di Raffaella Verdesca
“Vi alzate la mattina per andare a scuola e già vi pesa aspettare alla fermata dell’autobus.
Son stata giovane, anche se ora sono la nonna e basta.
A quel tempo mi alzavo la mattina presto, al buio, e contavo i letti delle mie sorelle ancora pieni dei loro sbuffi. Il fratello che mi è toccato, l’unico, aveva una stanza tutta per sé grazie al solito spudorato vantaggio di essere maschio.
Io, invece, non solo avevo avuto lo svantaggio di essere nata femmina, ma anche quello di essere nata per prima e quindi di lavorare il doppio degli altri.
Nel Salento gli effetti del fascismo e della guerra arrivavano in modo più ovattato che altrove: niente pane, tutti zitti e in riga.
Alla fabbrica del tabacco dove ho lavorato per anni, le operaie erano più grandi di me, già sposate, con figli, alcune anche con nipoti. Zitte e in riga anche lì, ad infilare foglia dopo foglia il tabacco a essiccare. Se mio padre non fosse stato un sognatore, non avremmo sofferto così tanto la fame!
In certi periodi essere troppo buoni è ancora più dannoso che in altri.
Papà, Francesco Marraffa, aveva terra e cavalli, ma non controllava mai la buona fede di chi lavorava per lui. Due cavalli bianchi, magnifici, li attaccava alla carrozza per portare i signori fino a Lecce o dovunque volessero andare. Dopo qualche anno d’imprudente fiducia negli altri, gli erano rimasti solo quelli. Mia madre, che lo amava e lo aveva sempre perdonato, dopo quel tracollo aveva dovuto agguerrirsi contro il mondo, calcolare al millesimo tutto quello che entrava e soprattutto usciva dalla nostra casa. Io, la più grande, sono diventata uguale a lei, le altre, l’esatto opposto.
Non mi sono mai lamentata se non c’era niente da mangiare, ma appena ho potuto sono andata via di casa, sposa a un uomo che non conoscevo tanto da poter amare, se non per la sicurezza del suo buono stipendio. Facevamo così quasi tutte a quel tempo e l’amore era un lusso che nessuna si poteva permettere. Più che scegliere mio marito, crescendo ho capito di essere stata scelta da lui.
Un uomo di mondo, vostro nonno: volontario in Libia, maresciallo dell’aeronautica, sapeva perfino parlare l’italiano dei signori, aveva amici e nemici sparsi ovunque, ma amava tutti allo stesso modo. Un gentiluomo.
“Rosina,” mi diceva da fidanzato “tu devi essere la madre dei miei figli. Due, non ne voglio di più. Sei bella, onesta, risparmiatrice, cosa si può volere di più da una donna?”
Allora era diverso, non era necessario amarsi per mettere su famiglia.
L’uomo è cacciatore, figlie mie, e quelle del mio tempo lo sapevano bene.
A me bastava avere la mia famiglia, da mangiare e una bella casa con il bagno dentro le mura.
Quello che pensavo fosse stato il lato peggiore di mia madre, caratteristica che tra l’altro ho ereditato, mi servì invece per amministrare bene i risparmi di famiglia.
Fossi nata maschio al posto di quel fannullone di mio fratello, avrei saputo io come comprare e rivendere! Vostro nonno non c’era mai, ma il controllo dei soldi era il mio vero lavoro, la mia specialità: ne guadagnammo due terreni e un’altra casa, anche se avrei saputo fare di meglio.
Mezzo paese sarebbe stato nostro, se il nonno non avesse avuto paura degli investimenti.
Pace all’anima sua, perché comunque non mi ha fatto mancare mai niente.
Quel marito mio di strano, era strano, ma non sono mai riuscita a capire di lui le sue fantasie sull’uguaglianza, su Dio, e soprattutto il suo strano modo di emozionarsi.
A differenza di quasi tutti i mariti dell’epoca, quello voleva che il suo primo figlio fosse femmina.
Finchè non seppi la verità, non me lo riuscii mai a spiegare.
“La voglio chiamare Liliana!” mi ripeteva senza darsi pace.
“Ma tua madre non si chiama Concetta?” gli ricordavo io le prime volte senza capire.
“E che m’importa?”
“Sai come vanno certe cose!” cercavo di farlo ragionare con la santa pazienza “Poi vedi che tua madre si offende perché non hai chiamato tua figlia col suo nome. Ricordati che sei il più grande di casa e spetta a te dare ai figli il nome dei tuoi genitori.”
Ma lui non mi sentiva neanche, perso chissà dietro a quali fantasticherie “La chiamerò Liliana e farà la maestra di scuola.”
Come volle Dio facemmo e Dio lo accontentò.
Nacque la mamma vostra, la chiamammo Liliana e il nonno fu al settimo cielo.
Solo il giorno prima che lui morisse seppi tutta la verità.
Mi chiese: “Vuoi sapere perché tua figlia si chiama Liliana?”
Rimasi ad ascoltare senza grande attenzione, allergica com’ero ai suoi pensieri difficili.
“Tu lo sai che mia madre non mi ha permesso di continuare gli studi. ‘Devi lavorare! Cosa sono questi lussi?’ mi diceva. E io svuotavo di nascosto le giare dell’olio per venderlo e comprarmi i libri.” cominciò a raccontare una storia che avvertivo sarebbe andata oltre al punto che già conoscevo.
“La cultura è importante, Rosina mia, non è sapere firmare come fai tu, ma è di più, è tutto!
In Libia, in guerra, l’ho incontrata, si chiamava Liliana.
Faceva la maestra e mi è sembrata quello che cercavo da sempre. Mi ha insegnato le cose che un uomo deve sapere per sentirsi istruito e io l’ho amata. Rimanevo ad ascoltarla per ore,…poi una bomba ed è finito tutto. Tu sei una brava donna, Rosina, hai ubbidito tante volte senza chiederti neanche il perché: Liliana, nostra figlia, ha preso solo il nome che non posso e non voglio dimenticare”.
Vedete come mi commuovo, belle della nonna? C’è poco da fare: quella era l’amore suo e se non fosse morta, quella si sarebbe sposata.
Non che non mi abbia voluto bene, per carità, ma il suo pensiero è stato fisso là per tutti questi anni.
La nonna vostra è vissuta sempre in grazia di Dio, troppe domande non se l’è mai fatte e ha campato anche senza saper scrivere. Però, dopo che ho saputo, mi è dispiaciuto di quella giovane brava e sfortunata. Qui, è vero, abbiamo patito la fame, ma la morte ci ha risparmiato e quella è il nemico più forte. Pace all’anima sua, giovane bella, ‘Cultura’ come la chiamava tuo nonno, che per quei libri avrebbe dato la vita!
La Lilianamia , finito il magistrale, voleva studiare medicina, ma suo padre non glielo permise: “No! Maestra di scuola!” e maestra di scuola la fece diventare proprio comela Lilianasua, forse per dare a quella un’altra possibilità di vivere.
Speriamo allora che voi che siete giovanette, non vi stanchiate di rimanere in piedi alla fermata dell’autobus, di studiare e di andare al lavoro con un po’ di raffreddore.
Più del mangiare, oggi serve capire, sapere.
Prendete anche la nonna come se fosse un libro, non scritto chè non lo so fare, ma vero.”
Racconto dal sapore autentico , bello e significante