Alezio. S. Maria della Lizza, affresco di Santo Stefano
di Nicola Fasano
Stefano, il cui nome di origine greca significa “corona”, è il protomartire della fede cristiana, vissuto in Palestina nel I secolo. Probabilmente ebraico di origine ellenica, fu il primo nominato di sette diaconi incaricati di curare la distribuzione quotidiana del cibo ai più bisognosi. Tra loro Stefano si distingueva per la profonda conoscenza delle scritture e per l’eloquenza. Queste doti furono causa del suo martirio. Durante il sinedrio di Gerusalemme, organo preposto all’emanazione delle leggi e alla gestione della giustizia, Stefano scatenò le ire dei membri, accusandoli nel suo discorso (Atti, 7, 2-56) di essere miscredenti e di avere ucciso il Messia, già preannunciato dai Profeti. Conclusa la sua arringa, come riportano gli atti, il Santo esclamò : “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”, ciò aizzò maggiormente gli astanti che trascinarono Stefano sul luogo del martirio per lapidarlo impietosamente fino ad ucciderlo. La salma del Santo venne inumata da Gamailiele che, secondo la tradizione, rivelò in una apparizione il luogo preciso della sepoltura, scoperto nel 415, circa 400 anni dopo il martirio. Le reliquie di Stefano vennero distribuite in tutto il mondo cristiano, alimentando il culto in suo onore.
Il Santo, festeggiato il 26 dicembre in Occidente e il 27 in Oriente, viene ritenuto protettore dei diaconi, dei muratori, dei frombolieri, è inoltre invocato contro l’emicrania e i calcoli renali.
Dal punto di vista iconografico, il soggetto trova larga diffusione in Italia e in Francia nei secoli XV-XVII;[1] viene rappresentato come un giovane abbigliato con la dalmatica, spesso accompagnato da attributi quali le pietre simbolo del martirio e il libro simbolo della sua conoscenza. Molto frequenti sono le rappresentazioni nelle quali il Santo discute tra i Dottori, predica o distribuisce l’elemosina. La raffigurazione che tuttavia connota maggiormente il Martire è indubbiamente la sua lapidazione, di cui abbiamo un eccellente saggio pittorico nella chiesa di Sant’Irene a Lecce.
La tela in questione, collocata sull’altare eponimo, vede il Santo incastonato in un rimando di diagonali, colto nel momento della cruenta esecuzione.
Il supplice volge lo sguardo pietoso verso l’alto, dove appaiono Cristo alla destra di Dio Padre, secondo la visione di Stefano; il gruppo divino è circondato da un nugolo di cherubini i quali recano i simboli del martirio. Nella parte bassa del dipinto (molto rovinata), a sinistra si scorge Saulo spettatore della lapidazione, ai cui piedi gli aguzzini hanno gettato i loro mantelli. L’opera, creduta in precedenza di Giuseppe Verrio,[2] è stata attribuita dalla critica successiva al più quotato fratello Antonio.
Entrambi leccesi, Antonio, in un primo tempo, segue attentamente la lezione del gallipolino Coppola, successivamente si trasferirà a Napoli per affrescare la Farmacopea dei Gesuiti; qui probabilmente guarda con attenzione lo stile dei maestri del periodo, assorbendo non a caso la lezione del naturalismo che di tanto in tanto affiorerà nei suoi dipinti. In seguito, si trasferirà in Toscana, poi in Francia e infine in Inghilterra dove fu pittore di corte.
Artista dallo stile eclettico, non riconducibile a una scuola in particolare ed anzi sperimentatore di nuove maniere.[3]
Nell’opera in questione il D’Elia[4] rivelava un ductus legato ai modi toscani, in particolare al Cigoli. Come sottolineato da Castellaneta,[5] reminiscenze del naturalismo napoletano sono invece evidenti negli aguzzini e nel soldato in primo piano, che lo studioso riconduce a quelli presenti nel ciclo della Gerusalemme Liberata del Finoglio.
A questo aggiungerei la componente falconiana, sempre desunta dal ciclo di Conversano e gli influssi del Coppola già ravvisati da Galante.[6] Non manca inoltre la matrice emiliana – forse assimilata dallo stesso Coppola – poiché la gestualità bloccata del Santo trasmette un intenso patetismo, caro ai dettami controriformistici.
Un’opera che interpreta quindi e riassume le forme più congeniali al pittore, la cui datazione è attestata intorno alla fine degli anni ’50 del XVII secolo, anni del suo ritorno a Lecce.[7]
Tipico del maestro è il modo di trattare il panneggio con colori squillanti e vivaci che fanno risaltare lo scialle rosso del soldato, il lino bianco della cotta e la pregiata decorazione della dalmatica, memore, secondo Galante, dei modi fiorentini alla Pagani[8] e, perché no, dei preziosismi serici del Finoglio.
Testi consultati
- AA.VV., Barocco leccese, Milano 1979;
- AA.VV., Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, Galatina, 1974;
- AA.VV., La Puglia tra Barocco e Rococò, Napoli, 1982;
- AA.VV. Ricerche sul sei-settecento in Puglia, Fasano, 1984;
- CASSIANO A. (a cura di), Il Barocco a Lecce e nel Salento. Catalogo della Mostra. Lecce 8 aprile – 30 agosto 1995, Roma, 1995;
- D’Elia M., Mostra dell’arte in Puglia dal Tardo Antico al Rococò, Roma, 1964;
- Giorgi R. (a cura di), Dizionario dell’Arte, I Santi, Milano, 2002;
- Hall J., Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte;
- Lanzi F. e G., Come riconoscere i Santi e i Patroni, Milano 2003;
- Paone M., Chiese di Lecce, Galatina 1979;
[1] J. Hall , Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte
[2] M. D’Orsi .in, Mostra retrospettiva degli artisti salentini, Lecce, 1939 p. 18.
3 AA.VV., Il Barocco a Lecce e nel Salento, Roma, 1995 p. 420.
4 M. D’Elia in, Mostra dell’arte in Puglia dal Tardo Antico al Rococò, Roma, 1964 p. 181.
5 G. Castellaneta , L’attività francese di Antonio Verrio in Ricerche sul sei-settecento in Puglia vol.II, Fasano, 1984 p. 115.
6 L.Galante in, Sintonia e varianti della pittura salentina nell’incontro con la cultura metropolitan, inBarocco Leccese, Milano, 1979 p.
[7] L.Galante in, Il Barocco a Lecce e nel Salento, Roma, 1995 p. 68.
[8] L.Galante, Schede per il problema Verrio, in Studi in onore di Giuseppe Chiarell vol.III, Galatina, 1974 p. 477