Intervista a cura di Maria Ausilio Gulino, pubblicata su www.lepagine.net
Quali sono i tormenti interiori di un poeta? Ormai nell’immaginario collettivo, quando pensiamo agli scrittori dei versi, pensiamo sempre a quelli del passato. Eppure qualcuno è presente anche adesso, magari ci parla, e potrebbe anche essere un nostro amico. Però non lo riconosciamo. Perché talvolta ci sembra uno diverso da noi. Lontano dai nostri modi di vivere e di pensare. Noi abbiamo incontrato Elio Ria, che di poesia vive, che in qualche modo, tra le pagine, si confessa, mostrando ogni suo timore e ogni sua voglia di vivere. E poiché non è così comune svelarsi senza maschera, siamo certi che i suoi lettori gliene saranno grati.
Come gestisce il suo lavoro di redazione?
Prima di scrivere un testo raccolgo le idee, sviluppo mentalmente l’ordine delle cose che intendo presentare al lettore, guardo i miei appunti, seleziono, tralascio, includo e poi inizio a mettere nero su bianco. Sì, mi documento con dovizia e attenzione per non tralasciare nulla di importante. Poi lascio sedimentare per un po’. Infine rileggo. Aggiusto. E quando sono convinto della qualità del testo lo pubblico.
Un poeta dai versi così sensibili come conduce la sua quotidianità?
La quotidianità concede sempre straordinarietà e meraviglie. Ho le mie abitudini: lavoro, studio, caffè, sigarette, le chiacchiere con gli amici, leggere il giornale e i libri, scrivere. Leggo moltissimo: le poesie dei grandi poeti antichi e moderni. Ascolto la gente per strada; i bambini, gli adulti, gli amici. Prendo appunti. Osservo e annoto. Abbozzo un verso che no so dove mettere e rimane in attesa…
I miei ferri del mestiere: il moleskine nero e la pilot di colore nero per tracciare la mia dose quotidiana di appunti. Raccolgo suggestioni, impressioni, idee, parole, colori, suoni, immagini. Quanto poi finirà in una poesia non è che il distillato di un lavoro preparatorio intenso. In determinati momenti avverto un normale disagio e allora mi apparto altrove, in altri mondi per annullare assenze di realtà. Sento giornalmente il bisogno di trasgredire le norme codificate per allertare il sentimento di libertà che c’è in me. La voglia di cambiare aria e di liberarmi dal torpore dell’abitudine e dal grigio dell’assuefazione mi porta a dare un senso piacevole alla quotidianità.
Il poeta è una persona comune che ha un rapporto con il mondo che lo circonda e di cui egli è partecipe, percependone il dolore, la sofferenza, le diversità, le bellezze. È indubbiamente il testimone oculare privilegiato del luogo o dei luoghi di cui è chiamato a osservare, immaginare e narrare, e raccontare attraverso la sintesi e l’armonia delle parole.
Se, a volte, si sente triste come supera i suoi momenti e quali strumenti utilizza per rialzarsi?
Quando sono triste riesco a dare il meglio di me stesso. Chiudo gli occhi: fingendo di essere cieco. E non appena rivedo la luce sto già meglio. In fondo la tristezza è un corto circuito provocato da un eccesso di felicità, allorquando le nostre aspettative sono disilluse dalla realtà. Nella vita non tutto ci appartiene o ci è dovuto. Per questo è necessario attrezzarsi per vincere le avversità “normali” della vita e accettare con disinvoltura le semplici cose che ci vengono negate per varie ragioni. La tristezza è un transito momentaneo verso una condizione di quiete da perseguire con coraggio, considerandola una “sintesi piacevole” di una temporalità breve, da negoziare con gli strumenti che la vita mette a disposizione di tutti.
Le capita di sentirsi solo? Che tipo di solitudine è la sua? E come riesce in genere a colmarla?
Ognuno è solo con se stesso, anche se è vicino agli altri. Ma anche nelle migliori condizioni possibili l’uomo è solo: nella malattia è lui a soffrire, nella morte sperimenta la solitudine per eccellenza.
La solitudine intesa come luogo solitario della poesia è invece qualcosa di diverso: è il luogo dove poter “afferrare” la “lingua” più agevolmente per costruire le geometrie del sentire e delle sensazioni; per delineare gli accenni delle cose e dei sentimenti. Il poeta non è mai solo: ha le parole.
Francesco Petrarca nel suo trattato di carattere religioso e morale il De vita Solitaria(1346) esalta la solitudine, non sotto il profilo strettamente religioso, ma come condizione per favorire l’operosità dell’intellettuale, dedito allo studio e alla scrittura in luoghi appartati e sereni, in compagnia di altri intellettuali. Invero l’isolamento dello studioso in un ambiente naturale che favorisce la concentrazione è l’unica forma di solitudine che il poeta tende a conseguire. Pertanto non ritengo la solitudine una maledizione; a volte rappresenta anche un rifugio ideale e sicuro per ripararsi dalle insidie della vita. Giuseppe Ungaretti scrive: «Non ho voglia/di tuffarmi/in un gomitolo/di strade//Ho tanta/stanchezza/sulle spalle//Lasciatemi così/come una cosa/posata/in un angolo/e dimenticata//Qui/non si sente/altro/che il caldo buono//Sto/con le quattro/capriole/di fumo/del focolare». (Natale, Vita d’un uomo, Oscar Mondadori). La solitudine non è quindi qualcosa che deve essere colmata ma invocata e vissuta nell’interezza della serenità che sa dare.
Invece cosa pensa della morte e della paura di essa che accomuna un po’ tutti? Che rapporto ha lei con la vita?
La paura della morte è una costante della nostra vita, e seppure la credenza in Dio e in un aldilà può costituire una consolazione, non si riesce a dominarla del tutto. Ogni giorno affiora l’idea della morte: ci spaventa, congela il sangue nelle vene, nonostante cerchiamo di ingannare noi stessi che poi essa non sia così brutta da come si è soliti definire. La fine della nostra esistenza, che cerchiamo sempre di ipotizzare quanto più lontana possibile, in verità è sempre a portata di mano. Forse senza neanche saperlo in alcuni momenti riusciamo a tenerla a bada attraverso meccanismi di cui non conosciamo nulla, ma che certamente hanno un influsso positivo su di essa. La morte è mistero. Si ha paura di essa perché non accettiamo l’idea della fine, legati come siamo alle cose terrene. La morte una volta sopraggiunta non ci procurerà nessun danno.
Epicuro argomentava che in genere non ci preoccupiamo della nostra non esistenza prima della nascita, e perché dunque dovremmo minimamente preoccuparci dell’eternità della nostra non esistenza dopo la morte? Naturalmente è razionale temere il processo del morire e la sofferenza e il dolore che in genere lo accompagna.
Maledizione! Io ho davvero paura della morte. È sempre presente in me l’idea di morire. Vivere in compagnia della morte non conviene, è come morire ogni giorno. Ho paura che possa accadere da un momento all’altro. Ma so che dovrà succedere prima o poi e cerco di prepararmi a studiare la fase finale della mia esistenza per viverla serenamente, giacché potrebbe anche succedere che la morte significhi vita, ulteriore e altrove, migliore anche di quella vissuta sulla terra. Prepararsi all’evento questa è la parola d’ordine… per poter meravigliare me stesso e porre finalmente fine alla paura di essa.
I suoi scrittori preferiti chi sono?
Sono tanti, ne cito alcuni, ma la lista è molto più lunga: Jorge L. Borges, José Saramago, Fernando Pessoa, Gabriel García Márquez, George Orwell, Sigmund Freud, Voltaire, Milan Kundera, Pier Paolo Pasolini, Alda Merini, Dickinson, Rimabaud, Baudelaire, Gustave Flaubert, Jhon Keats, Saint John Perse, Oscar Wilde, Jack Kerouac, Umberto Eco, Umberto Galimberti, Edmondo Berselli, Eugenio Scalfari.
I motivi per cui li ho scelti sono tanti, ve ne do alcuni. Ogni scrittore mi colpisce per lo stile e per la genialità della scrittura e allora non lo abbandono, lo seguo, mi documento, voglio scoprire tutto su di lui, capire perché ha detto certe cose. Intraprendo un viaggio lungo e piacevole attraverso la lettura dei suoi testi, dove anch’io divento protagonista delle storie tanto da immaginarne delle altre. Leggo e rileggo i loro libri, le loro opere più importanti essenzialmente per imparare. Considero la lettura un’esperienza attiva: la maggior parte dei libri, quelli comunque scritti abilmente, hanno la capacità di indurmi a pensare e a sentire emozioni, spingendomi di conseguenza a vedere il mondo da una prospettiva diversa. Nei libri trovo lo spazio che mi manca nella realtà; elaboro pensieri. La lettura promuove la mia comprensione; mi offre una via d’accesso per capire bisogni, interessi e desideri che potrei non condividere, offrendomi anche la possibilità di tollerare e simpatizzare ciò che non mi appartiene.
Che consiglio vorrebbe dare a un ragazzo che vive nella precarietà dove i sogni non sono più realizzabili?
Quello di continuare a sognare, ma anche a programmare e a pianificare gli intenti. I giovani non devono perdere di vista le priorità che la vita impone e che non si possono eludere a oltranza. Ciò che oggi è precario domani potrebbe non esserlo più. Le condizioni non sono statiche, cambiano; le evoluzioni e innovazioni rappresentano delle occasioni favorevoli per impadronirsi del futuro e perseguire obiettivi importanti. I giovani devono credere nel proprio futuro. Devono impegnarsi a non rinunciare alla logica e alla razionalità. Devono lottare affinché non ci sia l’affermazione del desiderio delle smanie ossessive e distruttive. Devono comprendere che la vita non è soltanto sballo, discoteca e divertimento. Devono capire che non saranno per tutta la vita giovani e che arriverà il momento in cui saranno chiamati ad adempiere ai propri doveri. Certamente hanno bisogno dell’aiuto dei genitori, degli insegnanti, delle persone oneste che sanno educarli e condurli al rettilineo della giustezza del futuro. Devono studiare. Devono comprendere che lo studio è essenziale e al contempo fondamentale per la loro formazione. Infine, i genitori sappiano riprendersi il ruolo di genitori, non abbandonino i figli a se stessi e agli altri. La gioventù rappresenta la vera ricchezza della società, una cassaforte di avvenire pronta ad aprirsi per dare speranza: ognuno, quindi, faccia la sua parte e non dia la colpa soltanto a una parte.
Le piacerebbe raccontare qualcosa di sé che ha segnato la sua esistenza e, dunque, trasmettendola qualcuno potrebbe trarne beneficio?
La mia vita vissuta sinora è caratterizzata da molteplici inciampi e capriole: sono caduto tante volte perché ho sbagliato. Ma ho avuto la forza di rialzarmi. Ho guarito le ferite e ho ricominciato a camminare. Ho imparato ad ascoltare. Ho moderato l’intemperanza. Ho pianto di nascosto. Ho sempre creduto in me stesso. Ho fatto in modo di imparare a pensare, giacché – analizzando le cose – ho acquisito l’abilità di discernere ciò che conta ed è importante nella vita. Nella sofferenza provata in alcune situazioni ho accettato l’idea dell’assurdità, intesa come un avvento inaspettato e difficilmente ipotizzabile, eludendola però con un’altra assurdità per continuare a vivere e scongiurare lo smarrimento.
Potrei raccontare tante cose che hanno segnato la mia vita, ma mi rendo conto che potrebbe servire a ben poco, considerato che le storie personali per essere raccontate bene hanno bisogno del giusto distacco dal protagonista e della verità fattuale che al momento avverto di non possedere. Mi sento però di dire che nella semplicità di un vivere possiamo stanare la straordinarietà che c’è in ognuno di noi e farne il miglior uso possibile.
Un commento a Elio Ria, i pensieri di un poeta