Il libro, pubblicato nel 1984, si inserisce nel filone delle microstorie che privilegiano le storie locali in un limitato arco di tempo. Vengono presentati gli avvenimenti della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia negli anni 1860-1862. La figura del brigante Chiavone è tenuta quasi sullo sfondo della corale reazione all’invasione ed annessione piemontese del Regno delle Due Sicilie. Clero e contadini, la stragrande maggioranza del popolo meridionale quindi, si oppongono ai galantuomini borghesi che per salvaguardare i loro privilegi si sono schierati con i piemontesi, che con l’alibi dell’attuazione del sogno liberale dell’unità d’Italia sono venuti al Sud per impossessarsi degli appetibili beni del Regno delle Due Sicilie. I briganti sono il braccio armato di questa resistenza.
Attorno ai briganti si gioca una partita che vede un non indifferente movimento di capitali, gestiti dalla Centrale borbonica che si era formata nello Stato Pontificio, dove aveva trovato ospitalità l’ultimo re di Napoli Francesco 2°, e che aveva come quasi impossibile obiettivo il ritorno del Borbone a Napoli. Insieme ai briganti lottarono tanti legittimisti stranieri corsi in aiuto di Francesco 2° e della regina Maria Sofia. Ma mentre i briganti combattevano per un loro miglioramento sociale, non sempre chiare sono le finalità dei legittimisti.
Teatro della guerriglia delle bande armate di Chiavone sono la parte meridionale dello Stato Pontificio e i confinanti Terra di Lavoro e Abruzzo Ultra. I briganti agivano nel territorio dell’ex Regno delle Due Sicilie, con epicentro a Sora, ma per sfuggire ai piemontesi si rifugiavano nel Territorio Pontificio, dove l’esercito francese dimostrava grande acquiescenza. Le abbazie di Casamari e Trisulti ed il convento di Scifelli offrivano ospitalità ai briganti.
Luigi Alonzi, detto Chiavone, era nato a Sora il 19 giugno 1825 da una famiglia di contadini. Per i suoi servigi a favore del re Francesco 2° era stato nominato guardaboschi del distretto di Sora e della Valle Roveto. Dopo l’invasione piemontese si diede alla macchia e riuscì a formare una nutrita banda di briganti, che lottò contro gli invasori. Nel periodo di maggiore auge la banda Chiavone, nominato comandante in capo da Francesco 2°, era suddivisa in otto compagnie e comprendeva 20 ufficiali, un chirurgo, 59 sottoufficiali e caporali, 7 trombettieri e 343 soldati, per un totale di 430 uomini.
Il libro è quasi un diario degli avvenimenti succedutesi tra il giugno 1860 ed il giugno 1862. Tanti fatti e tanti uomini si avvicendano in un biennio tragico per il meridione d’Italia. Oltre e più che capi e comandanti lasciano la loro traccia persone comuni e normali. Si sussegue, come in un martirologio, una lunga sequela di briganti arrestati e fucilati. Darne conto in una recensione è molto difficile e quasi impossibile. Ci limiteremo quindi a qualche considerazione di carattere generale.
Riteniamo che gli autori, pur in una meritevolissima opera di ricca documentazione, non siano riusciti a superare diverse contraddizioni dovute alla mancanza di una chiara scelta di campo tra oppressi ed oppressori, tra briganti e piemontesi. Nel libro troviamo affermazioni quali: «l’infimo ceto meridionale tornò al triste brigantaggio», la reazione dei briganti fu uno «scomposto volontarismo di massa», «i contadini, strumentalizzati dai reazionari, predisposti dall’ignoranza, animati da rancori antiborghesi, si armarono per lottare ancora una volta in difesa del trono e dell’altare», «cominciava a montare, soprattutto tra i ceti campagnoli, l’adesione chiassosa alla causa borbonica», «il generale spagnolo Tristany rimase sconcertato soprattutto della minchioneria di re Francesco». Ma troviamo anche scritto: «Luigi Alonzi, un oscuro guardaboschi, entrò da protagonista nella vita travagliata di Sora e da brigante dei più famosi nella storia dell’Italia liberale», «il personaggio principale della nostra storia è Chiavone e ci sembra che la sua immagine, in base agli avvenimenti riferiti, risulti in qualche misura migliore di quella tramandata da una tradizione costituitasi su quanto scrissero i vincitori, i concorrenti, gli amici interessati; la taccia di crudele, incapace, vile e traditore ci sembra immeritata», «la vera forza del brigantaggio era quella popolare», «a Sora tutti gli strati sociali tennero per la reazione rappresentata da Montieri e da Chiavone», «le classi egemoni si sforzarono di cancellare nella coscienza storica collettiva il ricordo della guerra del brigantaggio; tuttavia il tentativo di rimozione fallì e quella che nei paesi meridionali era una confusa memoria divenne, nel secondo dopoguerra, una chiara consapevolezza. Negli ultimi tempi le pubblicazioni sul brigantaggio hanno assunto carattere di vera e propria analisi storica e forniscono al pubblico un efficace strumento per la comprensione di molti aspetti della società contemporanea».
Sembra che i due autori camminino su strade contrapposte e che non siano riusciti nemmeno a trovare una convergenza parallela, che in qualche modo dia un valore positivo alla loro ricerca sul brigantaggio.
Nel libro è stato dato troppo credito e spazio ad autori che il brigantaggio hanno sottovalutato e screditato: Jacopo Gelli, Alessandro Bianco di Saint Jorioz ed in qualche modo anche Ludwig Richard Zimmermann. Da quest’ultimo autore, che aveva combattuto a fianco di Chiavone, è tratta tutta la parte finale del libro, che narra dell’ultimo periodo di vita del brigante sorano. Il tedesco Zimmermann insieme al legittimista spagnolo Rafael Tristany processarono e fecero fucilare Chiavone il 28 giugno 1862 nella boscaglia di Valle dell’Inferno.
Ferri e Celestino riservano nel loro libro ampio spazio anche al brigante Domenico Coja, detto Centrillo, al filoborbonico vescovo di Sora Giuseppe Montieri, al filopiemontese sottoprefetto Francesco Homodei, al legittimista Theodule De Christen.
Franco Molfese, nella prefazione al libro, scriveva che soltanto negli ultimi decenni è stato possibile svelare la vastità, la durata e la violenza del cosiddetto «brigantaggio»; le dimensioni del fenomeno hanno smentito i giudizi tendenziosi e riduttivi di «manifestazione di criminalità comune», tanto in auge nella storiografia «scolastica» del brigantaggio; gli aspetti di un profondo e violento moto di classe sono emersi dalla constatazione dell’appoggio reale dato dalle vaste masse contadine alla lotta armata delle bande.
Michele Ferri – Domenico Celestino, Il brigante Chiavone – Storia della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia (1860-1862), Edizione Centro Studi Cominium, Casalvieri (FR) 1984, pp. 408
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