Un Sant’Onofrio tra le iconae depictae della Cattedrale di Nardò.
Il santo eremita egiziano riemerge nel corso degli ultimi restauri
di Marcello Gaballo
Non si può che plaudire la determinazione e la costanza con le quali don Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale di Nardò, ha dato impulso – da oltre un anno a questa parte – ai lavori di restauro degli affreschi dell’Ecclesia Mater neritina. I recenti interventi, effettuati dai restauratori Januaria Guarini e Gaetano Martignano, hanno restituito al loro antico splendore gli affreschi raffiguranti il san Bernardino da Siena[1] su uno dei pilastri della navata sinistra, il Cristo alla Colonna sul lato destro del presbiterio, e il meraviglioso trittico con san Nicola, la Vergine col Bambino e la Maddalena, conservato nella navata sinistra, in corrispondenza della base del campanile.
Attualmente il paziente lavoro di recupero sta interessando alcune porzioni di affresco collocate sulla parete meridionale della Cattedrale, in direzione della piazza principale della città. Uno di questi affreschi (l’ultimo in ordine di restauro) occupa lo spazio della parete destra compreso tra la cappella di San Michele Arcangelo e la porta laterale.
Posto sull’originario muro perimetrale, il dipinto ha suscitato particolare interesse per il soggetto rappresentato, finora inedito, reso tuttavia quasi illeggibile sia per le cadute di colore, sia per uno strato d’intonaco con tracce di affreschi che lo ricopre nella zona intermedia. In aggiunta a questo, l’affresco reca danni evidenti anche a causa delle manomissioni subìte dal tempio nel corso dei secoli, soprattutto durante l’episcopato di mons. Fabio Fornari (1583-1596); periodo al quale risale la demolizione di numerosi altari – alcuni dei quali collocati in ogni angolo e a ridosso dei pilastri – e con essi la distruzione delle iconae depictae che li ornavano, poi riemerse in buona parte a fine Ottocento, durante i lavori di restauro finalizzati a rimuovere le strutture settecentesche realizzate da Ferdinando Sanfelice.
L’affresco in oggetto ritrae un santo olosomo, in piedi con le mani giunte, inserito in una cornice lineare ocra su una campitura blu. Il soggetto – raffigurato nudo, con il capo circondato da un nimbo giallo – esibisce una folta barba e una lunga e fluente capigliatura. Meglio leggibili gli arti inferiori, ugualmente privi di indumenti e caratterizzati dalla presenza di tre steli di un elemento vegetale (forse una palma) che, dai piedi, si innalzano fino alle cosce del santo, culminando in tre ampie foglie.
Ai lati della figura si intravedono alcuni caratteri di una duplice iscrizione disposta in senso verticale, all’altezza del volto: a destra si legge “[…] F […] YS”; a sinistra la sola lettera “S”.
Il riquadro con l’effigie del santo era originariamente accostato ad una seconda riquadratura (all’interno della quale sopravvivono pochi brani), come si evince da una porzione di cornice ornata da girali vegetali, che sovrasta entrambi i riquadri.
La perizia degli operatori ha restituito un’interessante iconografia che si presta a diversi spunti di riflessione sui quali è utile soffermarsi. La nudità del soggetto farebbe pensare ad un santo anacoreta, vissuto nel deserto sull’esempio di san Giovanni Battista e del profeta Elia, i cui attributi iconografici, assenti nell’affresco neritino, autorizzano ad escluderli da un’ipotesi interpretativa.
Le poche lettere sopravvissute e soprattutto l’irsutismo della figura[2] permettono di identificarvi sant’Onofrio, un eremita vissuto nel V secolo che, per oltre settant’anni, si ritirò in solitudine nel deserto, nutrendosi di erbe e riposando nelle grotte presenti attorno al suo eremo di Calidiomea, il luogo dei palmizi. La leggenda narra che, quando i suoi abiti diventarono lisi al punto da ridursi a pochi brandelli, il Signore fece crescere su tutto il corpo del santo un abbondante pelo, per proteggerlo dalla rigidità del clima, mentre un angelo, ogni giorno, si recava da lui per portargli del pane come unico alimento.
Le vicende del santo anacoreta furono narrate da Pafnuzio, un monaco vissuto nel V secolo in Egitto, che lo incontrò più volte e ne scrisse nella Vita greca, asserendo che l’eremita morì l’11 giugno (anche se il santo è celebrato il 12 giugno nei sinassari bizantini)[3].
Alla luce di questi pochi elementi, l’iscrizione potrebbe dunque essere completata e letta come “[ONO]F[R]YS”; più ardua, invece, l’interpretazione dell’apparentemente singola lettera “S”, che potrebbe essere la lettera finale di Onofrius o di Sanctus.
Riuscire a decifrare il significato di questi caratteri è, dunque, di estrema importanza ai fini dell’esatta datazione dell’affresco che, in ogni caso, merita uno studio approfondito da parte degli specialisti di arte medievale e bizantina, sia per la comparazione di questo con i restanti affreschi, sia per una migliore definizione dell’intero ciclo pittorico.
L’identificazione del santo egiziano rimanda ad un inusuale culto neritino nel Medioevo, del quale non si conosce nulla, sebbene l’eremita fosse ben noto nel Salento, considerata l’esistenza di numerose altre sue rappresentazioni in questa terra, tra le quali si citano quelle di Santa Maria di Cerrate a Squinzano (in cui era dipinto su uno degli archivolti nella chiesa), dell’abbazia di San Mauro sul litorale ionico (dove l’anacoreta è affrescato sull’intradosso di uno degli archi), nella basilica di Castro[4]. Più celebre il bel sant’Onofrio dipinto nella chiesa galatinese di Santa Caterina, dov’è raffigurato con i canonici attributi iconografici che lo caratterizzeranno nel corso dei secoli[5].
Alla luce di questo importante rinvenimento e dei numerosi affreschi tuttora conservati nel massimo edificio religioso neritino, ci si augura che la sensibilità del sacerdote – evidentemente supportata da generosi offerenti – possa proseguire nella meritoria opera di recupero di queste importanti testimonianze pittoriche, anche in vista dell’eccezionale evento che ricorrerà il prossimo 2013, quando la Diocesi di Nardò celebrerà il secentenario dell’istituzione della cattedra episcopale (11 gennaio 1413) ad opera di papa Giovanni XXIII (il pontefice scismatico Baldassarre Cossa), il quale nominò primo vescovo l’abate Giovanni de Epifanis.
[1] Sul san Bernardino da Siena si veda la relativa scheda di restauro pubblicata su “Il delfino e la mezzaluna”, a. I, n. 1 (luglio 2012), pp. 146-148. Cfr. inoltre R. Poso, La cultura del restauro pittorico in Puglia nella seconda metà del XIX secolo, in Storia del restauro dei dipinti a Napoli e nel Regno nel XIX secolo, Atti del Convengo Internazionale di Studi (Napoli, 14-16 novembre 1999), a cura di M.I. Catalano e G. Prisco, volume speciale 2003 del “Bollettino d’Arte”, pp. 273-286.
[2] Con tale aspetto “santu ‘Nufriu u pilusu” è raffigurato nella Cappella Palatina di Palermo, dov’è annoverato tra i comprotettori della città ed oggetto di un culto molto intenso. Come riferisce il Pitrè, il santo era anticamente invocato da parte delle fanciulle in cerca di marito, diversamente da quelle salentine che, invece, rivolgevano le loro preci a san Nicola di Myra.
[3] Su sant’Onofrio cfr. A. Borrelli, in http://www.santiebeati.it/dettaglio/56850; M.C. Celletti, Sant’Onofrio, in Bibliotheca Sanctorum, Roma 1967, IX, coll. 1187-1099.
[4] Mi comunica a tal proposito l’amico Emanuele Ciullo: “il S. Onofrio della basilica bizantina di Castro è stato rinvenuto nel corso dei recenti restauri cui è andata soggetta la basilica, che è la chiesa cattedrale di Castro, è una figura stante ubicata nel sottarco dell’arcone centrale della navata destra (l’unica porzione in elevato dell’edificio) al centro di altre due figure per complessivi sei santi (tre da un lato e tre dall’altro, il disegno è perfettamente “>speculare) divisi da una fascia a fregio vegetale al centro dell’arco. La figura naturalmente è completamente nuda e ha il nome iscritto affianco. Datazione incerta (X-XI?)”.
Ringrazio per la segnalazione l’altro amico Angelo Micello.
[5] Qui il santo, barbuto e con fluente capigliatura che ricopre buona parte del corpo, si appoggia con la mano sinistra su un bastone che termina in una croce a “T” (Tau) nella parte superiore; con la mano destra stringe un singolare rosario, i cui grani (circa 35), di colore marrone, sembrerebbero ghiande. Ai piedi del santo una corona rammenta agli astanti la rinuncia di Onofrio alla sua probabile stirpe regale e, comunque, alla gloria terrena, in favore di quella celeste attraverso l’eremitaggio.