di Antonella Randazzo
Il 21 ottobre 1860, come nelle migliori tradizioni “democratiche”, si svolse la votazione per l’annessione della Sicilia al Piemonte. Con la collaborazione della mafia, venne creato un clima intimidatorio. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono soltanto 432.720 cittadini (il 18%). Dei votanti, 432.053 votarono “Sì” e 667 “No”. Il ministro Henry Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, nel suo rapporto al governo scrisse: “Moltissimi vogliono l’autonomia, nessuno l’annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa”.
E un altro ministro inglese, John Russel, comunicò: “I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore”. (17)
I Plebisciti-burla si svolsero anche nelle altre regioni. Si trattava di un metodo per far passare l’Unità d’Italia come voluta dal popolo, mentre in realtà non era così, ma questo doveva apparire.
In Campania le votazioni erano controllate dai camorristi, che bastonavano quelli che votavano “No”, e qualcuno morì misteriosamente. Camorristi, piemontesi e garibaldini votarono diverse volte per accrescere la quantità di votanti per il “Si”. Cesare Cantù spiegò come si svolsero a Napoli le operazioni di voto:
“Il plebiscito giunge fino al ridicolo, poiché oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte erano incompetenti, senza tampoco accertare l’identità delle persone e fin votando i soldati, si deponevano in urne distinte i SI e i NO, che lo rendeva manifesto il voto; e fischi, e colpi e coltellate a chi lo desse contrario. Un villano gridò: Viva Francesco II! E fu ucciso all’istante”.(18)
In Toscana votò soltanto il 19% della popolazione. Come nelle altre regioni, votarono soprattutto gli appartenenti alla classe ricca o benestante. In Veneto venne dato l’ordine alle autorità di “assicurare S. E. che della medesima non mancherà di adoperarsi affinché la votazione abbia a riuscire di unanime accordo pella dedica a S.M. il Re Vittorio Emanuele II”.(19) I votanti veneti furono meno di 650.000 (641.000 votarono “Si” e 69 “No”) su una popolazione di 2.500.000 di abitanti, (votarono il 26%). Gli aventi diritto al voto erano soltanto i maschi che avevano compiuto 21 anni.
Le operazioni di voto non erano segrete, come racconta Silvio Eupani:
“Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col Si e col No di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al presidente che lo depositava nell’urna”.(20)
Anche in Veneto si ebbero diverse rivolte e manifestazioni antiunitarie, ad esempio a Thiene, a S. Germano a Cavarzere al Cadore e a Legnago, fatti completamente occultati dalla storiografia ufficiale, che racconta di un consenso unanime. In alcune zone del Veneto furono create persino filastrocche antiunitarie. Alcuni versi recitavano: “Co le teste dei taliani zogaremo le borele (bocce) e Vittorio Manuele metaremo par balin”. Una canzone diceva: “Vegnerà Vitorio Manuele se patirà nà stissa de coele – l vegnarà con mostaci e barbeta se patirà ‘na fame maledeta e più avanti – Se dura il furor dei monumenti un monumento avrà Quintino Sella che con un tratto di saggezza rara la polenta ci ha resa assai più cara”.
I veneti, come i meridionali, capivano che il nuovo potere li avrebbe saccheggiati e affamarli.
La conseguenza dell’annessione del Veneto fu una massiccia emigrazione dei veneti, costretti a cercare fortuna in America, soprattutto nell’America Latina, dove molti finirono a lavorare nei campi al posto degli schiavi liberati. La valanga migratoria dei contadini del sud si avrà diversi anni dopo rispetto a quella veneta, perché i meridionali non avevano nemmeno il denaro per pagare il viaggio e dovevano prima racimolarlo.
Nei primi anni del Regno d’Italia i siciliani subirono un enorme saccheggio, le casse della regione furono svuotate e persino i beni demaniali ed ecclesiastici furono venduti. Alcuni studiosi ci forniscono un’immagine del sud preunitario ben diversa da quella fornita dai libri scolastici. Ad esempio, lo storico Nicola Zitara spiega: “(Il sud borbonico era) Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l’estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il più avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d’industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d’altra parte, tutta l’industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni)… Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all’occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell’economia nazionale”.(21)
Con l’occupazione delle regioni italiane, i Savoia si impadronirono di notevoli risorse, mettendo le mani anche sull’oro delle Banche e sui beni ecclesiastici. Spiega Zitara: “Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l’Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d’oro e d’argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d’emissione sarda – che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni… per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l’unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s’erano messi”.(22)
Con la Legge Pica (legge marziale), approvata nell’agosto del 1863, si dava mano libera “per la repressione del brigantaggio nel Meridione”. Seguì una repressione crudele e sanguinosissima, che si rivolse anche contro donne, bambini e vecchi. La dissidenza veniva criminalizzata e trattata con estrema ferocia.
Nell’agosto del 1863 venne mandato in Sicilia il Generale Giuseppe Gaetano Govone, che non esiterà a reprimere nel sangue la popolazione, torturando e uccidendo. Govone aveva organizzato i primi servizi segreti italiani nel 1859, poco prima della Seconda guerra d’Indipendenza, e dopo l’Unità diventò ministro della Guerra. Egli aveva avuto un ruolo importante nel processo di unificazione dell’Italia, avendo svolto incarichi miiltari e di spionaggio. Nel settembre del 1870 sarà destituito dal dicastero della Guerra perché improvvisamente dichiarato “pazzo”. Nel gennaio del 1872 verrà trovato misteriosamente morto. Il giorno successivo alla morte di Govone, qualcuno trafugò molti documenti che riguardavano i fatti che portarono all’Unità d’Italia e la repressione del brigantaggio. Alcuni storici presumono che le carte sparite si riferissero precisamente alle operazioni di repressione del brigantaggio supportate da truppe inglesi. Di certo, con Govone spariranno definitivamente tutte quelle informazioni segrete sul connubio fra politica italiana, sistema di potere, affari e legami internazionali.
Nel 1892 si formarono i “Fasci dei Lavoratori Siciliani”, come ulteriore tentativo di permettere ad una terra martoriata di risolvere i suoi problemi. L’organizzazione era pacifica, e chiedeva soprattutto la spartizione delle terre demaniali o incolte e la diminuzione delle tasse. La risposta del governo italiano sarà feroce: verrà decretato lo stato di assedio e verranno mandati 40.000 soldati al comando del Generale Morra di Lavriano. Per distruggere i Fasci saranno uccise migliaia di persone.
Ufficialmente, dal 1861 al 1865, fu registrata l’uccisione di 5212 “briganti”, ma nei documenti ufficiali non si registravano i morti nelle carceri e gli eccidi avvenuti durante le sollevazioni.
Migliaia di persone furono deportate nei campi di prigionia, che erano assai simili ai lager. Molte persone imprigionate non conoscevano nemmeno l’accusa a loro rivolta ma sapevano che tutti i loro beni sarebbero stati confiscati. Spesso il motivo dell’arresto era proprio il saccheggio dei loro possedimenti. Le condizioni di vita nelle carceri erano così dure che soltanto pochi sopravvivevano, e i morti non venivano registrati, in modo tale da non avere tracce di ciò che era avvenuto. Altre migliaia di persone furono condannate al confino nelle isole, a Ponza, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all’Elba e in Sardegna. La vita nelle carceri era durissima, come alcuni Atti Parlamentari e diversi carteggi parlamentari dell’epoca attestano. Ad esempio, in un discorso in Parlamento, il duca di Maddaloni Francesco Proto Carafa disse:
“Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l’inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?”
Lo stesso parlamentare denunciò l’impoverimento e il saccheggio del Sud:
“La loro smania di subito impiantare nelle province napoletane quanto più si poteva delle istituzioni del Piemonte, senza neppure discettare se fossero o no opportune fece nascere sin dal principio della dominazione piemontese il concetto e la voce “piemontizzare”. Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato, il commercio; serrati i privati opifici. E frattanto tutto si fa venir dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per i dicasteri e per le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a disbrigarla. A’ mercanti del Piemonte dannosi le forniture più lucrose: burocratici di Piemonte occupano tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocratici napolitani. Anche a fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napoletani. A facchini della dogana, a carcerieri, a birri vengono uomini di Piemonte. Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortes ed il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nei regni del Bengala”.(23)
Anche molti studiosi e intellettuali si opposero all’Unità d’Italia. Scriveva lo storico Giacinto De Sivo:
“Chi adunque nel reame vuole l’unità? Non la nobiltà, non il clero, non gli scienziati, non le milizie, non gli artigiani, non i contadini, e non i commercianti. Voglionla i contrabbandieri, i galeotti, i camorristi, ed uomini oziosi, lanciati per errore o per bisogno o per ambizione nel caos delle sette. Questi han preso le cime degli uffizii, questi strepitano, scrivono, spauriscono, pugnalano, fucilano, e si chiamano popolo e nazione. Ma il popolo del regno non vuole l’Italia una”.(24)
Nonostante le numerose denunce dei crimini dell’esercito sabaudo da parte di parlamentari e di intellettuali le persecuzioni non cessarono. Nel 1862, a Pantelleria furono inviate tre colonne militari, fu istituita la legge marziale, e le truppe setacciarono in lungo e in largo l’intera isola per uccidere i resistenti. I “ribelli” furono trovati in una caverna che si trovava in cima alla Montagna Grande a 848 metri si altezza. Prima di essere uccisi, furono costretti a sfilare nelle strade, sotto la bandiera e al suono di un tamburo. Al loro passaggio molte persone piangevano. Le somme che i Savoia spesero per l’operazione furono pagate dagli stessi cittadini di Pantelleria.
Alla fine del 1862, una relazione della Camera documentava che 15.665 persone erano state fucilate, 1.740 imprigionate e 960 uccise in combattimento. Si registrava l’esistenza di almeno 400 gruppi di combattenti antiunitari.
Nel 1866 in Sicilia si ebbero diverse sommosse. Palermo fu posta sotto controllo dopo un lungo assedio da parte di migliaia di soldati piemontesi. Oltre ai duemila morti causati dalle cannonate, si ebbero in tutta la Sicilia, nel giro di circa una settimana, 65.000 morti per il colera, scoppiato inizialmente fra le truppe piemontesi. Diventarono sistematiche la pratica della tortura e le ritorsioni sulla popolazione inerme, con stragi di interi villaggi e la distruzione dei raccolti per affamare i paesi dove si trovava la resistenza.
Gli ufficiali dell’esercito sabaudo ritenevano che il popolo del sud fosse inferiore, e non esitavano a massacrare, come se avessero a che fare con animali e non con esseri umani. Nell’agosto del 1861 così scriveva il colonnello Gaetano Negri al padre, dopo l’eccidio di Pontelandolfo:
“Carissimo papà, Le notizie delle province continuano a non essere molto liete. Probabilmente anche i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Pontelandolfo. Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case, e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casalduni, i cui abitanti si erano uniti a quelli di Pontelandolfo. Sembra che gli aizza tori della insurrezione di questi due paesi fossero i preti; in tutte, le province, e specialmente nei villaggi della montagna, i preti ci odiano a morte, e, abusando infamemente della loro posizione, spingono gli abitanti al brigantaggio e alla rivolta. Se invece dei briganti che, per la massima parte, son mossi dalla miseria e dalla superstizione, si fucilassero tutti i curati (del Napoletano, ben inteso!), il castigo sarebbe più giustamente inflitto, e i risultati più sicuri e più pronti”.(25)
Si calcola che la “lotta al brigantaggio” si sia conclusa con 54 paesi rasi al suolo e 1 milione di morti. Le autorità cercarono di insabbiare tali crimini facendo sparire numerosi documenti.
I Savoia cercarono anche di beffare il popolo facendogli credere il contrario di ciò che era. Nonostante si commettessero crimini efferati pur di occupare tutta la penisola, nei proclami il re sosteneva di rispettare la volontà popolare. In uno di questi si legge:
“Popoli dell’Italia meridionale! Le mie truppe avanzano tra voi per riaffermare l’ordine. Non vengo a imporvi la mia volontà, ma a far rispettare la vostra, che voi potete liberamente manifestare. La provvidenza che protegge il giusto ispirerà il voto che deporrete nelle urne. Qualunque sia la gravità degli eventi, attendo tranquillo il giudizio dell’Europa civile, e quello della storia, perché ho conoscenza di compiere doveri di re e di Italiano. In Europa la mia politica non sarà inutile a conciliare il progresso dei popoli con la stabilità della monarchia.
“In Italia so che chiudo l’era delle rivoluzioni”. Vittorio Emanuele”.(26)
Il 27 gennaio 1861 si svolsero le prime elezioni per il Parlamento “italiano”. La legge elettorale piemontese dava diritto di voto soltanto agli uomini alfabetizzati che avevano compiuto 25 anni e pagavano alcune imposte. Su circa 24 milioni di abitanti, gli aventi diritto al voto erano soltanto 418.850, e coloro che si recarono alle urne furono 239.853, meno dell’1% di tutta la popolazione.
Massimo D’Azeglio disse: “Queste Camere rappresentano l’Italia così come io rappresento il Gran Sultano turco”.
I candidati proposti erano tutti filopiemontesi e molti avevano preso parte attiva ai fatti risorgimentali. Ciò nonostante, alcuni di essi denunciarono i crimini che avvenivano nel sud Italia, impressionati dalla ferocia repressiva dell’esercito sabaudo.
Nel giro di pochi anni, in molte zone della penisola la disoccupazione diventò un fenomeno comune. Nel 1865, quasi tutte le fabbriche del meridione erano fallite, e le tasse erano aumentate dell’87%, per pagare le guerre risorgimentali e per sviluppare l’industria del nord. L’agricoltura meridionale finanziava le nuove industrie del Piemonte e della Lombardia, che erano proprietà di famiglie appartenenti all’oligarchia dominante.
Il nuovo Stato attuò saccheggi, devastò l’economia del sud, non restituì la terra ai poveri e impose nuove tasse, che costrinsero milioni di persone ad emigrare.
Nel 1864 il ministro Minghetti impose tasse anche sui beni di primaria necessità. Nella legge n. 1862 del 30 luglio 1864 si permetteva ai comuni di imporre dazi sul consumo di bevande ed alimenti. Saranno imposti dazi anche sulla pasta, sulle farine, sui cereali e sul vino col risultato che le classi povere si trovarono in grosse difficoltà, costrette a diminuire i consumi di beni di primaria necessità, sprofondando al limite della possibilità di sopravvivenza. Come se non bastasse fu introdotta la naia obbligatoria, che sottraeva braccia all’agricoltura. I progetti del Regno d’Italia stavano guardando con simpatia la partenza di soldati verso l’Africa alla conquista di colonie. Le proteste da parte della povera gente furono tante, basti pensare alle sollevazioni che si verificarono a Milano, come a Napoli, per difendere il minimo diritto a sfamarsi. L’episodio più celebre è quello del maggio 1898, quando davanti allo stabilimento della Pirelli un dipendente distribuì volantini che spiegavano la necessità di dare più diritti ai lavoratori. L’operaio venne arrestato e questo sollevò proteste e disordini. Alcuni operai seguirono il compagno arrestato fino in caserma, ma giunti lì vicino la polizia fece fuoco senza pietà sulla folla uccidendo una persona e ferendone cinque. Milano diventò una città sotto assedio. Sarà chiamato a risolvere il problema il generale Fiorenzo Bava Beccaris che opterà per i cannoni: prese a cannonate diverse strade affollate uccidendo 80 persone e ferendone 450. Il re Umberto I poco tempo dopo lo premierà con una medaglia al valore (l’anarchico che lo ucciderà nel 1900 dichiarerà di aver vendicato quelle vittime). Questo bastava a capire che i governi italiani non avevano come priorità il combattere la povertà e la fame che attanagliavano gli italiani, anzi, nel giro di pochi anni la pressione fiscale arrivò a raddoppiarsi costringendo molti italiani ad espatriare.
Le aspirazioni autonomiste e indipendentiste di alcune regioni italiane non scompariranno mai, ma soltanto all’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo si diffonderanno le “Leghe”. Tali formazioni, nonostante facessero leva sul federalismo e sulla sovranità popolare, si inseriranno perfettamente nel sistema partitico, acquisendone tutte le caratteristiche, compresa la priorità di accrescere potere rispetto all’appoggiare le rivendicazioni popolari, come emerse anche dal caso della nuova base Usa a Vicenza. Da ciò si potrebbe inferire che tale fenomeno fosse dovuto principalmente all’esigenza di cooptare dall’alto il crescente malcontento, aggravato dai processi di “globalizzazione”, che indebolirono le istanze del Welfare e le imprese piccole e medie, su cui poggia l’economia di molte regioni italiane.
Il Risorgimento dunque, così come lo si studia sui libri di scuola è un falso storico, elaborato ad oc per insabbiare ciò che le autorità Sabaude fecero nelle regioni italiane, con la complicità delle autorità dei paesi egemoni. Gli eroi e i geni diplomatici tanto esaltati, altro non sarebbero che personaggi sottomessi al sistema di potere dell’oligarchia dominante. La Storia del nostro meridione è ad oggi palesemente mistificata, e nessun libro scolastico spiega in modo chiaro e approfondito quali sono le vere cause del sottosviluppo economico del sud. Pur di non dare spiegazioni si è fatto ricorso al pregiudizio e allo stereotipo che mostra il cittadino meridionale come poco amante del lavoro e poco rispettoso delle istituzioni. Le autorità Sabaude, negli anni successivi all’unificazione, descrivevano i meridionali come contadini con usanze barbare e primitive, oppure come una massa di delinquenti e criminali. Si affermò lo stereotipo del meridionale da civilizzare. Ad esempio, un libro pubblicato nel 1898 dal titolo “L’Italia barbara contemporanea”, considerava il sud come “una grande colonia da civilizzare”, in cui si dovevano raggiungere “due obiettivi fondamentali: combattere la miope superbia regionale; irrobustire il culto dell’Unità fondata sul dogma di adattare tutte le regioni in un unico modello amministrativo [con] una gestione autoritaria a sud e liberale nel centro/nord” .(27)
I fatti qui raccontati sono soltanto una minima parte di quello che si potrebbe raccontare. Molti eccidi sono stati completamente insabbiati con la distruzione dei documenti, e alcuni archivi Sabaudi non sono ad oggi accessibili.
Gli eventi qui trattati non appartengono soltanto al passato. La popolazione del sud Italia porta ad oggi le conseguenze di ciò che avvenne, e l’Italia intera continua a soffrire per un sistema politico orientato soltanto a difendere gli interessi del potere dominante.
Ad oggi, si preferisce denigrare i meridionali piuttosto che capire qual’è la vera realtà. Fino a qualche tempo fa qualcuno sosteneva che i meridionali non avevano il “senso dello Stato”. Ma cosa significa ciò alla luce dei fatti storici? Significa non avere affezione per istituzioni che si spacciano per rappresentanti della collettività ma che in realtà agiscono in modo iniquo utilizzando anche la mafia per tenere sottomessa la popolazione. Soccombere a un tale assetto significherebbe morire “dentro”, e questo non è nello spirito vitale della cultura del sud.
I nostri libri di Storia citano diverse “liberazioni”, ma alla luce dei fatti risulta che il popolo italiano non si è ancora liberato dalle catene del potere, che oggi risulta nascosto e mistificato, ma non per questo meno oppressivo e nocivo.
Copyright 2007 – all rights reserved.
ATTENZIONE: Questo articolo è protetto dal Copyright.
Tutti i diritti sono riservati. È vietata qualsiasi utilizzazione, totale o parziale di questo articolo, inclusa la memorizzazione, riproduzione, rielaborazione, diffusione o distribuzione dei contenuti stessi mediante qualunque piattaforma tecnologica, supporto o rete telematica, senza previa autorizzazione scritta di Antonella Randazzo. Per la riproduzione integrale o di parti dell’articolo occorre richiedere l’autorizzazione scrivendo all’indirizzo e-mail giadamd@libero.it
BIBLIOGRAFIA
Alianello Carlo, “La conquista del Sud – Il Risorgimento nell’Italia meridionale”, Rusconi, Milano 1982.
Ciano Antonio, “I Savoia e il massacro del Sud”, Grandmelò, Roma 1996.
De Matteo Giovanni, “Brigantaggio e Risorgimento – legittimisti e briganti tra i Borbone ed i Savoia”, Guida Editore, Napoli 2000.
Di Fiore Gigi, “1861. Pontelandolfo e Casalduni: un massacro dimenticato”, Grimaldi & C. Editori, Napoli 1998.
Di Fiore Gigi, “I vinti del Risorgimento”, UTET, Torino 2004.
Izzo Fulvio, “I Lager dei Savoia”, Controcorrente, Napoli 1999.
Mack Smith Denis, “I Savoia Re d’Italia”, Rizzoli, Milano 1990.
Pellicciari Angela, “Risorgimento da riscrivere”, Ares, Milano 2007.
Radice Antonio, “Risorgimento perduto”, De Martinis & C., Catania 1995.
Servidio Aldo,”L’imbroglio Nazionale”, Alfredo Guida Editore, Napoli 2000.
Smith Denis Mack, “Garibaldi, una grande vita in breve”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993.
Zitara Nicola, “Il proletariato esterno. Mezzogiorno d’Italia e le sue classi”, Jaca Book, Milano 1977.
Zitara Nicola, “Negare la negazione”, La Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2001.
NOTE
1) Macry Paolo, “Così il Sud condannò l’Unità”, Corriere della Sera, 23 Gennaio 2002.
2) Macry Paolo, “Così il Sud condannò l’Unità”, Corriere della Sera, 23 Gennaio 2002.
3) Lupo Salvatore, “Storia della mafia”, Donzelli Editore, Roma 1996, p. 59.
4)www.brigantaggio.net/brigantaggio/Storia/Meridionale/Q37_Mafia.PDF+inglesi+terre+sicilia+contadini&hl=it&ct=clnk&cd=5&gl=it&ie=UTF-8
5) Smith Denis Mack, “Garibaldi, una grande vita in breve”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, p. 285.
6) Radice Antonio, “Risorgimento perduto”, De Martinis & C., Catania 1995.
7) Sciascia Leonardo, “Nino Bixio a Bronte”, Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 1963.
8) Giarrizzo Giuseppe, “La Sicilia moderna dal Vespro al nostro tempo”, Edumond Le Monnier, Firenze 2004.
9) Radice Antonino, “Risorgimento perduto: origini antiche del malessere nazionale”, De Martinis, Catania 1995.
10) Ciano Antonio, “I Savoia e il massacro del Sud”, Grandmelò, Roma 1996.
11) http://cronologia.leonardo.it/storia/a1862f.htm
12) Cit. Croce Benedetto, “Storia del Regno di Napoli”, Laterza, Bari, 1966, pp.337-339.
13) http://www.ilportaledelsud.org/mono_ressa_4_4.htm#_ftn26
14) De Jaco Aldo, “Il brigantaggio meridionale, Cronaca inedita dell’Unità d’Italia”, Editori Riuniti, Roma, 1969
15) http://www.leinchieste.com/viaggiatori_e_mafia.htm
16) Nelson Hood Alexander, Sicilian Study, George Allen & Unwin, London 1915.
17) www.duesiciliegioiosa.org
18) Cesare Cantù, “Storia Universale”, Unione Tipografica Editrice, Torino 1886.
19) Circolare del Commissario del re per la Provincia di Belluno datata 5 ottobre 1866.
20) Eupani Silvio, “Epopea di Malo: da Quarto dei Mille al Pasubio, al fiume Don”, 1971.
21) Zitara Nicola, “Il proletariato esterno. Mezzogiorno d’Italia e le sue classi”, Jaca Book, Milano 1977.
22) Zitara Nicola, op. cit.
23) Atto parlamentare n. 234 del 20 novembre 1861.
24) De Sivo Giacinto, “I Napolitani al cospetto delle nazioni civili” (1860), Borzi, Roma 1967.
25) www.duesicilie.org/OLDSITE/comunicati/Casalduni.html – 14k
26) Alianello Carlo, “La conquista del sud”, Rusconi, Milano 1972.
27) Servidio Aldo, “L’imbroglio Nazionale”, Alfredo Guida Editore, Napoli 2000, p. 163.
Copyright 2007 – all rights reserved.
da http://antonellarandazzo.blogspot.com/2007/08/risorgimento-insanguinato-parte-i.html.
[…] Continua Articolo Originale: RISORGIMENTO INSANGUINATO PARTE II. Elezioni e Plebisciti-burla … […]
Ottimo articolo, che riassume in poche righe tutto ciò che il nostro amato meridione ha dovuto subire per colpa dell'”Unificazione” d’Italia. Purtroppo la storia che viene insegnata a scuola è ben diversa, e tutti quei patrioti che hanno difeso la nostra terra contro le armate piemontesi, rimangono noti come “I briganti”, termine al quale si dà un’accezione completamente negativa, diventando sinonimo di malagente, di ladroni.
Tempo fa lessi di un deputato piemontese che, dopo aver votato una legge che chiudeva una fabbrica meridionale, esclamò una frase diventata famosa del tipo (non ricordo le parole esatte): “Li porteremo in una condizione dalla quale mai più saranno in grado di risollevarsi”.. mi piacerebbe se qualcuno dei frequentatori del blog, o magari l’autrice stessa dell’articolo, mi sapesse dire il nome del deputato che disse questa frase.
Pur se sintetizzate, l’articolo di Antonella Randazzo è una miniera di verità,
e il commento di Damiano Rotondo ribadisce la propaggine storica delle compiacenti frange che attualizzano o mirano ad attualizzare i vecchi soprusi e le mortificazioni.
Io sono nato in Calabria e i miei antenati erano siciliani, per cui non mi sorprende la degenerazione politica sull’essere stati “briganti”.
Ormai, finalmente, iniziamo a prendere coscenza di quello che è stato, allora cominciamo a fare pressione acche vengano rimosse dalle nostre strade e piazze targhe e nomi di quei mandanti di stragi e assassini, che non ci appartengono!
Mi permetto di dissentire, almeno in parte, con l’articolo.
Ogni contributo storico ha il proprio valore, naturalmente, ma analizzare l’unità, con tutto ciò che l’ha preceduta e seguita, in un’ottica così univoca è pernicioso.
Non si può parlare di mafia e camorra, senza contestualizzare. Non si può continuare a parlare di masse plagiate, nel momento in cui votano si all’unificazione o protestano contro i Borboni e di masse coscientemente antisabaude, per motivi altrettanto futili. La coscienza delle masse è qualcosa di molto complesso, come ben chiariscono i sociologi.
Non si può nemmeno attribuire con faciloneria l’emigrazione dal veneto e dal meridione all’Unità nazionale, senza analizzare i fenomeni economici internazionali, i cambiamenti avvenuti a fine secolo sul piano politico, etc.
Comunque, non voglio dilungarmi eccessivamente, in una contestazione puntuale. Dico solo che, una storiografia antirisorgimentale è dannosa come una storiografia filorisorgimentale. Il Regno delle Due Sicilie subì spoliazioni, devastazioni etc. Sono verità conclamate, come del resto lo sono quelle relative all’illiberalità dei borboni, le cui carceri, tanto per fare un esempio, furono motivo di scandalo e protesta in tutta la comunità internazionale dell’epoca.
Gentile Signor Palumbo, lei ha ragione su tutto fino al penultimo rigo. Infatti proprio alla fine lei tradisce l’errore che ha informato anche il resto della sua critica: l’illiberalità dei Borbone, e soprattutto la storia delle carceri del Regno sono una favola. Ebbene sì, anch’essa costruita dalla macchina di propaganda internazionale, e specialmente inglese, che si mise in moto per assecondare la caduta della monarchia borbonica. Mi dispiace, ma come vede anche in una coscienza pulita come la sua, alberga ancora il mito risorgimentalista, a sua insaputa, cosa questa che giustifica la necessità di un periodo di storia onestamente antirisorgimentale per controbilanciare la montagna di fole che ci furono inculcate per un secolo e mezzo. Cordialmente, Andrea de Meo.
Gent.mo,
pur volendo ritenere le proteste inglesi contro lo stato delle carceri del sud un espediente diplomatico, vi sono testimonianze italianissime sull’argomento. Da salentino non posso che ricordare Sigismondo Castromediano. Comunque, lo stato delle carceri non è certo l’argomento centrale per provare l’illiberalità borbonica, ma non si può negare la sua incidenza sull’opinione pubblica nazionale ed internazionale. Con questo non mi azzardo di certo ad affermare che nel resto d’Italia fosse tutto rose e fiori. Non erano di certo migliori le condizioni, ad esempio, delle “Fenestrelle” piemontesi, dove furono incarcerati tanti briganti e, per portare un altro esempio, casi di prigionia disumana come quella di Passannante, si ebbero in un carcere toscano (Portoferraio) dell’Italia unita.
Cari saluti