Taranto. Breve storia del quarto polo siderurgico

 

di Alessio Palumbo

 

In questi giorni, la sentenza di chiusura di alcuni reparti dell’Ilva di Taranto e le proteste scaturitene, ha catalizzato l’attenzione di media, esperti e semplici lettori. Si è dipanato così un dibattito vasto e composito che, di volta in volta, anche su questo blog, ha posto il focus su alcuni problemi specifici: dall’inquinamento alle politiche del lavoro, dall’indotto ai danni apportati alla qualità della vita dei tarantini, etc. etc. Un rapido viaggio nella storia del centro siderurgico tarantino forse permetterà di avere una visione più vasta e completa dei problemi, dei retroscena, delle speranze e delle delusioni che per decenni si sono abbinati a questo “drago d’acciaio”.

Nel secondo dopoguerra, lo sviluppo in Italia della siderurgia pubblica si è legato, fondamentalmente, alla figura di Oscar Sinigaglia. È infatti alla sua mentalità fordista che si deve la nascita e la crescita di un’industria pubblica dell’acciaio basata sulla riduzione della dipendenza dal rottame, sulle grandi dimensioni degli stabilimenti e sulla produzione di lotti standardizzati[1]. Molteplici ragioni spingevano Sinigaglia verso questa soluzione: innanzitutto la realizzazione di economie di scala avrebbe compensato i costi delle materie prime importate; di conseguenza, lo sviluppo di un’industria siderurgica a buon mercato avrebbe favorito una notevole crescita dell’industria meccanica e di conseguenza avrebbe avuto dei risvolti anche dal punto di vista occupazionale.

Dal 1948 al 1956 il cosiddetto Piano Sinigaglia favorì, a costo di una pesante riduzione occupazionale nel settore, un’opera di selezione degli stabilimenti, concentrando tutta la produzione in quelli più efficienti e favorendo un processo di specializzazione degli stessi. Il risultato fu un grandioso aumento della produzione e una caduta dei prezzi del 40% tra il 1952 e il 1954. Ciò permise all’Italia di raggiungere, nel 1956, il rango di esportatore. È in questo contesto che nacque il progetto del IV centro siderurgico di Taranto[2].

Siderurgia e politiche per il Mezzogiorno

Nel 1957 il Comitato per lo sviluppo dell’occupazione e del reddito, presieduto da Pasquale Saraceno, sostenne la necessità di creare un grande polo siderurgico nel sud Italia, come iniziativa industriale avente capacità propulsive per tutto il Mezzogiorno. La classe politica nazionale vide in questa impresa l’occasione per un notevole ritorno d’immagine e soprattutto un nuovo mezzo di contrattazione all’interno delle pratiche clientelari ed elettorali. Nel 1959, quindi, il governo Segni decise la realizzazione del centro tarantino.

Immediate scattarono le proteste soprattutto da parte dei ceti imprenditoriali settentrionali, che spingevano per l’ammodernamento degli impianti esistenti, ritenendo superflua la costruzione di un nuovo enorme complesso a ciclo integrale. A tali opposizioni Saraceno rispose ribadendo le proprie idee sulla competitività del ciclo integrale costiero, sulla necessità di ridurre la dipendenza dal rottame e sul sicuro e prossimo spostamento dei consumi nel sud Italia, grazie anche alle politiche per lo sviluppo e le agevolazioni poste in essere dallo Stato nel Mezzogiorno[3].

Nonostante le opinioni contrarie espresse anche in seno alla stessa IRI, i lavori proseguirono e nel 1968 gli investimenti ammontavano già a 600 miliardi a dispetto dei 160 previsti.

Il boom degli anni ‘60

Le previsioni pessimistiche sull’inutilità e, addirittura, la pericolosità della costruzione di un nuovo centro siderurgico a ciclo integrale furono, almeno momentaneamente, sconfessate dalle eccezionali prestazioni della siderurgia italiana negli anni ’60. La crescente domanda interna ed estera non solo permise l’assorbimento delle produzioni del nuovo centro tarantino, ma costrinse l’intero gruppo Finsider a correggere, verso l’alto, gli obiettivi produttivi.

La siderurgia pubblica visse un periodo estremamente florido al quale corrisposero ulteriori ampliamenti, ammodernamenti tecnologici e fusioni societarie, come quella tra Cornigliano ed Ilva, che prese il nome di Italsider e di cui fece parte anche lo stesso IV centro siderurgico. Nonostante alcune proteste sull’utilizzo “elastico” della manodopera, almeno fino alla metà degli anni ’60, la crescita occupazionale fu molto più ridotta rispetto a quella produttiva. Taranto e la siderurgia italiana vissero dunque anni di ottimismo e di sviluppo, tanto che le errate previsioni su questo trend portarono il Comitato Tecnico Consultivo dell’IRI ad elaborare, nel 1969, un nuovo programma di espansione che prevedeva, tra le altre cose, l’ampliamento del centro di Taranto e la costruzione di un nuovo impianto (localizzato poi a Gioia Tauro). Una scelta più politica che economica, chiaro segnale di una gestione che cominciava pericolosamente a basarsi su criteri partitici più che aziendali.

Gli anni ’70 e le avvisaglie della crisi

Lo shock petrolifero e la contrazione del mercato siderurgico furono i principali fattori (ma non unici) del crollo dei consumi mondiali d’acciaio a partire dalla metà del decennio. Una leggera ripresa nella seconda metà degli anni ’70 degenerò in una crisi manifesta ad inizio anni ’80. La CEE cercò di intervenire razionalizzando la produzione dei diversi paesi aderenti, scongiurando forme di concorrenza esasperata, vietando le vendite in dumping, favorendo la mobilità della manodopera, limitando in alcuni casi la produzione. I piani Davignon stabilirono la concessione di prestiti solo a quei progetti d’investimento che contemplassero delle riduzioni compensative e restrinsero gradualmente le possibilità dei singoli stati di aiutare le proprie imprese in difficoltà.

In questo contesto l’Italia riuscì a resistere, addirittura aumentando le proprie quote di produzione, i consumi e persino l’occupazione nel settore. Il trend positivo era tuttavia legato, fondamentalmente, alle parti più competitive del settore, ovvero alla siderurgia privata. Nella pubblica, solo l’area produttrice di tubi ebbe un certo sviluppo, mentre i coils e i semiprodotti registrarono crescenti passivi. Neanche il raddoppio del IV centro siderurgico riuscì ad invertire la tendenza. La storia della siderurgia pubblica divenne sempre più quella di “un gruppo industriale orientato alla ricerca del consenso politico-sociale come fine ultimo, protetto dal sostegno finanziario statale, in uno scenario di aspra competizione internazionale e di flessione del mercato”[4]. L’obbedienza dei manager pubblici alle direttive politiche imposte sia a livello nazionale che locale garantiva alle imprese a partecipazione statale i fondi necessari al proprio sostegno, impedendo così la risoluzione in modo razionale dei problemi di eccesso di capacità produttiva che le attanagliavano. Se a ciò si aggiunge la tenacia dei sindacati nel rifiutare qualsiasi ipotesi di una gestione più flessibile, se non addirittura una riduzione del personale, si può capire come anche un’industria moderna e tecnologicamente avanzata, come l’Italsider di Taranto, potesse perdere tragicamente competitività a livello di costi, servizi e qualità produttiva.

Il IV complesso siderurgico non riuscì a sviluppare un reale indotto, né forme di impresa private o di terziario commerciale. Inoltre, l’inesperienza della manodopera assunta, la protezione concessa alle ditte appaltatrici, le disfunzioni provocate dalla produzione di lotti inferiori al peso della singola colata, ridussero al 70% la quota di utilizzo del centro tarantino.

Gli anni ’80 e la “crisi manifesta”

Negli anni ’80 tutta la siderurgia europea scontò un periodo di “crisi manifesta”. La Comunità Europea cercò di porvi rimedio introducendo quote obbligatorie di produzione e politiche efficientiste di vario genere. In particolar modo i finanziamenti statali all’industria siderurgica furono subordinati ad una serie di criteri espressi dalla Comunità stessa. Un insieme di riforme che durò fino al 1988, anno di nuova ripresa del settore.

In questo periodo il sistema italiano visse sull’orlo del collasso. Nel 1981 l’Italsider, a causa di perdite superiori allo stesso capitale, fu costretta a cedere le attività alla “Nuova Italsider”. Nel frattempo, il centro tarantino continuava ad essere “un’isola permanente di assistenzialismo”[5]. Se infatti l’intervento comunitario permise di supplire alla mancanza di una logica economicistica nella gestione di molte imprese pubbliche italiane, Taranto fu pressoché immune da queste politiche: non vi fu alcun cambiamento nella gestione del personale, né nella razionalizzazione dei processi. Il centro ionico rimase l’ultimo centro siderurgico a grande concentrazione occupazionale, riconfermandosi come “l’inalienabile, gigantesco e fibrillante cuore periferico della siderurgia nazionale”[6]. L’unico cambiamento di rilievo fu la liquidazione della Finsider ed il relativo passaggio degli impianti più moderni, tra i quali il IV centro siderurgico, all’Ilva.

A fine anni ’80, nonostante la ripresa del settore, i tagli, i prepensionamenti e i processi di reindustrializzazione si resero indifferibili anche per il centro di Taranto (legge 181 del maggio 1989). Ebbe così inizio una nuova incerta fase che portò, nel 1995, alla privatizzazione dello stabilimento e al suo passaggio al gruppo Riva.

Le vicende degli ultimi anni dimostrano come i problemi di gestione del “drago d’acciaio” restino numerosi e gravi. La vecchia Italsider continua ad essere “la mammella da cui Taranto succhia il miele di migliaia di posti di lavoro, ma anche il veleno che ha fatto raddoppiare i casi di tumore”[7].

Per molti versi non si tratta di nulla di nuovo. Il caso di Taranto dimostra come siano sempre valide le considerazioni di David S. Landes sullo sviluppo industriale e sulle sue conseguenze, ossia il suo essere “una forza enorme capace di produrre tanto il bene che il male; [con] momenti in cui il male ha superato di gran lunga il bene. In ogni modo, la marcia della scienza e della tecnica continua, e con essa il travaglio sociale e morale”[8].


[1] Una soluzione opposta era sostenuta da Falck che riteneva la grande industria siderurgica a ciclo integrale non adatta ad un paese come l’Italia, carente delle due principali materie prime: ferro e carbone.

[2] Gli altri tre erano Bagnoli, Piombino e Cornigliano

[3] Ad esempio la legge 634 del 1957 favoriva la localizzazione industriale nel Mezzogiorno attraverso prestiti a tasso agevolato e finanziamenti a fondo perduto. Stabiliva inoltre l’obbligo per le imprese a partecipazione statale di destinare il 40% degli investimenti al Mezzogiorno

[4]  M.Balconi, La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato, Bologna, Il Mulino, 1991, p.223)

[5] Ivi, p.307

[6] Ivi, p.415

[7] Viaggio dentro il drago d’acciaio, Panorama, 7 dicembre 2006, pp.114-118, p. 114

[8] Landes D.S., Prometeo liberato. La rivoluzione industriale in Europa dal 1750 ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 2000, (I ed. 1969), pp.732-733

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