di Michele Stursi
Rimango nel bar a sorseggiare il caffè e a cercare di finire il mio disegno. Mi accorgo per caso che Liana, la vecchia barista, mi osserva da dietro il bancone. Faccio finta di nulla e continuo a tracciare righe sul foglio, ma con la coda dell’occhio seguo i movimenti di quell’enigmatica signora. A un tratto questa si alza dalla piccola sedia dietro la cassa, viene verso di me e si mette a tamburellare con le dita sul tavolo. Prima fisso intimorito quelle dita grinzose e rigate da evidenti vene violacee, poi alzo pian piano lo sguardo e mi specchio in due grossi occhi azzurri, velati dalle cataratte. «Si trasutu intru lu castellu, no?[1]» – mi dice con tono severo, quasi voglia rimproverarmi qualcosa.
«Buongiorno signora, non riesco a capirla. Si può spiegare meglio per favore?» – le dico gentilmente, sforzandomi di accompagnare la richiesta con un sorriso.
«Sei entrato nel castello ieri?».
«Quale castello, mi scusi?» – la interrogo, non capendo assolutamente a cosa si stia riferendo.
«Il palazzo baronale. Che cosa hai visto? Hai preso qualcosa da lì dentro?» – mi chiede in un tono sempre più concitato e con uno sguardo nel quale riconosco per un attimo la stessa paura che avevo intravisto negli occhi di Chiara l’altra sera.
«No, non sono riuscito a entrare, ma non le nego che mi sarebbe piaciuto» – rispondo ignorando quello strano atteggiamento.
«Nu’ t’hai permettire[2]» – mi dice puntando l’indice verso di me.
Credo di aver ben capito, ma per essere sicuro le chiedo di essere più chiara.
«Non ti devi permettere di entrare in quel maledetto palazzo. Mi hai capito?».
Rimango ancora una volta freddato dalla passionalità e teatralità di questa gente, dall’abilità nel comunicare, nel trasmettere emozioni di qualsiasi tipo attraverso la mimica facciale, la gestualità e la plasticità del dialetto.
Trovo il coraggio di balbettare qualche sillaba, sento un blocco interiore incredibile, le gambe tremano per l’ansia che questa vecchia signora è riuscita a infondermi.
«Non faccio nulla di male, per quale motivo non dovrei visitare quel posto?» – riesco a dire lentamente.
«Statti ‘ttentu, fiju miu[3], la curiosità delle volte uccide». E con questa frase si avvia alla sua postazione, dove riprende a lavorare la lana con la stessa serenità di prima.
Ancora una volta esco da questo bar come dopo una doccia gelata in pieno inverno. Con passo veloce, mi avvio verso la piazza, guardandomi le spalle ogni dieci passi e per un attimo nella corsa ho come l’impressione di aver intravisto Eleonora. Ritorno qualche metro indietro ed effettivamente dietro un’enorme vetrina vedo la giovane pittrice nel pieno della sua creatività. Mi avvicino adagio, mi siedo sul marciapiede e la osservo estasiato: è fantastico lo stile con cui porta il colore sulla tela, quel piccolo pennello nelle sue tenere mani bianche sembra uno scettro, piccoli tocchi, rapidi, si susseguono uno accanto all’altro; come in uno stillicidio gocce di colore cadono sulla tela e nella mente dell’artista si trasformano in piccole foglioline argentee. Quel movimento dolce e leggiadro, in avanti e indietro, prima sul piano di lavoro dove il pennello si sporca di verde, e poi sulla tela, mi ricordano un vecchio dondolo sulla spiaggia: ogni pittore dipinge sulla sua spiaggia, davanti a un mare di fantasia, in un mondo in cui la realtà è acqua, e come tale non ha forma, ma assume quella che l’è data. In quell’andirivieni lei mi scorge, diventa rossa in viso e interrompe il suo lavoro; poggia il pennello in un bicchiere pieno d’olio di lino e si dirige verso di me. Da dietro la vetrina mi guarda e poi inizia a farmi degli strani gesti: interpreto un “Che cosa vuoi?” e poi ancora un “Entra, dai!”. Io esito un attimo, ma un minuto dopo sono seduto su una poltrona di pelle rossa e fisso estasiato decine di ulivi.
«Non credevo ci rivedessimo così presto» – sorride mentre si accomoda su un piccolo sgabello ai piedi di un enorme ulivo secolare, che sembra abbracciarla e coccolarla con i suoi grossi rami spogli. «Passavo da queste parti e sono rimasto colpito dalla bellezza dei tuoi quadri» – mi giustifico, forse arrossendo.
«Benvenuto nel mio mondo» – dice allargando le braccia come a volermi presentare le sue opere. Mi guardo intorno e in un primo momento questi dipinti sembrano tutti identici, ma non oso fare un’osservazione del genere, forse per imbarazzo o perché ho paura di passare ancora una volta per il superficiale di turno.
In questa panoramica noto in un angolino, poggiato per terra, un piccolo quadro che da lontano non sembra essere un ulivo. «E quello?».
tratto da Il Mangialibri di Michele Stursi, L’Osservatore Nohano, 2010