di Pier Paolo Tarsi
Un sottile e ininterrotto filo rosso lega in Italia le dinamiche sociali migratorie interne dal dopoguerra ad oggi, emergendo come una durevole tendenza che si fonda, ieri come oggi e nonostante le pur importanti differenze storico-contestuali, sull’incolmato divario economico tra Nord e Sud del Paese.
Tra i dati del recente “Rapporto SVIMEZ sull’Economia del Mezzogiorno”, pubblicato il 16 luglio ‘09, balza agli occhi l’impressionante cifra di 700 mila individui che, tra il 1998 e il 2008, hanno dovuto abbandonare il Mezzogiorno per collocarsi nel mercato del lavoro centro-settentrionale.
Si tratta per lo più di giovani (l’80% ha meno di 45 anni), provenienti nell’87% dei casi – in ordine di consistenza numerica – da Campania, Puglia e Sicilia e diretti principalmente in Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio, con un livello di studio medio-alto: il 24% è laureato, il 50% svolge professioni di livello elevato. «Nel mezzogiorno – si legge nella sintesi del rapporto – le debolezze della rete formativa italiana si associano ad un contesto produttivo debole e ad un sistema sociale sostanzialmente bloccato, impedendo così ai progressi quantitativi realizzati nei tassi di istruzione di tradursi in sviluppo economico e civile» (Sintesi Rapporto SVIMEZ).
Dal 1992 al 2004, prosegue il Rapporto, i laureati meridionali che hanno studiato al Nord e lì sono rimasti sono arrivati a toccare il 67% del totale; in vistosa crescita inoltre le partenze dei laureati eccellenti del Sud: se nel 2004 «partiva dal meridione il 25% dei laureati col massimo dei voti, tre anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38%» (Ibidem).
Sulla scia di questi dati, possono emergere al contempo tanto la continuità quanto la radicale diversità dell’attuale tendenza migratoria rispetto a quella storica che vide il boom tra gli anni Cinquanta-Sessanta: per un verso infatti le impressionanti cifre della grande emorragia di giovani e manodopera di alto livello che dal Sud confluiscono e vengono assorbiti nel Centro-Nord riportano alla memoria i grandi esodi dei primi decenni del dopo-guerra; dall’altro, se, come si legge nel citato rapporto, «è la carenza di domanda di figure professionali di livello medio-alto a costituire la principale spinta all’emigrazione», possiamo immaginare quanto diversamente si connotino dal punto di vista della fisionomia sociologica e antropologica i due fenomeni migratori.
Lo sfondo della grande migrazione interna che interessò il Paese nel Dopoguerra è quello di un’Italia che marciava verso un rapido boom economico fondato sulle attività impiantate nel triangolo industriale secondo una concentrazione che assecondava e rimarcava, ampliandole, più antiche differenziazioni e disparità socio-economiche.
I capoluoghi industriali del Nord-Ovest, come Torino e Milano, erano infatti tra le mete primarie di quelle masse di meridionali che abbandonavano a milioni un meridione contadino in cui vana e illusoria si era rivelata la riforma agraria, attuata dal governo centrista negli anni ‘50: questa, ai primi segni di ripresa industriale, non era riuscita a contenere il fenomeno di migrazione dalle campagne che avrebbe piuttosto assunto proporzioni imponenti proprio alla fine di quel decennio.
Appartiene a tale massa di individui l’emigrante meridionale, il contadino per lo più illetterato e un po’ spaesato, la cui immagine, fedelmente restituitaci dall’immaginario fotografico, documentaristico e cinematografico (implacabilmente neorealista), si completa di una valigia di cartone in stazione, ben legata a contenere forse pochi stracci e tante speranze, già nutrite e coltivate dall’ancella più fedele dell’incipiente civiltà del benessere, la cassa di risonanza fantastica privilegiata della società di massa, ossia la televisione: «Soprattutto tra i più giovani il desiderio delle attrattive offerte da una città divenne dilagante quando dalla televisione del bar di paese apparirono le nuove immagini di un mondo consumistico fatto di vita mondana, di campioni sportivi, di attrici famose, case piene di elettrodomestici, gite domenicali nella Fiat di famiglia» (Fofi G., L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1975).
Per molti versi quei sogni e quelle speranze divennero realtà attraverso la realizzazione di un benessere economico dovuto proprio al sudore di quelle braccia volitive.
Quasi tutto da allora è mutato nella forma, quasi niente, si è costretti a concludere, nella sostanza: se infatti, come indica il rapporto SVIMEZ, masse sterminate di giovani sono ancora costrette a spostarsi da un capo all’altro dell’Italia inseguendo i propri sogni di personale realizzazione, quel sottile filo rosso di cui si diceva non si è allora affatto spezzato nei decenni e, ancora oggi, dopo mezzo secolo, segnala come l’ago in una bussola la stessa medesima direzione di allora: da Sud a Nord!
Sono mutati profondamente i particolari e le manifestazioni di uno sfondo divenuto nel frattempo post-industriale: le valigie di cartone colme di stracci e vivande nelle stazioni hanno lasciato il posto ad agevoli trolley riempiti di notebook di ultima generazione o lettori iPod con cui intrattenersi e ingannare l’attesa di un viaggio, il quale potrebbe risultare discretamente lungo e noioso anche nel XXI secolo qualora non si abbia avuto modo di prenotare un volo low-cost su Internet.
Tutto è mutato, tranne forse l’essenziale: quel particolare mondo industriale post-bellico nel cui ambito gli storici hanno rilevato una importante matrice del divario economico nel Paese è definitivamente tramontato nei suoi costituenti, non altrettanto può dirsi tuttavia per il divario stesso che lo caratterizzava.
Individuare le ragioni di ciò è compito di critica e auto-critica che richiede un’analisi complessa dell’intera realtà economico-sociale in cui viviamo, compito che non si tenta nemmeno di accennare qui ma che basti indicare al lettore come impresa conoscitiva cui lo si vorrebbe spronare per il bene del Mezzogiorno stesso.