di Giorgio Cretì
Vado ad aprire il cimitero ed inizio la mia normale giornata di custode, cioè di addetto alle pulizie. Scendo le scale della parte vecchia, di quella sotterranea, con il mio secchio e con la scopa e appena arrivo giù, in quell’ambiente poco illuminato e in quel silenzio tombale, percepisco un bisbiglìo lieve lieve di voci che dicono: “speriamo che non se n’accorga”. Non si accorga di che cosa? E chi? Tendo bene l’orecchio e mi guardo attorno, ma non vedo anima viva. Poi scopro che un loculo ha il coperchio riverso ed è vuoto. Ecco che cosa vuol dire “speriamo che non se n’accorga”: qualcuno ieri sera è andato a fare un giro e non si è ancora ritirato. “Bene”, dico ad alta voce, “ora mi piazzo qui e non mi muovo, voglio vedere a che ora si ritira, poi facciamo i conti”. Intanto fingo di fare le solite pulizie. Dopo un po’ vedo arrivare uno scheletro, viene giù dalle scale molto lentamente, ma lo lascio avvicinare. “Allora”, gli faccio: “e tu, a quest’ora, da dove vieni? Lo sai che fuori è già suonata la sveglia ed è stato fatto l’appello?”. Allora lo scheletro con la testa china in segno di rispetto mi risponde: “senta, signor custode, lei lo sa che io, per tradizione, tutti gli anni vado alla festa di Ferragosto ed anche questa volta ci sono andato”.
“Va bene”, gli faccio, “intanto sei uscito senza permesso, ma come mai sei tornato solo a quest’ora?”. “Sa com’è, signor custode, passavo vicino ad una bottega dalla cui porta usciva un odore di pezzetti al sugo molto invitante e non ho resistito alla tentazione di entrare. Poi ho mangiato e bevuto, forse troppo, ho perso la cognizione del tempo e mi sono addormentato, quando mi sono svegliato era già mattina. Ecco perché sono così in ritardo. Mi deve scusare, non accadrà più”.
“Non è la prima volta che vai oltre l’ora della sveglia, alla prossima ti rimando a casa tua”. Ero arrabbiato.
Questo è ciò che succede ad un povero custode di cimitero che dopo essere andato in pensione sogna di trovarsi ancora al lavoro, anche con funzioni superiori a quelle realmente ricoperte durante la sua vita lavorativa.
In realtà, lamia professione non era proprio quella di custode di cimiteri, io da dipendente comunale facevo soprattutto il tappabuchi e andavo dove mi mandavano, si trattasse di raccogliere la spazzatura, di pulire le strade, di fare il becchino. Che poi, quello del becchino è un mestiere come un altro, basta avere un po’ di vocazione e sangue freddo, i morti non danno fastidio. Ne danno, semmai, i vivi. Basti pensare che molte volte mi è capitato, con la bara già dentro al cassettone e con il secchio della malta pronto a sigillare il coperchio, di essere bloccato da un familiare che mi toglieva la cazzuola di mano e mi investiva con una serie di parole. “Come puoi avere il coraggio di tumulare la mia mamma?”, mi urlavano, “com’è che non hai pietà?”. Io, per la verità, in tutte le volte che ho fatto il tappabuchi al cimitero, non ho mai tumulato una persona viva e lo dico per dire che con la gente rompiscatole ho avuto sempre pazienza. Poi c’era sempre qualcuno che alla fine, con le buone o con le cattive, riusciva a porre termine al melodramma ed io potevo sigillare la pietra di chiusura del loculo. A volte la gente piange, urla e si strappa i capelli che sembra matta…
Vi voglio raccontare questa. Un giorno muore un giovane del capoluogo, un certo Filippo Lazzari, di una di queste malattie di adesso che non danno scampo a nessuno, e viene tumulato nel colombario che occupa la parte centrale dell’area nuova del cimitero. Lo tumulai proprio io e per evitare possibili errori, sulla pietra di chiusura posta in modo provvisorio in attesa della lapide, incollai una copia del manifesto con il nome ed i dati anagrafici del defunto. All’indomani morì una donna della frazione e alla presenza dei familiari la tumulai nell’altro colombario che sta di fronte, usando lo stesso accorgimento del manifesto incollato alla pietra di chiusura in attesa della lapide definitiva. Mancava un figlio lontano e la mattina successiva la famiglia al completo tornò a rendere omaggio alla morta. Io mi trovano da quella parte e li vidi arrivare in silenzio e con la testa bassa. Ma si diressero verso la tomba del giovane morto di brutto male. Pensai che passassero a salutarlo, per via della giovane età, prima di andare alla tomba della loro madre. Invece, giunti lì davanti senza nemmeno alzare lo sguardo alla tomba fresca iniziarono il lamento funebre, il disperato piagnisteo delle donne che si udiva fin dalla strada, specialmente quello di una figlia che lanciava urla disperate di dolore e si strappava i capelli. Stavo osservando la scena perplesso quando mi raggiunsero mia zia Dalia con una ragazza sua vicina di casa. Anche loro erano distratte dalle urla disumane. Mia zia mi venne vicino vicino e discretamente mi disse: “guarda un po’, nipote, può mai essere una cosa del genere? E’ vero che questo è un luogo di pianto, è vero, non di gioia, ma c’è un contegno a tutto”. Faccio io: “State attente che quelli sono della frazione e hanno sbagliato tomba, piangono la mamma ch’è sepolta nell’altro colombario, quello di fronte” e indicai dove la donna era sepolta, l’avevo tumulata io il giorno prima! Mia zia e la ragazza se n’andarono scuotendo la testa. A quel punto, però, io decisi di avvicinarmi al gruppo, anche se con una certa discrezione. Faccio a bassa voce: “Scusa signora, per favore, ti posso dire una cosa?”. “Ma no, ma no, Uccio”, disse la donna, “tu non sai che cosa significa per me, lasciami stare, lasciami piangere”.
Un po’ infastidito dal suo atteggiamento, che mi sembrava veramente esagerato, dissi che anche mia madre era morta e stava seppellita nel cimitero sotterraneo da diversi anni. “Ascolta”, dissi timidamente, “io voglio dirti soltanto una piccola cosa. “Pina”, le disse allora il marito, “ascolta che cosa Uccio ha da dirti”. “Dimmi Uccio, dimmi”, disse la donna, “povera me, la mia mamma non c’è più”. “Pina”, ripresi appena potei, “ma tu chi stai piangendo?”. Interruppe i sighiozzi e si staccò il fazzoletto dagli occhi arrossati. “Come?”, disse, “piango la mia mamma che tu stesso hai seppellito ieri”. “Ah sì”, dissi io, “allora devi almeno rivolgerti dall’altra parte, perché qui sei davanti ai morti del capoluogo”. Lei rimase di sasso, come gli altri della famiglia. “Oh mamma mia scusami, scusaci”, urlò. In preda ad una crisi isterica scoppiò a ridere. Anche gli altri scoppiarono a ridere e se n’andarono senza nemmeno un requiem alla povera madre.
Questo per far capire che nei cimiteri succedono cose che non immaginate nemmeno e che la gente a volte si comporta in modo veramente strano. Comunque, come avete già capito, quello del necroforo è un lavoro come un altro e a volte si trova anche il tempo per dare un’occhiata al giornale. Io, per questo, m’ero portata una sedia dalla scuola, perché facevo anche il bidello, e la tenevo sotto un cipresso all’ombra. Sullo schienale, dove i registi del cinema scrivono il loro nome, io avevo scritto con il pennarello: “Chi si siede sopra di me avrà la vita eterna”. Un giorno mi vede il sindaco e mi ferma. Fa: “Una ne fai e cento ne pensi”. “Perché?”, faccio io, “che cosa è successo?”. “E’ successo che sulla tua sedia si è seduta la moglie di mastro Lorenzo calzolaio con la speranza di avere lunga vita e quando le ho spiegato che la “vita eterna” è quella dell’altro mondo, subito si è spolverato il sedere con le mani come se si fosse seduta sulla farina”. Ridemmo parecchio anche in seguito. La gente può essere ignorante, ma è sempre estremamente curiosa. E’ così. Dunque, se avete ancora voglia di ascoltare ve ne racconto un’altra. Sì? Bene.
Succede che muore uno della frazione, quel Lorenzo calzolaio marito della donna che s’era seduta sulla mia sedia, e gli tocca in sorte di essere seppellito in quarta fila, nel loculo più alto, secondo quanto era prescritto da una delibera comunale. Una delibera sbagliata, secondo me, perché a iniziare dal basso, ogni volta che si occupa il loculo più in alto si sporcano le lapidi già sistemate di sotto; le regole, però, vanno rispettate. Muore questo Lorenzo e per portare la cassa lì in alto costruiamo una specie di palco. C’erano anche il sindaco e la guardia comunale. Solleviamo la bara con una certa fatica e la adagiamo là in cima, ma intanto che noi sudavamo, un figlio del morto ci minacciava di denuncia se avessimo fatto cadere il padre. Pazienza. Introduciamo la testa della bara nel loculo, perché è sempre la testa che va prima, e iniziamo a spingere in condizioni precarie d’equilibrio sopra quella specie di palco. Ad un certo punto, però, la cassa non vuole più entrare. Possibile che ci sia qualche intoppo, che in fondo sia più stretto? Non è mai successo prima. Era accaduto, invece, che un lembo della giacca della guardia era rimasta incastrata con la bara. La guardia sentendosi tirare, nella foga di spingere, credeva che qualcun altro spingesse lui di dietro. Alla fine, spingi spingi spingi, si rompe il lembo di giacca e la cassa va dentro di colpo all’improvviso. Noi che spingevamo con forza andammo tutti a sbattere la faccia contro il muro come tanti imbecilli. E i familiari del morto che stavano dabbasso? Si sganasciavano dalle risa. Anche a noi poi venne da ridere, alla guardia no, perché ci aveva rimesso una divisa nuova.
Potrei anche raccontarvi storie commoventi. Se le volete, le so. No? Va bene, però se voleste conoscerle fatemelo sapere.
(“il Rosone” – Anno XXI n. 5, 1998)
La vita è come un teatro, a volte si ride, a volte si piange.
Il custode di un cimitero ci delizia di racconti di paese, cosciente che il silenzioso mondo in cui lavora non è altro che un’appendice del luogo in cui vive. Uccio è spigliato e, senza accorgersene, ci fornisce un breve curriculum vitae ricco dei tanti mestieri intrapresi per sopravvivere: operatore ecologico, bidello e infine becchino. In poche parole, l’ideale di flessibilità secondo la politica Monti!
E dal momento che il protagonista si definisce in sintesi un tappabuchi, non vorremmo neanche che questo termine rientrasse nel già ampio dizionario usato dal governo a discapito dei mancati lavoratori italiani!
Per fortuna il nostro simpatico becchino è concentrato sul movimentare il ‘mortorio’ in cui è costretto a lavorare. Per farlo usa la fantasia. Niente di più scontato, allora, che sorprendere in flagrante uno scheletro che ha fatto le ore piccole disertando la propria bara fino al mattino. Il poveretto si prende il rimprovero dal custode e l’autore ne approfitta per mettere in risalto lo struggente legame tra vita e morte, eterno dilemma, lo stesso che attribuisce al defunto piccoli vizi umani come la golosità e la voglia di evasione pur essendo ormai ‘ridotto all’osso’.
La scena narrativa continua ad essere illuminata da flash di superstizione e da schemi sociali, quelli secondo cui l’esternazione del dolore deve essere scenografica, magari folcloristica alla maniera delle prefiche di paese, perchè non è solo la morte a fare paura, ma anche il dubbio di non apparire abbastanza addolorati davanti agli occhi degli altri e della propria coscienza.
Prove generali della nostra futura dipartita.
Interpretazioni e suggestioni a parte, Giorgio Cretì tratta la morte con rispetto, a volte con disincanto, di certo con saggezza e ironia. Lui sa che il dolore è un colore sacro e intoccabile dell’infinita gamma di tonalità che offre la vita.
Se dunque la morte appare boccone incandescente, l’autore riesce a maneggiarlo soffiandogli addosso la propria delicata umanità fino a raffreddarlo rendendolo commestibile.
Siamo affezionati al nostro ‘custode narratore’ che anche stavolta rende superba la conferma che l’ironia è il sale sia della morte che della vita, così come la conoscenza il gusto che le rende dolci.
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