di Alessio Palumbo
L’8 settembre di sessantanove anni fa, il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, pronto ad abbandonare Roma (o a trasferirsi, come ritengono alcuni), annunciò via radio l’armistizio stipulato 5 giorni prima a Cassibile.
L’Italia si spacca, l’esercito, abbandonato a sé stesso, si sbanda, si arrende ai tedeschi o, molto più raramente, oppone un’eroica, ma vana resistenza. All’alba del 9 il re fugge, con Badoglio e la famiglia, verso le province libere del sud, mentre di lì a poco, nelle regioni del nord Italia, nasce la Repubblica Sociale Italiana. Nel giro di pochi giorni il sud si ritrova diviso dal nord e nel paese riesplodono vecchie e nuove contrapposizioni: alleati contro tedeschi, fascisti contro antifascisti, partigiani e soldati inquadrati in quel che rimane del regio esercito contro giovani reclutati (o reclutatisi) nell’esercito repubblichino.
Una pagina fondamentale della storia nazionale, ma anche un momento cruciale per la storia salentina. In Puglia, prima meta della famiglia reale in fuga, continua infatti a sopravvivere lo stato monarchico. Cosa comportò tutto questo per i salentini?
Innanzitutto è lecito ipotizzare che lo stabilirsi dei Savoia sul territorio li abbia “messi al riparo” da quel sentimento di abbandono rapidamente diffusosi nell’Italia centro-settentrionale. Il regno del sud nasce in Puglia, alle nove in punto dell’11 settembre, con la prima riunione del consiglio della Corona tenutosi nella palazzina dell’ammiragliato di Brindisi alla presenza del re, di Badoglio e di pochi altri ministri. Le quattro province pugliesi “controllate” dai Savoia (Brindisi, Bari, Lecce e Taranto) sono riconosciute dagli alleati, anche se non ufficialmente, il 19 settembre: esse rappresentano la King’s Italy, secondo la definizione degli stessi anglo-americani. Il popolo della Terra d’Otranto, dunque, non vive l’8 settembre come una frattura istituzionale.
In secondo luogo, la presenza del re allontana il Salento dalla guerra. “A Brindisi vi sono soldati e marinai che bene o male continuano a prestare servizio, portano le armi, vestono la divisa. Non vi è traccia di tedeschi, i negozi sono aperti, la vita sembra la stessa di sempre” (Silvio Bertoldi, Il regno del Sud, Milano, Bur, 2003, p.17). Di certo la fame, le privazioni colpiscono ancora queste zone. Si vive con150 grammi di pane al giorno (poi 100g), i mezzi di trasporto e comunicazione sono quasi del tutto inesistenti. Le scuole sono chiuse e la borsa nera si arricchisce; numerosi sono i disoccupati e gli sbandati in una zona sostanzialmente priva di attività economiche alternative all’agricoltura. Nonostante ciò, la presenza fisica del re e degli alleati tiene lontani alcuni degli effetti più disastrosi del conflitto.
Infine, se nel nord devastato dalla lotta tra partigiani e repubblichini, in tanti si sentono in dovere di compiere una scelta di campo, qui, la continuità delle istituzioni monarchiche libera molte coscienze da questo dovere di scelta (potremmo aggiungere “purtroppo”, ma limitiamoci ad una narrazione dei fatti). Nel sud non soffia il vento rivoluzionario che spazza le pianure e le montagne del settentrione o perlomeno lo si avverte in maniera più affievolita. Gli uffici, i depositi, le truppe, per una popolazione da decenni sull’orlo della povertà, possono persino essere fonti di guadagno e di miglioramento della propria condizione di vita.
In sintesi: l’arrivo dei Savoia nel Salento rinsalda, per molti versi, il legame tra la popolazione e la corona. La presenza sul territorio della real casa è un motivo di sicurezza e relativa tranquillità, in un periodo di scontri atroci. Ciò non può che creare una sorta di familiarità e di sentimento di (egoistica?) gratitudine tra la popolazione e la monarchia. Molti sono gli indizi in tal senso. Da un lato potremmo riportare i racconti, ancor oggi tramandati da molti anziani, sulla famiglia reale nella nostra provincia: l’immagine del vecchio re che attraversa a piedi i paesi del Salento o di Umberto intento a compiere escursioni su di una lancia dalle gomme lisce sono molto presenti nelle fonti orali; dall’altro, possiamo prendere in considerazione i risultati referendari del 1946.
In quell’occasione il Salento, un po’ per il conservatorismo politico che lo aveva contraddistinto in tutta la sua storia (ci verrebbe da dire non solo post-unitaria, ma ciò non renderebbe merito a figure di grandi liberali anti-borbonici ed eroi risorgimentali cresciuti nella nostra terra), un po’ perché non aveva vissuto in pieno e con coscienza la rottura provocata dalla fuga del re, votò compatto per la monarchia. Lecce, dal 1944 sede dell’accademia militare, e i paesi della provincia appoggiarono con forza la Corona.
Lealisti e realisti fino all’ultimo, un vincolo che, oltre che politico, potrebbe essere giudicato di “gratitudine”.