di Armando Polito
Usato da solo: mamma, come in italiano; pure in senso traslato per indicare a Nardò il deposito mucillaginoso dell’aceto, che, data l’alta concentrazione di acido, favorisce il passaggio ad aceto del vino aggiunto), a Cisternino il fior fiore dell’olio, a Mesagne tanto la feccia del vino che il fior fiore di ogni cosa.
In espressioni esclamative: ma’ (forma apocopata del precedente).
Un uso particolare è quello che mostra la sua fusione con l’aggettivo possessivo di prima, seconda e terza persona singolare in forma enclitica invariabile, si direbbe di genere femminile (il fenomeno riguarda solo tutte le voci riguardanti gradi di parentela):
màuma a Maglie (da ma’ +aggettivo possessivo enclitico); màtrima a Nardò.
màmmata (Nardò, San Cesarea Terme, Galatina, Oreanto, Tiggiano, Mesagne), màmata (Taranto)
màmmasa (Nardò, Salve, Oria); màmmisa (Carovigno); la mamm (Palagiano; qui il possessivo di terza persona singolare è sottinteso).
Al plurale il nesso è simile a quello italiano: (li mamme nosce, li mamme osce, li mamme loru=le mamme nostre, le mamme vostre, le mamme loro).
Il fenomeno dell’aggettivo possessivo enclitico, in parte comune con molti dialetti meridionali, non è ignoto neppure al fiorentino del XIV° secolo: Dante, Inferno, XXIX, 76: …a ragazzo aspettato dal segnorso; Giovanni Boccaccio, Decameron : fràtelmo (novella settima dell’ottava giornata), mògliema e mòglieta (novella sesta dell’ottava giornata); Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, CLXV: …Meglio la conobbe mammata…).
Va detto che a Nardò sono usati pure nessi alternativi, più raffinati, simili all’italiano: la mamma mia, la mamma tua, la mamma sua; in questi casi (ma succede con qualsiasi nome sia accompagnato da un possessivo) l’aggettivo (sempre con desinenza femminile) segue sempre il sostantivo: si ha così lu papà mia, lu papà tua, lu papà sua; la rrobba sua, lu ìzziu sua1). Anche questo fenomeno è comune, oltre che con altri dialetti meridionali, con quello ravvisabile nella prosa dotta del XV° secolo; un esempio per tutti: …se scriva in nome sua…, in Franca Leverotti, Antonella Grati, Maria Nadia Covini, Isabella Lazzarini, Ministero per i beni culturalie e le attività culturali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma, 2003, Carteggio degli oratori mantovani alla corte mantovana sforzesca (1450-1500), pag. 416 e, con il possessivo invariabile ma preposto, addirittura in testi delle origini (Annales Pisani: …con consiglio de sua Principi…) e del XIII° secolo (Cronica ronciniana: …con sua cavaglieri…2).
Un’ultima riflessione: se quest’uso avesse coinvolto nella sua forma sciolta (come avviene per quella enclitica) solo i nomi di parentela, avremmo potuto cogliervi, forse, un influsso del matriarcato sulla lingua, a parziale rivalsa nei confronti di quel maschilismo di cui ancora oggi rimane la traccia in tante voci di uso comune; anche qui pochi tra i numerosi esempi: perché uxoricidio, come ho avuto occasione di ricordare recentemente, solo estensivamente significa uccisione del coniuge, mentre per lungo tempo ha significato uccisione della moglie (il che significa che non era neppure concepibile che la moglie ammazzasse il marito)? E che dire dell’adulterio (e del connesso, troppo a lungo vigente, delitto d’onore), colpa considerata per millenni più grave quando imputato alla donna o, addirittura, quando imputato all’uomo, motivo di vanto e manifestazione di presunta potenza virile, sicché la stessa donna poteva, in una sorta di perverso, autolesionistico compiacimento alimentato dall’educazione corrente, più che subire, accettare corna a destra e a manca, senza farsene una ragione, come si fa con tutto ciò che è ovvio e scontato?
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1 Non è facile individuare l’origine di questa forma invariabile; potrebbe essere nata da un aggettivo femminile originariamente accompagnato dal sostantivo cosa poi sottinteso: quìstu è mmia (=questo è mio) nascerebbe, perciò, da quìstu è (cosa) mia. Al plurale potrebbe aver avuto un ruolo determinante il neutro plurale latino mea=cose mie.
2 Questo costrutto si conserva anche in quella che probabilmente è la più antica iscrizione che si conosca del volgare neritino, certamente non posteriore al XIV° secolo, leggibile in Cattedrale: …EL SUA NOME…
Fino a non molti anni fa, a Melissano e paesi limitrofi, c’erano ancora delle persone che per chiamare la mamma (ma soprattutto per richiamare la sua attenzione) usavano il termine “immà”, derivato, per contrazione, dall’interiezione ehi + mamma.
Credo, invece, che immà derivi dal greco òi mamma=oh, mamma!, al pari dell’interiezione neritina imàna mia!=mamma mia!.