di Emilio Panarese
Dell’importanza storica che la toponomastica rurale ha avuto sempre dal Medioevo ad oggi come testimonianza del sedimento di secolari interrelazioni geografiche, culturali, economiche e, quindi, sociali, non ci sono dubbi.
A chi sa bene studiarla e interpretarla essa mostra chiaramente le varie tappe dell’humus abitativo-ambientale, delle coltivazioni e delle varie attività umane nel territorio, dai secoli scorsi sino ai tempi più recenti, gli aspetti tipici di una specifica zona del paesaggio e della sua evoluzione nei secoli.
Inventari, catasti, apprezzi, onciari, platee, rogiti notarili ecc. ci offrono una tale abbondanza di materiale che meriterebbe un’indagine più approfondita a più largo raggio in considerazione del fatto che il campo della toponomastica subregionale (in questo caso la salentina) è stato quasi del tutto inesplorato o esplorato solo molto parzialmente. Si tratta di segni secolari, in gran parte integri e vitali e tuttora ricorrenti nei nostri codici catastali, proprio perché non soggetti al graduale e totale deperimento di quelli urbani, segni che soprattutto, oltre alla ricchezza lessicale, ci permettono di cogliere le caratteristiche paesaggistiche e geomorfologiche del mondo rurale salentino in genere.
I toponimi che si riferiscono alla natura del suolo (geonimi) ci parlano chiaramente dei calcari cretacei (cuti), che nella piattaforma salentina, debolmente ondulata, si alternano a calcari teneri miocenici come la finissima petra leccese e a sabbioni e a tufi, a terreni del tutto argillosi (argellari, frasciòle) su un suolo carsico assai bibulo.
Una sterile petraia biancheggiante che ha fornito sempre ai contadini materiale sufficiente per recingere con lunghi muriccioli a secco le coltivazioni (chisùre) e costruire strade di campagna (carrarecce) e rifugi e ripari anche trulliformi (chipuri, furni, furneddi, casedde, pajari), ma anche grandi masserie rustiche fortificate, affiancate da grandi torri colombaje, al centro di estese aziende agricole pastorali e cerealicole (grano, orzo, avena, tabacco levantino, colture predominanti, insieme agli oliveti sterminati e ai vigneti), oppure seminate a gràndini o granturco, e a lino e a bombàce o bombacco (cotone) per l’industria tessile casalinga tra superstiti pietrefitte, menhir, quasi reliquie preistoriche, o tra dolmen e specchie o come i megalitici macigni, posti, come pietre di confine, finite, tra estesissime aziende agricole e partifeudi intorno agli antichi borghi.
Le carte toponomastiche ci dicono anche delle scarse risorse idriche del paesaggio salentino, vedi tutti gli idronimi relativi allo sfruttamento delle acque sotterranee o di raccolta e alle distese paludose: una idrografia carsica col carsismo di superficie (acquari, laccàre, laccasìe, pulle, laccùri, cravedde, puzze e puzzelle da tirare acqua, lame e lamuzze, conche, vere e proprie pozzanghere) e quello di profondità coi grandi inghiottitoi che smaltiscono le acque piovane, come le grandi vore, i fàui e gli àvisi o àvasi, abissi con diverse gallerie e grandi caverne preistoriche. La paziente opera del contadino salentino risalta nella costruzione di carcàre (fornaci da calce) e soprattutto di cisterne, cisternali, pilacci, pile e piledde per conservare e usare saggiamente l’acqua con ingegnosi espedienti o nel prosciugamento di enormi spazi paludosi o patùli (v. Arnèo, Sombrino ecc.).
Non possiamo poi non ricordare nella grande cornice toponimica-paesaggistica gli oronimi cioè i nomi indicanti ‘altura’, usati iperbolicamente e con percentuale abbastanza alta, in un’area geografica che, come la salentina, è in genere territorio basso e uniforme, fatta eccezione delle modeste ondulazioni delle petrose Serre. Nel Salento persino un piccolo mucchio, un modesto rialzo del terreno, viene chiamato munte (nu munte de petre, de rumatu): Lo Munticchiu, La Muntagna, lo Muntaltu, Lo Muntarrune, li Monti aperti, Lo Peschialtu, la Murgia, Li Monticelli, La Sèrrula, Li Ozzi, Li Cocci o colliculi, rialzi del terreno ecc.
L’umanizzazione del paesaggio è largamente documentata dai fitonimi, cioè da toponimi relativi alle colture arboree caratteristiche e, in genere, nella vegetazione tipica mediterranea: L’Olive grandi, L’Inzite, le Termiti, Le Mazzarelle o talee d’ulivo, li Cormuni o Ceppi (grossi tronchi d’ulivo), le Ramade, le Celine o Ogliarole, Li Pumi o pannocchie di granturco, Le Fiche, Le Ficocelle, Lo Brofico, Lo Celso, Lo Piro, Lo Pirazzo e Li Piràscini (peri selvatici), Le Scìsciule e Le Giùggiole, Li Noci, Le Cerase, Le Mendule, La Vigne, L’Orte e le Pezze (frazioni di vigneti); mentre altri fitonimi si riferiscono alla vegetazione spontanea: La Brunitta o elce nana, La Macchia grande, La Quercia fàrnea, La Mortella, Li Lentischi, Li Scinèi, Le Lizze, Le Còrnu1e, Li Fàui, Li Pigni, le Fra[ga]nite, La Nicchiarica tumàra con grandi pascoli ricchi di timo, Le Fattizze o terreni incolti per pascolo. Interessanti pure i teronimi che prendono il nome dagli animali di allevamento: Lo Palumbo, Le Tùrture, Lo Cchillu (o tacchino), Lo Gallo, Lo Taurizzo, Lo Joe, Lo Cuniju, ecc.
Nei borghi rurali troviano disseminati vari horticelli con piante di fave, fasòli, cìciri e piseddi e qua e là piccoli, medi apiari, che forniscono dolcissimo miele accanto ai verdi giardini, qualcuno per uso di delizia con peschi, meli, cotogni, ciliegi, fichi di varie qualità e marange o arance acri. Nei dintorni del rustico abitato, ma qualcuna anche dentro, sono attive alcune masserie, che forniscono oltre alla marsotica seù recotta salata, venduta nel mese di maggio entro erbe aromatiche, e all’appetitosa ricotta ‘scante, fortemente piccante, il cascio primitìo, freschissimo, di ottima qualità ben noto, nel passato, in tutte le province del Regno Napoli.
Estremo paesaggio sudorientale d’Italia, monotono e semplice, avaro di acqua, con siccità estive forti e lunghe, ma, per opera del tenace lavoro dell’uomo, produttivo e popolatissimo.
Tutti questi antichi toponimi rurali, ancor oggi vivi e resistenti, ci dicono di ogni aspetto del lavoro agricolo e dell’amore a questo semplice paesaggio salentino, alla terra riarsa, alla terra coltivata con durissima, tenace fatica dell’aratro e della zappa, bagnata di sudore e lacrime, che ci ricorda il virgiliano labor omnia vincit improbus, che soltanto con assidua tenacia sa vincere ogni difficoltà e costruire la divina gloria ruris, la divina gloria dei campi.
Emilio Panarese in «Salento, il paesaggio della semplicità» di Francesco Tarantino, Edizioni del Grifo, Lecce, 2004, pp.31-32
Perfetto!