di Wilma Vedruccio
Da bambino aveva fatto il guardiano dei tacchini.
Li aveva rincorsi quando, appena fuori dal pollaio, liberi finalmente ed affamati, s’erano diretti verso l’aia dove s’accumulavano i covoni d’avena, i covoni di grano. Li rincorreva gridando per scoraggiarli ma era lui scoraggiato ed impaurito di non riuscire a tenerli a bada. Li raggiungeva alfine quando s’erano già accaniti a beccare le fascine che crepitavano sotto i loro colpi ed era costretto ad un assalto caotico e disordinato, frammisto di urla, lanci di sassi e gesticolazioni per dissuaderli e allontanarli dai covoni.
Finalmente li menava verso i pascoli concessi, il loro passo era cadenzato come di chi obbedisce malvolentieri, e lo scontento si esprimeva nei versi che gli animali facevan rimbalzare l’un con l’altro.
Il nostro eroe aveva riacquistato dignità, si era munito di un bastone di fortuna e riusciva ora anche a fischiare se era necessario. Li lasciava poi liberi in un campo di stoppie dove avrebbero cercato fra la terra riarsa chioccioline e spighe non raccolte.
Si poteva distrarre finalmente, guardava le nubi che s’alzavano a occidente, fiutava il vento e progettava di salire sull’albero di fichi di laggiù, vicino al pozzo. Quando poi le bestie pennute, un po’ sazie un po’ vinte dalla calura, s’accoccolavano fra la polvere, il pastorello s’allontanava per salire sull’albero dai frutti dolci come il miele.
Passava di ramo in ramo agile come felino, coglieva i frutti che rosseggiavan fra le fronde, li portava alla bocca, li gustava con i denti, col palato, con la lingua e l’ingoiava avido come se fosse stata acqua di sorgente, fin quando ne scorgeva ancora uno.
Oh no, quei dannati tacchini hanno assalito l’orto dei pomodori…..
Giù dall’albero, corre all’impazzata agitando il bastone e lanciando pietre e fischi. S’affanna un po’ prima di scoraggiare quelle bestie. Vola qualche piuma e molti sono gli schiamazzi.
Era costretto a lunghe camminate sotto il sole in campi di stoppie perché quegli uccelli dal collo troppo lungo, troppo nudo e troppo avido insieme, non avessero altre tentazioni.
Come Mosè fra le pietre del deserto e la sua gente.
Tutto questo accadeva quando ormai era grande abbastanza e bravo.
…..
Da piccolino era andato dietro ai guardiani dei tacchini a lanciare qualche sasso ai più indisciplinati, a raccattare pietre perché i fratelli le avessero pronte alla bisogna quando c’era da passare vicino agli oliveti, agli orti; a fare cerchio intorno agli animali quando si rincasava e puntualmente qualche animale tentava di fuggire, come i carcerati dopo l’ora d’aria. Una sera, ricordava, alla conta mancava un animale, si consultarono i fratelli guardiani in fretta e con certezza congetturarono il tempo e il luogo in cui s’era allontanato. Tornarono indietro veloci e lui volle andare con loro”per dare una mano”disse e fu accontentato.
…Camminavano alla luce della luna, riattraversarono oliveti e masserie che non sembravano le stesse delle ore del sole, lunghe ombre tagliavano il cammino. Lui aveva paura, no non lui, il suo cuore.
Ma non osava fiatare, certo l’avrebbero scacciato.
Camminarono a lungo e udirono la civetta cantare, più volte. Guardarono dietro i muri e fra gli orti e trovarono alfine la bestia, era accucciato sotto il grande pero selvatico e s’agitò un po’ durante la cattura. Al ritorno la strada era così luminosa che sembrava la via del paese quando è festa e la civetta non faceva più paura.
Quando non aveva più responsabilità e mansioni passava le ore ad incantarsi… s’incantava dei fischi dei fratelli che pareva volesser bucar l’aria e dei loro lanci di sassi, così lontani che raggiungevano il bersaglio sempre.
Ah quella volta che un tacchino cadde a terra stordito perché era stato colpito non sulla coscia ma sul minuscolo capo e pareva morto! Corse un brivido di paura fra i fratelli, come giustificare al padre l’accaduto, come sfuggire ai rimproveri e al castigo!
Per fortuna la bestia, che gli altri animali avevan circondato, si rialzò e riprese il cammino traballando.
S’incantava a guardare quegli animali , il loro strano corpo, quando ingoiavano e si poteva seguire il percorso del boccone lungo il collo e quando muovevano ritmicamente il capo e facevano quel verso di rimprovero.
Le loro uova, come eran grandi! Non bastavan tutte e due le manine per tenerne uno senza rischiare di farlo cadere.
E le penne poi , che meraviglia! Lui le raccoglieva e le ammirava per ore, s’incantava della setosità, dell’armonia del disegno e dell’iridescenza di alcune, non le scambiava con niente, erano i suoi tesori e poi gli permettevan di giocare agli indiani.
La notte sognava i lunghi colli dei tacchini in cui oggetti dalla forma strana, pipe di terracotta? mestoli da latte? andavano su e giù mentre dai bargigli gocciolava la linfa un po’ urticante dei fichi e dai becchi aperti venivan fuori sciami d’api che volevano aggredire lui che correva verso un cielo che era iridescente, iridescente come… piuma di tacchino.
Quanti strani mestieri nella vita di un uomo! Magari uno nasce e dopo pochi anni, se è così sfortunato da dover dividere spazi e tempo con un fratellino, gli tocca pure badargli! In questa storia si sente chiara la presenza di una famiglia semplice che divide i compiti tra i suoi componenti. Probabilmente una delle sue fonti di sostentamento è l’allevamento dei tacchini e tocca ai piccoli far loro da guardiani. Chissà, magari sarebbe stato meglio un fratellino!
Fatto sta che il bimbetto protagonista, grazie al prodigio di una penna che fa sempre centro, quella di Wilma Vedruccio, parola dopo parola, ci trasforma tutti in piccoli guardiani di tacchini: Ci impossessiamo infatti delle sue ansie, delle sue sensazioni, di quella visione del mondo spensierata e semplice che solo un bambino può possedere. E’ risaputo che gli animali corrono laddove c’è cibo ed è altrettanto risaputo che l’idea d’imbattersi in una punizione per non aver stroncato sul nascere questa insubordinazione rende più vigile e fragile chi ne è stato messo a controllo. Quando si dice ‘Il peso del Potere’. Non vi nascondo che qualche calcio all’indirizzo degli sgraziati e simpatici pennuti mi è virtualmente sfuggito in corso di lettura. Ma Wilma scoraggia da ogni avversione e ci insegna come l’intelletto possa dominare la paura attraverso l’osservazione, lo studio e la conoscenza dell’amico-nemico fino a darci il quadro di tutti, o quasi, i suoi imprevisti e stravaganti comportamenti. Così, fra gli sfarzosi paesaggi campestri diurni e notturni, il protagonista e i suoi fratelli acquistano sempre più sicurezza, imparano come fare a tenere a bada i tacchini e i propri timori tornando indietro a recuperare qualche certezza persa o correndo avanti a tirar sassi a quelle desiderose di fuggire.
Siamo un po’ tutti guardiani di noi stessi, un po’ tutti guide ed esempi per gli altri.
Squisiti i commenti di Raffaella Verdesca!
mi fanno vedere cose a cui non avevo pensato scrivendo e mi incoraggiano a nuova scrittura per la quale non è data certezza alcuna…
Vita semplice, colta in ogni sfumatura. Due gli aspetti: il protagonista e i tacchini, il protagonista e se stesso. Perché di crescita si tratta, di confronto con le proprie paure, ne esce una vita intensa e pienamente vissuta.
L ‘ ho riletto con immensa gioia. È davvero un racconto meticoloso e perspicace. Ci sono i tacchini che mangiano di tutto, bellissima la descrizione del cibo che passa lungo il collo nudo dell’ animale…eppure il suo piccolo guardiano è accorto, lo rincorre , lo cerca lo guida. Quant’è grande la sua responsabilità, lui che ama cibarsi di dolci fichi, deve tenere d’occhio i tacchini che scappano. Con il tempo diventa accorto e poi adulto…Non ha paura lui della notte e del canto delle civette, ma il suo cuore…Bellissimo racconto pieno di atmosfere e conoscenze naturalistiche , da rileggere ancora. Grazie, Wilma