di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Nascendo lo avevano chiamato Giorgio come il santo patrono del paese, un santo guerriero che l’immagine posta sull’altare maggiore della chiesa mostrava fiero mentre in sella ad un cavallo bianco uccideva a colpi di lancia un terribile drago tutto fiamme e fumo.
Di quel nome il bambino ne andava orgoglioso, come se il sentirsi associato a un santo tanto forte lo compensasse della sua mancanza di vigorìa: era infatti nato e cresciuto malaticcio, con una gobbetta che gli premeva sulle spalle e due gambe tanto esili da non riuscire a reggere il peso del corpo.
Aveva già sette anni, ma non essendo in grado di camminare passava le giornate rannicchiato sull’ampio seggiolone che la mamma accostava il più possibile al balconcino affinché avesse più aria, più luce, e potesse, sia pure da lontano, assistere allo svolgersi della vita paesana: i vecchi che prendevano il sole seduti sui marciapiedi; le donne che frettolosamente andavano o tornavano dalla Messa; i bimbi che sciamavano felici rincorrendo un cerchio, giocando a rimpiattino, qualche volta scazzottandosi per gioco o per futile diverbio.
Quel balconcino dava proprio sulla piazza del paese ed era l’unica ricchezza della sua casa, situata al primo piano e composta appena di due stanzette. Vi si accedeva attraverso una ripida scala, la quale, non avendo pianerottoli con porte menanti ad altri appartamenti, concorreva a creare una cortina di isolamento.
Accadeva così che il piccolo Giorgio trascorresse molte ore in completa solitudine, attendendo inquieto che la mamma tornasse dalle case signorili dove, a turno, andava a fare il bucato. Una lunga penitenza che non veniva certo compensata dall’uva passa, noci o fichi mandorlati che le signore ricche gli mandavano in dono sapendolo povero e malato.
Solo una volta al mese il suo cuore si riempiva di gioia, ed era quando il papà – impegnato a lavorare come inserviente in una masseria lontana dal paese – otteneva dal massaro il permesso di trascorrere due o tre giorni in famiglia. Arrivava stanco per il lungo cammino ma ugualmente pronto a metterselo cavalcioni sulle spalle e fargli fare un giro all’aperto.
Durante la stagione buona, la meta preferita era sempre la campagna, dove adagiato sull’erba, all’ombra protettiva di un albero, poteva ascoltare il canto degli uccelli, divertirsi al guizzo improvviso delle lucertole o seguire con lo sguardo il laborioso procedere delle formiche.
Durante l’inverno, invece, il giro con il suo papà si esauriva in paese; ma era ugualmente bello percorrere le viuzze, guardare le icone affrescate agli angoli delle case, soffermarsi davanti alle botteghe e, sempre a cavalcioni sulle spalle del padre, entrare in chiesa per sostare qualche attimo davanti all’altare di Gesù Sacramentato, avere in regalo dal parroco un’immaginetta o qualche caramella al miele e rivedere il quadro di San Giorgio che continuava a uccidere il drago.
In quei momenti si sentiva anche lui un santo portato in processione e riprovava l’euforia e l’emozione di quando, affacciato al suo balconcino, attendeva che al suono della fanfara sbucasse la statua del santo festeggiato, contornata di candele accese e portata a spalla dai più forti giovani del paese.
Le processioni erano infatti gli appuntamenti ai quali più ci teneva, anche se l’appuntamento più importante scattava il giorno del Corpus Domini, allorché in piazza, camminando con i piedi del parroco sotto il baldacchino di seta dorata, arrivava Gesù Sacramentato.
Gli sarebbe piaciuto essere uno dei bimbi che con la tunichetta bianca e un giglio in mano facevano da battistrada al corteo; ma lui non era sano, non poteva camminare come tutti i bambini, e l’unica gioia che gli era concessa era quella di aspettare che il baldacchino passasse sotto il suo balcone per salutare Gesù con una pioggia di petali di fiori.
– Passando sotto il nostro balcone – gli ripeteva la madre – Gesù guarda in alto, ti vede, ti ama, ti benedice e, benedizione dietro benedizione, un bel giorno ti guarirà rendendoti felice.
Quelle parole gli facevano venire i lucciconi agli occhi, e non tanto per la speranza di ritrovarsi guarito, quanto per l’affermazione che Gesù lo amava. Spargere fiori al suo passaggio si poneva perciò come doverosa risposta, un vero e proprio contraccambio d’amore rafforzato dal bacio che ardentemente associava ad ogni pugnetto di petali, ripetendo più che con le labbra col cuore: “Ti amo Gesù, ti amo, ti amo, ti amo!”.
Stando così le cose, si può immaginare quale fu la sua delusione quando la mamma, poche ore prima del passaggio della processione, gli comunicò che quell’anno le era stato impossibile procurargli i soliti fiori: impegnata nell’assistenza alla nonna, gravemente ammalata, non aveva avuto il tempo di passare dal giardino di zia Rosaria, l’unica in paese a coltivare zinnie, dalie e garofanini.
– Non te la prendere – gli aveva detto vedendolo imbronciato – Gesù vede tutto, sa tutto e gradirà ugualmente i tuoi baci anche se non accompagnati da fiori.
Poi, prima di riuscire, gli aveva messo accanto un cestino pieno di foglie verdi frettolosamente reperite presso gli ortali delle vicine di casa: ciuffi di mentuccia, rametti di basilico, sedano e financo cicorietta.
Rimasto solo, Giorgio si era messo a piangere: quelle foglie non gli piacevano per niente. Essendo state tolte a piante cresciute negli angusti perimetri degli ortali non possedevano la vigorìa che conferisce l’aria aperta della campagna: apparivano vili, intristite da un verde opaco che solo se accostato a petali colorati avrebbe preso un po’ di vita.
Pensando alla vivezza dei petali colorati, gli era balenata nella mente un’idea, subito giudicata bellissima: la sciarpetta che portava al collo, la mamma l’aveva sferruzzata utilizzando cotone disfatto da vecchie magliette, per cui era sortita a chiazze variopinte. Tagliuzzandola e mischiandone i pezzettini alle foglie verdi, avrebbe di certo supplito alla mancanza dei fiori.
Quando il coro dei bimbi vestiti di bianco aveva annunziato l’approssimarsi della processione, Giorgio aveva da poco finito di tagliuzzare la sua sciarpa, e non appena aveva visto che il baldacchino stava per passare sotto il balcone, tutto felice si era dato a lanciare i suoi fiori.
Le foglie verdi, appesantite com’erano dalla linfa, avevano fatto presto ad atterrare, ma i piccolissimi pezzi di sciarpa, resi ancor più leggeri dall’usura del cotone, avevano impiegato più tempo, volteggiando come piume nell’aria e via via prodigiosamente aggruppandosi in una selezione di tinte: i bianchi con i bianchi, i rosa con i rosa, i rossi con i rossi; e in questo loro aggrupparsi, gradatamente si erano trasformati in petali di fiori veri, tanti mazzolini di corolle vive che, planando al suolo, avevano raggiunto le foglie, a queste saldandosi in una realtà di piantine miracolosamente già radicate nelle connessure dei marciapiedi e negli interstizi del lastricato.
– Ma questo è un miracolo!… – aveva esclamato il parroco assistendo a tanta meraviglia.
– Miracolo… miracolo!… – gli aveva fatto eco la moltitudine di fedeli scompaginando le file della processione.
– Miracolo… miracolo!… – avevano continuato a gridare le persone che, disertando finestrelle e balconi, erano scese in piazza desiderose di far festa anche loro al piccolo Giorgio.
Questi, infatti, perfettamente guarito, senza più gobbetta e ben saldo sulle gambe, aveva sceso a precipizio la ripida scala della sua casa e, piangendo di gioia, raggiunto il baldacchino per ringraziare Gesù.
Tutti volevano vederlo da vicino, parlargli, accarezzarlo. Nello stesso tempo, vincendo il caotico incrociarsi dei passi, ognuno voleva appropriarsi di almeno un tralcio delle prodigiose piantine da trapiantare nei vasi o negli ortali di casa.
Da quel momento anche la piazza aveva cambiato i suoi connotati: sovvertendo l’antica toponomastica, non si era più chiamata “Piazza Roma”, bensì “Piazza del Geranio”, così come la popolazione aveva battezzato il fiore inaspettatamente propostosi. Transitarvi era diventato per molti un motivo di gioia, una gioia accompagnata dall’irrefrenabile desiderio di guardare verso il balconcino di Giorgio, dove sapevano di non vedere più la sua diafana figura di malatino ma tanti vasi di piante di geranio; una parata di fiori bianchi, rosa e rossi che nella loro rigogliosità attestavano l’amorevole presenza di Dio.