IN VIRTU’ DI UN’ANTICA LEGGENDA SORTA INTORNO ALLA CREAZIONE DEL MONDO, LA NUCA ERA ANCORA, PER I NOSTRI CONTADINI, LA TTACCA-SSUEGGHI DEL SONNO
LU CUCUZZIEDDHRU (LA NUCA)
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
…nel concetto popolare la nuca era parte anatomica preposta alla regolamentazione del sonno, un’attribuzione che leggendariamente si faceva risalire addirittura ai fatidici giorni dell’Eden: Dio, volendo creare Eva servendosi di una costola di Adamo, aveva divisato di compiere l’operazione durante la notte, basandosi sulla tacita collaborazione del sonno alla cui legge notturna aveva già sottoposto la sua prima creatura. Frastornato com’era per il gran daffare, non si era però reso conto ca ja scattatu tiémpu ti nfiuràta, quannu puru ti notte furmìcula lu sangu (che era scattato il tempo della fioritura, quando il sangue è in fermento anche di notte), per cui, sceso a notte inoltrata nel paradiso terrestre, con sua grande meraviglia aveva trovato Adamo che, desto e beato, se la spassava sciucànnu a scunnicòla cu lla orpe (gicando a nascondino con la volpe).
“E mmo comu la mintìmu cu st’uécchi nzippàti?” (“E ora come la mettiamo con questi occhi zeppati [mantenuti aperti da uno stecchino]?”), si era chiesto piuttosto contrariato; e guardandosi attorno come a raccogliere le idee si era accorto che, al contrario delle altre piante, coinvolte nell’ebbrezza della notte, quella del trifoglio aveva pacificamente rinserrato le foglie sprofondando nel sonno. “Menumàle ca nn’àggiu ttruàta una ngarbàta” (“Menomale che ne ho trovata una garbata”), si era detto compiaciuto; e staccatone un rametto era corso a strofinarne le foglie sobbr’a llu cucuzziéddhru (sulla nuca) di Adamo, ingiungendo perentorio:“Comu sta chiànta t’à ccumpurtàre; la notte no ll’à scangiàre cu llu sciùrnu… ca la notte, jò, pi ddurmìre l’àggiu criata!” (“Come questa pianta ti devi comportare; la notte non la devi scambiare per giorno… perché la notte, io, per dormire l’ho creata!”). Al contatto del trifoglio, stillante sonno e ubbidienza, Adamo si era subito addormentato, e poiché la strofinata era avvenuta a livello di cucuzziéddhru (nuca), questo, sommando al diretto assorbimento del succo erbaceo l’altrettanto diretto rintrono del comando divino, ne era uscito particolarmente responsabilizzato, sicché da quel momento era divenuto lu ttacca-ssuégghi ti lu suénnu (il lega-sciogli [faccendiere] del sonno, ovverosia centro regolatore di ogni funzione ipnica.
Grazie al corollario di credenze venutesi a creare attorno al fulcro leggendario, il presunto rapporto nuca-sonno era assurto a verità pseudo-scientifica, determinando sul piano pratico tutta una serie di relativi accorgimenti e applicazioni in bilico fra l’empirismo e la superstizione: per tema di ritrovarsi nnu fìgghiu mpannàtu puru a ddìa (un figlio addormentato anche di giorno, cioè mezzo scemo), le madri contadine, nell’insaponare la testa dei loro pargoli, stavano bene attente a non ammaccarne la funtanéddhra e rriécu (la fontanella occipitale dei neonati, detta “a rriécu” [ultimo] in quanto ultima a indurirsi), considerata, per via della sua collocazione, récchia ti lu cucuzziéddhru (orecchio della nuca); anzi, trattandola da orecchio e interpretandone la transitoria morbidezza come elemento e momento di maggiore vulnerabilità alla ricezione dei messaggi, si preoccupavano di sensibilizzarla al massimo attraverso un rodaggio di registrazioni. Tanto per fare qualche esempio, nel cantare la ninna nanna ai piccoli, s’industriavano a far piovere le parole sulla testa, pronte a poggiare le labbra sulla nuca allorché, nello scatto del ritornello (“Tuérmi… tuérmi… cu ll’àngili ca ùlanu… ca ùlanu…” [“Dormi… dormi… con gli angeli che volano… che volano…”]), più forte si estrinsecava l’invito a dormire. Un puntare alla sedimentazione di analogie sensibili, peraltro doppiato al momento del risveglio che – sempre al fine di accumulare suggestione nella memoria soggettiva – raramente lasciavano fosse spontaneo, preferendo sollecitarlo con un lieve pizzicotto sul collo e la verbale decantazione di un gioco infantile imperniato sui saltelli e perciò di sprone al movimento, alla vivacità:
“Ddéscitate bbeddhru, ddéscitate… ca l’àngili stà sciòcanu a zzumpa e ttìcchiti” (“Svegliati bello, svegliati… che gli angeli stanno giocando a ‘salta e tacchete’!”).
“Ccurtézze ti mana ca no ffalléscinu…” (“Accortezze di madre che non falliscono”), affermavano le vecchie consigliando le giovani madri; e a meglio significare l’utilità di un simile trattamento concludevano sempre con qualche proverbio pedagogico: “Mena a ttiémpu lu mbrufìcu / ci uéi la fica sana” (“Se vuoi che i fichi maturino sani / il frutto del caprifico lo devi appendere per tempo ai rami dell’albero”); “Ci chiànta ùnguli / mangia fae” (“Mangia fave / chi pianta fave”); “Tuérci lu inchicéddhru / quannu ete tinniriéddhru” (“Raddrizza il virgulto / quand’è ancora tenero”).
Era infatti ferma convinzione che la nuca, se tempestivamente abituata a fungere da registratore della volontà, sarebbe poi stata in grado di cronometrare il sonno, e non soltanto salvaguardandolo da quelli che ne potevano essere gli estremismi ( pigrizia o insonnia), ma addirittura consentendo di svegliarsi all’ora desiderata, fosse pure di netta sovversione delle abitudini acquisite.
Non disponendo di sveglie, eccezione fatta per quella rappresentata dal consueto chicchirichì dei galli, i contadini usavano appunto regolare il loro orologio mentale dandosi dei colpetti sulla nuca, sicuri in tal modo di evitare l’umiliante confessione “No mm’àggiu ddiscitàtu a ttiémpu” (“Non mi sono svegliato in tempo”), quando dovevano recarsi al lavoro di notte, o “M’à ppigghiàtu lu suénnu “ (“Mi ha preso il sonno”), se vivevano soli ed erano tanto dormiglioni da non sentire il canto del gallo.
La nuca veniva sfruttata anche durante i parti – soprattutto quelli delle primipare -, quando, per il prolungarsi delle doglie e la conseguente perdita di forze, la partoriente cedeva al torpore rallentando i ritmi di espulsione. “Lliticàtila, lliticàtila!…” (“Rimproveratela, rimproveratela!…”), raccomandava la levatrice alle donne presenti, le quali, cogliendo il suggerimento che sapevano implicito nella frase, si davano a redarguirla parlandole forte dietro la nuca e, se l’effetto non era quello desiderato, dandole pizzicotti sul collo con dita umettate d’aceto.
A spugnature d’acqua calda sulla nuca ricorrevano invece li ggiustaòsse (le praticone di ortopedia) allorché dovevano mettere a posto uéssi spinulàti (ossa slogate) a bambini ancora piccoli e perciò non in grado di sopportare il dolore. Associando all’azione rilassante del caldo un convincente invito a dormire, espresso attraverso lu cuntu ti lu nanniuércu (il racconto del nonno orco) – alle cui brame antropofaghe i protagonisti si sottraevano “ficcànnu la capu sotta’a llu chiasciòne e ddurménnu, turmènnu citti citti” (“nascondendo la testa sotto il lenzuolo e dormendo, dormendo zitti zitti”) -, nella maggioranza dei casi riuscivano ad addormentare i piccoli pazienti senza ricorrere alla paparìna (polvere tratta dai semi del papavero) sciolta nel latte.
Più complessa, e in un certo qual modo più rischiosa, la terapia adottata nei casi di sonnambulismo, allora abbastanza frequenti e quasi sempre registrati a carico di ragazzi in età puberale, forse perché, venendo questi troppo presto immessi nella responsabilità del lavoro e quindi repressi in quelle che erano le naturali esuberanze adolescenziali, facilmente sviluppavano reazioni isteriche, delle quali il sonnambulismo era una forma frusta. Genesi naturalmente non accettata dal popolo, propenso a vedere il sonnambulismo alla stregua di un guasto meccanico provocato da agenti esterni e perciò curabile attraverso impulsi altrettanto esterni: riguardando il fenomeno la sfera ipnica, responsabile dell’avvenuto disordine era ovviamente la nuca, per cui la relativa terapia si voleva esclusivamente basata su una martellante emissione di messaggi riequilibratori da trasmettere nei momenti culmini del male, cioè durante quell’automatismo ambulatorio che del sonnambulismo era la manifestazione più lampante, nonché incresciosa. (…)
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA, Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, pagg. 219-222.
Il brano è stato altresì pubblicato dal quotidiano “LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO” l’11 novembre 1997