di Marcello Gaballo
Molti di coloro che ci leggono avranno perlomeno sentito parlare talvolta del termine salentino acchiatura, un termine derivato dal verbo acchiare (ital. trovare), ovvero un tesoretto di discreto valore nascosto in caverne, grotte e soprattutto sotto i pavimenti delle chiese.
In particolare era stato riposto non si sa mai da chi e quando nelle chiesette rurali, in un anfratto della sua muratura o ai piedi dell’altare. Nei paesi salentini che conservano menhir o dolmen, sempre secondo la tradizione popolare, essi erano nascosti nelle immediate vicinanze del megalita.
Tali false convinzioni, purtroppo, hanno portato allo sfacelo di intere costruzioni, spesso sventrando pavimenti, demolendo altari, svellendo porte ed infissi di cappelle e oratori privati, per lo più extra moenia, perché non custoditi e privi di guardianìa. Danni incalcolabili per le strutture e, una volta tanto, bisogna essere lieti che simili credenze siano scomparse (anche se, a dire il vero, sono scomparse anche tali architetture minori).
Non credo che l’opinione sia prerogativa del Salento, perché ho trovato scempi similari anche in altre regioni, in Sardegna in particolare.
Trovare uno di questi tesori significava vivere agiatamente il resto della propria vita e mai nessuno ha rivelato ad altri la consistenza della fortuna, tantomeno alla moglie o al marito, nel caso fosse stato il coniuge a rinvenirlo. Insomma, un segreto da portare con sé nella tomba.
Per il nostro popolo custodi di questi tesori erano i folletti, tanto che potevano essere loro a riverlarne il luogo, nelle rare occasioni in cui avrebbero conosciuto una persona particolarmente simpatica e meritevole. A meno che qualcuno particolarmente sveglio non fosse riuscito a strappare il cappuccio dal suo capo, costringendolo così alla confessione. Il folletto in genere custodiva pentole colme di monete d’oro, così come si accadeva per i loro cugini sparsi nelle diverse regioni d’Italia, in Irlanda e in numerose altre nazioni europee.
A dire il vero, ma non per dissacrare radicate leggende, l’evento in più di qualche occasione veniva preso in prestito per giustificare somme introitate in maniera truffaldina o, più spesso, per spiegare denari estorti o elargiti dall’amante.
Ricchezze improvvise in un ambiente in cui si conosceva davvero tutto dei vicini e dei parenti, perfino l’ora della sveglia, oggi sarebbero giustificate da un generoso 13 o da una vincita al lotto o, meglio ancora, da un Grattaevinci. Allora concludevano:
cu tre cose si rricchesce:
cu l’acchiatura, cu la ncurnatura e cu la manica ti tiraturu
(letteralmente: con tre cose ci si arricchisce:
con l’acchiatura, le corna e un cassetto aperto)
ovvero con il tesoro svelato, le corna o un furto.