeva gli oggetti per poi farli ritrovare molto tempo dopo.
un saluto
Ersilio Teifreto
Puntuale ricerca storica e filologica. Complimenti!
Se può esser utile,il lamento funebre a San Marco in Lamis sul Gargano (per inciso quando scendiamo in pianura diciamo che caliamo in Puglia) lo fanno i familiari stretti. Se nella veglia notturna non c’è quasi nessuno lo fanno il giorno seguente e anche la notte successiva se c’è gente….. esprimendo l’affetto per il morto e sottolineandone i lati buoni e le cose belle che ha fatto. Raramente stigmatizzando qualche difetto.
Questo almeno fino agli anni ottanta.
Per gli anni cinquanta i miei genitori che sono incappati dietro un corteo funebre a Sannicandro Garganico mi hanno riferito che per un paio di ore di tragitto i familiari a voce alta ripetevano continuamente:” Uh tat’ mij’ tat’ bon’, uh tat’ mij’ tat’ bon’… O padre mio padre buono.
Circa lu scazzamuredd’ oltre a pesare sulla pancia è identificato come un essere cattivo che fa rumori molesti in casa e perfino altri pesanti dispetti anche se si cambia casa.
Un essere mitico che tira giù nella cisterna o nel pozzo è lu trajon’ a San Marco in Lamis, variante travòn’ a San Giovanni Rotondo e travon con la o chiusa a Rignano Garganico.
Derivanti tutti dal latino traho, trahis, tactum, trahere col significato di prendere con sé, tirare, attrarre, spingere…
Tanti auguri e buona notte.